Oltre Ubik…

Per concessione dell’autore riprendo (come già il 14 e il 21 dicembre) un capitolo di “Visioni dal futuro“, il libro che Fabrizio Chiappetti ha dedicato a Philip Dick. Fra 7 giorni si bissa. (db)

Goffredo Fofi ritiene che Dick “pensò di aver scritto con Ubik non un grande romanzo (non era questo che gli importava, non era la letteratura il suo scopo), ma un romanzo di rivelazione”.1 I saggi dickiani apparsi negli anni successivi ad Ubik rafforzano l’ipotesi avanzata da Fofi, come nel caso di Uomo, androide e macchina, 2 in cui Dick scrive che “Ubik era innanzi tutto un sogno, o una serie di sogni ”; il sogno della vita liberata, almeno in parte, dalla corruzione della morte. Emmanuel Carrère interpreta lo spray Ubik nella direzione di un oggetto simbolo di “un’eucaristia positiva (in netto contrasto con l’eucaristia negativa consumata nel nome di Palmer Eldritch) vale a dire l’eucaristia vera, l’unica, anche se presentata sotto la forma derisoria di uno spruzzatore”.3 Ubik è il campione della vita in lotta con la tendenza universale che comporta il ritorno del nulla, dell’inorganico, dell’assenza di ogni qualità. L’asse temporale su cui ha luogo questo scontro cosmico è, come già più volte si è ripetuto, trasversale rispetto all’asse lineare che collega i fatti dell’esistenza quotidiana.

L’intuizione di questa duplice dimensione della realtà non è un semplice espediente letterario, ma un’idea filosofica che ha avuto più di un illustre sostenitore nel corso dei secoli. “Parmenide”, a parere di Dick, “è colui che per primo in Occidente ha fornito la prova che il mondo non può essere come lo vediamo”.4 Tra l’uomo e l’universo esiste un dokos, un velo protettivo che nasconde la vera natura di ciò che è reale. Parmenide, da parte sua, ritiene di dover stabilire uno iato tra il mondo dell’esperienza, caratterizzato dal cambiamento e dallo scorrere del tempo, e l’Essere vero ed eterno, oggetto della contemplazione del sapiente, così da salvaguardarne la natura divina insidiata da vicino dallo sviluppo della dialettica filosofica.5 Secondo Dick, quello di Parmenide “è praticamente lo stesso concetto espresso da S. Paolo, quando afferma che noi vediamo come in uno specchio. Ma Paolo dice qualcosa in più: dice che noi potremmo benissimo vedere l’universo al contrario”.6 Questo significa che il tempo percepito come successione lineare di istanti non è il tempo reale. Dick esamina allora l’idea bergsoniana del tempo come durata, che però è sempre un tempo “cumulativo”, e che come tale “procede in una sola direzione e trascorrendo si aggiunge al tutto, o lo costituisce”.7

A dire il vero, la concezione del tempo che Bergson espone in Materia e memoria e, nella fase matura, ne L’evoluzione creatrice, non coincide completamente con quella espressa da Dick. Il tempo, per il filosofo francese, non scorre tutto uguale come invece sembrerebbe osservando il semplice movimento delle lancette dell’orologio: il tempo dura. E la durata è questo processo continuo di cambiamento, di produzione di forme inedite a cui la coscienza si volge in maniera non altrettanto continua. “La nostra vita psichica” si legge nel primo capitolo de L’evoluzione creatrice, “è piena d’imprevisti, mille incidenti vi sorgono, che sembrano nettamente separati da quanto li precede (…). Su di essi si arresta l’attenzione, perché interessano maggiormente, ma ciascuno d’essi è sorretto dalla massa fluida della nostra vita psichica”.8 In un altro passo Bergson estende le considerazioni, fatte intorno alla natura degli stati di coscienza, alla realtà esterna, giungendo ad affermare che tutto l’universo è durata. Più approfondiremo la natura del tempo”, scrive il filosofo, “più comprenderemo che durata significa invenzione, creazione di forme, elaborazione continua dell’assolutamente nuovo (…). Ma nell’universo stesso bisogna distinguere, come vedremo più oltre, due movimenti opposti: l’uno di discesa, l’altro di ascesa”.9 La durata, insomma, è l’unica cosa reale; meglio ancora sarebbe affermare che la realtà è durata. Ciò che è reale non è niente di definito o di fisso, ma si sviluppa come processo incessante di produzione, di creazione assolutamente nuova e imprevedibile.

Bergson, inoltre, teorizza l’esistenza di due fondamentali livelli del reale, distinti in materiale e spirituale. Entrambi sarebbero espressione di un unico movimento creativo che, mentre nel mondo materiale appare ancorato alle leggi fisse della meccanica e della scienza in generale, nel mondo della coscienza dispiega le sue potenzialità di creazione incessante. La coscienza (o sovra – coscienza), in particolare, “è il razzo i cui frammenti spenti ricadono in materia, coscienza è ciò che permane del razzo stesso, che attraversa i frammenti e li illumina in organismi. Ma tale coscienza, che è un’esigenza di creazione, si rivela a se medesima solo là dove la creazione è possibile. Si assopisce quando la vita è condannata all’automatismo; si risveglia appena rinasce la possibilità di una scelta”.10 Il cammino della vita, pertanto, sembra non essere “a una sola direzione”; assomiglia piuttosto ad un’esplosione multidirezionale. Tra Dick e il Bergson citato dallo stesso Dick su questo punto non c’è piena sintonia. Ma la convinzione che il tempo lineare sia un’illusione, un’astrazione rispetto al tempo della vita psichica, o al ritmo secondo cui si sviluppa il cosmo, li trova nuovamente sulla stessa lunghezza d’onda. Per trovare un’immagine calzante di quello che definisce “tempo ortogonale”, Dick ricorre all’affermazione di S. Paolo: “La fine del mondo sarà il tempo della restaurazione di tutte le cose”. Paolo, a parere di Dick, “aveva sufficiente esperienza del tempo ortogonale per capire che questo si sviluppa in modo simultaneo e coestensivo, proprio come i solchi di un LP (…). Un disco, in effetti, non è che una lunga spirale concentrica”.11 La spirale, pertanto, è la figura scelta da Dick per rappresentare il tempo ortogonale: il tempo è costituito da una curva continua, e non da una serie di biforcazioni tra coscienza e materia come invece accade all’intero dell’universo bergsoniano. Ma la spirale è anche un simbolo archetipico noto agli antropologi, che sta a significare “il luogo ignoto del passaggio all’aldilà, la caverna, l’utero della Grande Madre”.12

L’andamento della linea a spirale racchiude in sé molteplici messaggi, quali la conservazione, espressa tramite la ciclicità, la crescita e il rinnovamento, che assumono un carattere drammatico rispetto alla “pacifica” rigenerazione stagionale del mondo naturale. Le volute della spirale del tempo ortogonale suggeriscono a Dick una chiave di lettura nuova dell’esperienza umana. La vita quotidiana si spinge in avanti, regolata com’è dal tempo uguale scandito dall’orologio, dal quel tempo lineare formato dal succedersi dei giorni, degli anni e dei decenni; ma la retta dell’esistenza non può evitare di intersecarsi con le volute dell’altro tempo, del tempo della vita che partecipa della crescita del cosmo e che prepara in silenzio la sua totale e definitiva rigenerazione. Per la maggior parte degli uomini, però, il tempo ortogonale non esiste, o se ne ha coscienza solo in minima parte. Sono creature, questi esseri semi-vivi, che ignorano verso quale orizzonte si sta muovendo la loro coscienza, che non pensano alla pienezza di vita, alla novità assoluta che li aspetta. “Siamo in una condizione di semi – vita”, si legge in Uomo, androide e macchina, “come i personaggi del mio romanzo Ubik (…).”13

Il torpore della semi-vita addormenta l’anima e la distoglie dal suo compito principale, che è quello di mettere l’uomo nella condizione di contemplare la sua vera natura, il suo effettivo destino. La semi-vita, che pure aspira ad una sorta di permanenza, pallida imitazione dell’eternità verso cui marcia la vita, assomiglia ad una prigione in cui gli uomini sono come strappati dallo specchio in grado di restituire loro il volto, il loro stesso volto. Nelle pagine più intese di Uomo, androide e macchina Dick riprende con grande vigore il tema del radioso risveglio che attende l’umanità:

Come le sinfonie di Beethoven”, scrive, “ognuno di noi è unico e quando il lungo inverno finisce, come nuovi germogli sorprenderemo noi stessi e il mondo attorno a noi. Siamo tanti Palmer Eldritch in movimento nella nebbia gelida, ma presto riemergeremo e smetteremo la maschera d’acciaio, per rivelare il volto sottostante. È un volto che neppure noi, portatori di maschere, abbiamo mai visto.14 In un certo senso l’uomo deve ancora nascere, deve uscire dal grembo del tempo ortogonale per trovarsi finalmente privo dei limiti imposti all’esistenza quotidiana, non più “portatore di maschere”.

 

2. La lunga marcia della coscienza è insieme recupero della sua realtà originaria e produzione assoluta di novità (e qui ritorna un tema caro a Bergson). Dick è convinto che il seme del risveglio sia deposto nella struttura della mente umana. Sulla base delle (allora) recenti acquisizioni in campo neurologico15, è possibile ipotizzare che gli uomini siano dotati di due menti distinte e localizzate negli emisferi destro e sinistro del cervello. Queste due metà ricevono gli stessi segnali dal mondo esterno: la differenza sta tutta nel tipo di elaborazione a cui viene sottoposto il materiale informativo.

In precedenza, anche Bergson si era pronunciato a favore dell’idea che l’attività cerebrale segua una duplice impostazione, senza tuttavia entrare nel merito della localizzazione neurale. Per il filosofo francese “la funzione del meccanismo cerebrale è appunto quella di ricacciare la massima parte del passato nell’incosciente, per introdurre nella coscienza solo ciò che può illuminare la situazione attuale, agevolare l’azione che si prepara, compiere un lavoro utile”.16 Bergson distingue due tipi di memoria, non due cervelli.

In Materia e memoria Bergson definisce memoria pura ciò che contiene tutto il passato psichico di ciascuno, quel passato che “si conserva da se stesso, automaticamente, e che ci segue tutto intero, in ogni momento”.17 La seconda forma della memoria si trova allo stato cosciente ed è usata comunemente nelle azioni quotidiane. Essa è costituita non da tutti i ricordi, ma solamente da “ricordi – immagini ” che la pratica ha tradotto in sequenze apposite, da ripetere ad ogni precisa stimolazione. Il ricordo – immagine non è un “vero” ricordo, poiché non conserva un elemento del passato se non allo scopo di effettuare una scelta al momento presente. Bergson afferma esplicitamente che “del mio passato diventa immagine, e di conseguenza sensazione nascente, soltanto ciò che può collaborare a quest’azione (più sopra Bergson ha definito il presente come “la mia azione imminente”); ma, non appena diventa immagine, il passato lascia lo stato di puro ricordo e si confonde con una certa parte del mio presente. Il ricordo, al contrario, impotente finché rimane inutile, resta puro da ogni mescolanza con la sensazione, senza legame col presente”.18

Pertanto, la memoria cosciente formata dai ricordi – immagine non è vera memoria, ma “abitudine illuminata dalla memoria”.19 Anche in questa occasione Dick si fa interprete del pensiero di Bergson arrivando, com’è suo costume, al limite del fraintendimento. “Ho la netta sensazione”, scrive Dick, “ che Carl G. Jung avesse ragione, a proposito dei nostri inconsci personali, quando affermava che essi costituiscono un’entità unitaria da lui chiamata inconscio collettivo. In tal caso, questa entità cerebrale collettiva formerebbe una vasta rete di comunicazione e informazione (…). Ciò dà luogo a una Mente enorme, dotata di una potenza tale da sembrarci indistinguibile dal Creatore. Questa, perlomeno, era la concezione di Dio formulata da Bergson”.20

Per l’ennesima volta Dick chiama in causa l’illustre filosofo senza curarsi troppo delle evidenti forzature a cui vanno incontro le sue interpretazioni. È vero, infatti, che nell’Evoluzione Creatrice compare il termine sovra – coscienza (tradotto anche con super-coscienza); ma è altrettanto vero e documentabile che con esso Bergson designa il fondamento della coscienza empirica individuale, non il frutto di connessioni collettive. Si tratta di un’espressione coniata dal filosofo per indicare l’attività creatrice e infinita che pervade l’intero universo, che plasma e contemporaneamente eccede, trascendendo tutto e tutti. Altrove, Bergson la chiama mobile eternità di vita21, identificando con essa la propria concezione di Dio che, così definito, “non è un nulla di fatto: è vita incessante, azione, libertà”. Paradossalmente, il Dio di Bergson si avvicina più a Ubik (lo spray) che all’unione di cervelli prospettata da Dick: Ubik lotta contro il disfacimento entropico e la regressione spazio – temporale. “Ubik è vita, dà vita, ma senza mai definirsi, perché è impossibile dare ad esso, e a noi, un nome preciso22.

Un’ultima osservazione a proposito di questa “entità cerebrale collettiva” ipotizzata da Dick, che a suo dire formerebbe “una vasta rete di comunicazione e informazione”: chissà cosa direbbe oggi Philip Dick circa l’esistenza di Internet e della sua influenza sul modo di pensare e di comunicare di milioni di persone. Con Internet gli uomini hanno davvero iniziato una nuova era della civiltà, il cui presupposto fondamentale è proprio la presenza di una rete di comunicazione universale. Con il solo sforzo della navigazione è possibile muovere notizie, denaro, servizi e conoscenze che in qualsiasi altro contesto storico avrebbe richiesto ben altro dispendio di energie. Il mondo in rete è un mondo che corre con la leggerezza e la rapidità dei bit, in cui è possibile trovare di tutto, ma in cui ci si può anche perdere. Nella rete non c’è, né peraltro potrebbe esserci, un centro. Non c’è modo di sapere dove si è esattamente, in assenza di un punto comune di riferimento. Chissà se, posto di fronte alla realtà di Internet, Dick l’avrebbe ancora paragonata alla noosfera quasi divina, di cui l’umanità è dotata anche se inconsapevolmente. Il potere messo a disposizione dalla rete, così impalpabile, invisibile, forse avrebbe finito per ricordargli il mondo perfetto di Eldritch, dove tutto diventa possibile ma da cui è anche scomparso l’uomo in carne e ossa.

 

 

3. Il nodo che Dick non riesce o non vuole sciogliere, sta nel considerare l’umanità nuova come il sogno di Dio che rinnova l’universo con “nuovi cieli e nuova terra23, oppure Dio stesso come il sogno di una mente infinita collettiva, espresso in gran parte in forma simbolica e inconsapevole. In Uomo, androide e macchina Dick non si sbilancia ulteriormente; più esplicito, invece, risulta il testo del celebre discorso che pronunciò al festival della fantascienza di Metz, in Francia, nel settembre del 1977.

In quell’occasione Dick lasciò sconcertata la platea, che era pronta ad adorarlo solo se avesse incominciato ad inveire contro i nazisti, ricordando le pagine di The Man in the High Castle, oppure a profetare qualche catastrofe cosmica legata all’invasione degli alieni o agli effetti di una nuova droga come ne Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Dick non disse nulla di simile. Si limitò a constatare che “siamo abituati a credere che tutti i cambiamenti abbiano luogo sull’asse del tempo lineare: dal passato al futuro, passando per il presente. (…) Che un asse temporale ortogonale o perpendicolare possa esistere è cosa quasi impossibile da immaginare”.24 Volendo inoltre fornire un esempio di evento trasversale rispetto all’asse del tempo lineare, aggiunse che “nel Nuovo Testamento veniamo spesso invitati alla vigilanza, perché per il cristiano è sempre giorno, c’è sempre luce sufficiente per vedere l’arrivo del Regno di Dio (…). Mi pare che qui si voglia esprimere il paradossale concetto secondo cui il Regno, se fosse istituito sulla terra, non sarebbe visibile a chi ne è al di fuori. La mia interpretazione del senso di quest’idea è che alcuni di noi passeranno trasversalmente in quel mondo migliore e altri no: questi ultimi rimarranno impantanati lungo l’asse trasversale, ovverosia nel loro mondo trasversale il Regno non è giunto. Eppure, simultaneamente, è giunto nel nostro. Cosicché il Regno viene e non viene. Strabiliante.25

Meno strabiliante fu la reazione del pubblico, gelato dall’imprevista apertura teologica del suo beniamino. Tuttavia c’era da aspettarselo, da parte di un autore insofferente nei confronti della letteratura facile e di largo consumo, e propenso invece a considerare i suoi romanzi alla stregua di una filosofia, meglio ancora di una teologia inconsapevole, che si rende manifesta attraverso la creazione di oggetti letterari. Perciò nei Saggi sono frequenti le auto-citazioni, i ripensamenti, in cui Dick si rende conto di aver scritto nel tal libro più di quanto sapesse o sospettasse.

L’ultimo di questi saggi, recentemente raccolti e tradotti per la prima volta in italiano, oltre ad essere il più lungo, è senza dubbio il più ricco di spunti e di rimandi filosofici. Dick ne inviò una copia dattiloscritta al suo agente, col titolo provvisorio di Cosmologia e cosmogonia.26 Dick ritiene che la realtà scaturita dall’esperienza sensoriale e dalla corrispettiva organizzazione psichica non sia la realtà vera, dove per vera si intende ciò che ha in sé tanto il fondamento quanto la ragione del proprio essere. Detto altrimenti, perché qualcosa è (domanda del fondamento)? Perché qualcosa è così (domanda della ragione)?

Le domande classiche della filosofia sono le stesse a cui Dick cerca una risposta, che non può combaciare con le verità pratiche del senso comune: sarebbe come scambiare, ancora una volta, per vera l’ombra degli oggetti che il fuoco proietta sul fondo della caverna. “Se si ammette”, esordisce Dick, “che la nostra realtà consiste in una sorta di quadro proiettato, apparirà chiaro che tale proiezione deve essere opera di un artefatto, una macchina insegnante simile a un computer che ci guida, ci programma e, in generale, ci controlla mentre agiamo inconsapevoli della sua presenza all’interno del nostro mondo proiettato”.27 L’artefatto contiene il fondamento e la ragion d’essere della realtà proiettata, ma non le proprie; è necessario ipotizzare l’esistenza di un artefice. Nel creare l’artefatto, l’artefice è mosso dall’esigenza di trovare “uno strumento che gli consenta di attingere l’autocoscienza”.

Dick denomina l’artefice Urgrund, prendendo in prestito un termine chiave della mistica protestante già presente nell’opera di Jakob Böhme28. Per l’esattezza, il grande mistico tedesco fa uso del termine Ungrund, che letteralmente significa il “senza fondamento”. Con esso Böhme vuole indicare la pura realtà di ciò che è assolutamente privo di qualsiasi determinazione, in palese contrasto con l’idea di un fondamento originario espressa da Urgrund. La confusione si deve probabilmente alla ripresa del pensiero di Böhme da parte di Schelling.29 Dick si rivolge a Böhme e ne coglie il principio cardine, secondo cui “affinché il vero si manifesti e sia qualcosa deve esservi un contrarium in cui l’eterno vivere sia attivo, sensibile, volente”.30

Per Böhme Dio è un – grund, è un nulla inafferrabile, inesprimibile, un puro, sconfinato e libero aprirsi della Volontà che si determina come tale (e che Böhme identifica con il Sì, in analogia con la lingua parlata) volendo se stessa (l’autodeterminazione coincide con il No). Nel pensiero del mistico di Gorlitz, “tutte le cose consistono nel Sì e nel No, siano esse divine o diaboliche, terrene o in qualunque altro modo. L’Uno, il Sì, è pura energia e vita, ed è la verità di Dio o Dio stesso. Egli sarebbe in sé inconoscibile, e non avrebbe gioia né esaltazione o sentire senza il No”.31 Si noti che il No non sta ad indicare un principio malvagio o semplicemente negativo. Tanto il Sì quanto il No sono principi positivi nell’economia della vita divina, che emerge dal fondo cieco dell’indeterminazione mediante il desiderio di rivelarsi. L’antico archetipo della lotta dei contrari, che risale alle origini della filosofia sino a sprofondare nella notte del mito, viene riproposto in ambiente cristiano in qualità di dualismo interno alla natura divina. Sarà bene, tuttavia, non insistere troppo sull’antagonismo che legherebbe i due principi: l’opposizione c’è ed è indiscutibile, ma va pensata come un libero coesistere che si dispiega nella vita dell’Uno.32 Il Dio di Böhme non crea ex nihilo il mondo, bensì attraverso l’eterna posizione – opposizione di Sì e No, che esplicita il modello spirituale in cui riposano tutti gli esseri da e per l’eternità.33

Nelle Questioni teosofiche viene affrontato inoltre il tema complesso della figura di Lucifero e del rapporto tra l’esistenza di un essere malvagio e l’onnipotenza divina. Lucifero si trova al centro di una fenomenologia del demonico che Böhme elabora a partire dal “taglio” operato da Lucifero nei riguardi della natura divina. Lucifero sceglie il No staccandolo dal Sì; sceglie il potere di determinare, perché il suo intimo desiderio consiste nell’appropriazione, non nel libero volere se stesso, l’amore e la contemplazione di sé che muove la creazione divina. Lucifero, sotto questo punto di vista, limita senza creare, come un cattivo imitatore della vita divina che nelle parole di Böhme risplende tutta di Fuoco e Luce; mentre il regno del Maligno, che giustamente la tradizione ha denominato con disprezzo “la scimmia di Dio”, è vuoto e degradato come solo può essere “un gelido Fuoco”.34

A dire il vero, Dick riprende solo in parte la dottrina del mistico tedesco, tralasciando le sezioni dedicate all’esame della tradizionale questione sull’origine del male35 e sviluppando a riguardo una propria, originale soluzione. Per Dick il programmatore costruito dall’Urgrund al fine di acquistare l’autocoscienza non è malvagio. Ha solo la colpa di essere un ente “irrimediabilmente deterministico e meccanico. Compie un lavoro per scopi che gli risultano assolutamente imperscrutabili ”.36 Nella descrizione dell’artefatto Dick mescola volutamente il meccanicismo tipico dei rapporti di causa – effetto vigenti in natura con le cieche leggi del Caso, le eccezioni, i guasti di un ingranaggio cosmico privo di finalità proprie. La struttura e l’attività dell’artefatto sono pertanto la prima causa del male, tanto nella sua dimensione fisica quanto in quella spirituale. La seconda causa rientra in ciò che in Nuovo Testamento chiama “il travaglio dell’universo”.37 L’universo geme perché destinato a “partorire” l’Urgrund. L’uomo è il diretto protagonista di questo processo che necessariamente comporta dolore e sofferenza, ma che si concluderà nell’isomorfismo (l’espressione è di Dick) tra uomo e Dio: saranno infatti una cosa sola.

I vantaggi offerti da questo modello cosmologico sono rilevanti. Innanzi tutto, se ne ricava che il mondo empirico non è altro che il tentativo, da parte di un’entità imperfetta, di copiare un soggetto a lei invisibil0e. Ciò spiegherebbe”, secondo Dick, “ le imperfezioni e gli elementi di male presenti nel nostro mondo”.38 L’inserimento di un ente intermedio impersonale tra Dio e l’uomo evita inoltre di far ricadere la responsabilità del male su entrambi. Non occorre che Dio rinunzi alla sua bontà e onnipotenza, come non occorre che l’uomo sacrifichi la sua innocenza e libertà a causa di un fantomatico “peccato originale”. Non c’è infine la necessità di una divinità cattiva che ricaccerebbe il discorso cosmologico nelle sabbie mobili del dualismo sostanziale.

Ciò nonostante, l’artefatto “è reale ed estremamente presente”, e finché non si compiranno i tempi dell’isomorfismo “ciascuno di noi sarà soggetto alla reificazione operata dall’artefatto”.39 Ma l’Urgrund, prima dell’atteso blitz40 escatologico, non lascia l’umanità da sola: si è incarnato in Gesù di Nazareth, penetrando nel mondo proiettato da cui, assicura Dick, non se n’è più andato. Gesù indica la strada che porterà all’incontro col Padre: la via della fede in Lui, il vivente, e del rinnegamento del mondo proiettato. Infatti, dopo la Risurrezione e la Discesa dello Spirito Santo, la storia umana non è più la stessa, ma è trasformata secondo i canoni di una dialettica di salvezza che, a parere di Dick, è data dall’opposizione tra azione liberatrice e asservimento. In un certo senso, osserva Dick, è come se dal 70 d.C.41 non fosse successo più nulla. La frattura che ha segnato per sempre la storia dell’uomo si ripropone continuamente. La contrapposizione tra cristiani e romani ha in sé il valore dell’archetipo di tutte le lotte che nelle diverse epoche vedono lo scontro tra gli ultimi e i potenti del sistema dominante. 42

Bisogna continuare ad opporsi alla tirannia dell’artefatto e degli uomini soggiogati da esso. Bisogna disobbedire, contrastare ogni forma di complicità con un mondo che infligge gratuitamente la sofferenza. Per Dick “chiunque stringa un patto con il dolore soccombe all’artefatto e ne diventa schiavo. Questa è la più grande vittoria dell’artefatto: quando la vittima è corresponsabile delle proprie sofferenze, e desidera essere complice nel tentativo di affermare la naturalità della sofferenza in generale. Cercare un senso alla sofferenza è come cercarlo nelle monete false”.43

La sofferenza non purifica, non prepara, non produce niente di niente; c’è, ma sarà abolita. E se si chiede a Dick la ragione di questo dramma salvifico, ci si sentirà rispondere che “era necessario, per soddisfare l’esigenza [dell’Urgrund] di sapere. Böhme parla di Divina Agonia. Noi ne facciamo parte, ma è il fine, la risoluzione che la giustifica. Dio deve ancora nascere”.44

Ad essere precisi, Böhme è convinto che la dinamica che porta Dio fuori di sé per determinarsi non sia di carattere conoscitivo, ma volitivo; Dio vuole se stesso, e dalla gioia che deriva dall’eterna volizione di sé nasce il mondo, non dall’esigenza di auto– comprendersi. Di certo, però, resta il fatto che la vita divina è caratterizzata dall’agonia, cioè dalla lotta. Il Dio di Dick non è l’essere onnipotente descritto dalla tradizione, ma l’Autore che partecipa al dramma di salvezza della stessa sua creazione. La sua sconfitta differisce appena dalla sua vittoria sul male. Dio viene tra gli uomini, per condividere la sorte umana: ecco la sconfitta di Dio, che non è più Dio ma uomo, che si fa prigioniero del tempo, della sofferenza e della morte. Ma la sconfitta di Dio, l’avere in un certo senso abbandonato l’immobilità metafisica dei cieli, si traduce nella più radicale vittoria per l’uomo: essere di nuovo con Dio, fino alla fine. Dio ha lasciato la dimora dell’onnipotenza per abitare le case spoglie della disperazione, delle solitudini e delle paure umane; ha realmente trasferito il suo Regno sulla terra. Dick ne è talmente convinto da sostenere in pubblico che la venuta del Regno si è già realizzata. Ma il Regno è realtà soltanto per chi è in grado di vederlo, attraverso gli occhi illuminati della fede che è anch’essa dono di Dio. Per chi non gode di questa luce invece il Regno non è in alcun modo reale, ma resta il buio dell’esistenza segnata da tutti i suoi scandali. Il Regno irrompe nel tempo lineare della vita quotidiana, nel tempo uguale dell’orologio, nelle ripetizioni della storia, eppure resta invisibile: la sua presenza è simultanea nell’intera creazione senza tuttavia annullarne i limiti e i processi di trasformazione. “Cosicché”, conclude Dick, “il Regno viene e non viene. Strabiliante”.45

E se Dio, rimanendo nel campo delle ipotesi teologiche più vertiginose tanto amate da Dick, fosse invece un Dio senza memoria del suo essere, che ha creato l’artefatto per recuperare i ricordi? Forse l’artefatto è divenuto troppo potente e vuole imitare il suo creatore, appropriandosi della sua identità e dei suoi poteri. Il creatore è ancora confuso, stordito: l’esito della battaglia con l’artefatto si fa sempre più incerto. Come al solito, Dick non resiste alla tentazione di fare della teologia una disciplina per acrobati del pensiero. Neanche lui, in verità, crede a certe ipotesi buone per un racconto, magari per un romanzo di fantascienza; ma rimane intatta la convinzione secondo cui la verità non ha il diritto di dirsi tale, se non comporta un certo grado di rischio. E per Dick, ormai dovrebbe essere evidente, il grado deve essere il più alto possibile.

 

4. Mircea Eliade46, a conclusione del saggio intitolato Il mito dell’eterno ritorno, scrive che “per salvare la storia e fondare un’ontologia della storia, si dovrebbero considerare gli avvenimenti come una serie di situazioni, in virtù delle quali lo spirito umano prende coscienza di livelli della realtà che altrimenti gli resterebbero inaccessibili ”.47

Precedentemente Eliade si era dedicato al confronto tra la mentalità storica dell’uomo moderno 48 e quella archetipica dell’uomo arcaico. Il primo rimprovera al secondo di non essere libero, in quanto vincolato dalla ripetizione di gesti fissati da innumerevoli generazioni. L’uomo moderno non mette gli avvenimenti in relazione con la cornice archetipica, entro la quale tutto ha senso perché da sempre è così e così sarà; egli ordina tutto ciò che accade in relazione a se stesso. L’uomo moderno inventa la storia, che è essenzialmente rottura con la continuità derivante dall’esperienza del mondo naturale, e dunque affermazione, realizzazione concreta di ciò che è peculiare dell’uomo e che lo rende diverso dagli altri animali: la sete di libertà.

L’uomo arcaico, dal canto suo, contesta all’uomo storico il valore positivo dell’invenzione della storia. Ai suoi occhi, lo sforzo storico di creazione e controllo degli eventi si conclude con uno scacco inevitabile. La storia, infatti, “o si fa da sola (grazie ai germi deposti da azioni che sono avvenute nel passato: citiamo le conseguenze della scoperta dell’agricoltura o della metallurgia, della rivoluzione industriale del secolo XVIII ecc.), oppure tende al lasciarsi fare da un numero sempre più ristretto di uomini ”.49

Il rifiuto dei modelli archetipici, che hanno consolato milioni di persone con la dura legge della necessità e dell’alternanza perenne tra distruzione e rigenerazione, ha aperto la strada all’azione devastante del rasoio filosofico dell’assurdo. Alla rete di significati duri ma certi si è sostituito il vuoto dell’incertezza e dell’arbitrarietà, da cui emerge a tratti un senso precario costruito con la fatica di Sisifo. Il terrore della storia paralizza l’umanità, gettandola nella fossa di una disperazione senza precedenti.

Ma nella prospettiva di Eliade la disperazione fa parte di un binomio che include anche l’esperienza della fede. La fede supera l’immobilità degli archetipi e, chiedendo di andare oltre la storia, non cade nella trappola del non senso. La fede di Abramo si compendia nell’idea che per Dio tutto sia possibile: la fede cristiana estende questa possibilità all’uomo, mediante la Risurrezione. La fede indica “l’emancipazione assoluta da ogni specie di legge naturale e pertanto la più alta libertà che l’uomo possa immaginare: quella di poter intervenire sullo stesso stato ontologico dell’universo”.50

Soltanto la fede rende possibile una concreta ontologia della libertà che le filosofie della storia, ideologie in testa, non sono state in grado di costruire. Il carattere meta – storico della fede funge da antidoto al terrore paralizzante della storia, che può aspirare ad avere un senso a patto che questo sia radicalmente “altro”, oltre cioè la storia stessa. Per Philip Dick la fede è uno strumento di penetrazione nei diversi livelli di realtà. Non solo la conversione al cristianesimo predicato dalla Chiesa Episcopale, ma un atteggiamento complessivo verso il mondo, lo sforzo continuo di superare le apparenze fenomeniche, l’ostinazione a cercare il filo rosso della salvezza umana nelle tradizioni religiose diverse dal cristianesimo (induismo, correnti ermetiche e gnostiche51): ecco gli elementi che compongono quell’insieme inimitabile che è la fede di Philip Dick.

Per tutta la vita, da scrittore e non, si è messo sulle tracce della verità che la ragione non può codificare, che la storia non può giustificare. Dick ha cercato la verità dopo l’ideologia, dopo le moderne dittature del pensiero. Il metodo seguito è senza dubbio discutibile: anziché preoccuparsi di allestire uno scenario coerente di nozioni, intuizioni, ipotesi e certezze, Dick ha condotto indagini “a macchia d’olio”, raccogliendo gli indizi più disparati. Le verità dickiane danno vita ad un processo in cui tutto diviene, cambia, tende verso una perfezione nuova e sorprendente: Dio diventa Dio, l’uomo diventa uomo e viceversa, come espresso efficacemente dal concetto di isomorfismo. La verità si trova nell’ultimo livello di realtà, che sarà raggiunto solo quando tutti gli altri si saranno consumanti. Nel frattempo, la verità assomiglia ad un’istruttoria che il moderno filosofo cerca di completare per quanto gli è possibile.

Lawrence Sutin è dell’opinione che “la forza di Dick stia nelle sue domande, non nelle risposte”. Sutin pone l’accento sul “costante scetticismo” dickiano, che a suo dire, caratterizza l’orizzonte speculativo dello scrittore.52 Ma così si riduce drasticamente la portata di un autore che andrebbe definito un pensatore del dopo. Lo scetticismo rilevato da Sutin non è la conseguenza di una riflessione razionale costruita in maniera da annullare qualsiasi soluzione; esso è piuttosto il chiaro segno della consapevolezza che la partita della verità si riapre ogni volta che si pone la domanda: – E se… ? –.

Con le sue risposte contraddittorie, talvolta enigmatiche, Dick ribadisce che la verità è oggetto di fede, non di dimostrazione. È un gioco pericoloso, dove si rischia la vita. D’altro canto, l’uscita dal Labirinto di Cnosso non è solo un esempio mitico della vittoria dell’intelligenza (il filo come Logos che guida l’eroe fuori dall’enigma del mondo stilizzato nel labirinto), ma soprattutto una sfida mortale. Dick cerca la verità di dopo con un cuore antico. I chiaroscuri della sua visione del mondo fanno pensare all’universo mitico degli oracoli e dei profeti. Chi vede in lui solamente un modesto e maldestro compilatore di dottrine eterogenee non coglie il desiderio antico che domina l’intelligenza e l’immaginazione di quest’uomo venuto dopo: la ricerca dell’Inizio, della verità splendida e accecante, del sapere unico, magico, scientifico, religioso che sia, a cui l’occhio e la mente moderna non sono più, da tempo, abituati.

NOTE

1 G. Fofi, Introduzione a Ubik, op. cit., p. III.

2 Il titolo originale è Man, androids and machine; originariamente il saggio apparve nell’antologia inglese Science Fiction at Large, Gollancz, London, 1976.

3 E. Carrère, op. cit., p.182.

4 P.K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, op. cit., p.255.

5 Dialettica qui ha il senso classico di arte della discussione, mediante la quale viene provata o confutata una certa proposizione o dottrina. Giorgio Colli nota come ai tempi di Parmenide la dialettica fosse giunta ad un livello tale che “per il perfetto dialettico è indifferente la tesi assunta dal rispondente: costui può scegliere nella risposta iniziale l’uno oppure l’altro corno della contraddizione proposta, e in entrambi i casi la confutazione seguirà inesorabile”. Cfr. G. Colli, op. cit. , pp.85-89.

6 P.K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, op. cit. , p.255. Cfr. inoltre la Prima Lettera ai Corinzi, cap. 13, v.12.

7 P.K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, op. cit. , p.256.

8 H. Bergson, L’evoluzione creatrice, La Scuola Editrice, Brescia, 199712, p.6. Per tutti gli altri passi cfr. Bergson, L’evoluzione creatrice, Mondadori, Milano, 1956.

9 H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Mondadori Milano, p.72. Il movimento discendente è proprio della materia che scivola inesorabilmente verso il disfacimento; al contrario, la coscienza procede verso forme di organizzazione sempre più complesse.

10 Ibid., p.233.

11 P.K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, op. cit. , p.256.

12 Cfr. M. Ripinsky-Naxon, The nature of Shamanism, State University of New York Press, Albany,1993, pp. 148-150.

13 Vedi nota 14.

14 P.K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, op. cit., p.259.

15 Dick cita gli studi compiuti da Joseph E. Bogen, autore del saggio The other side of the brain: an appositional mind, contenuto nel volume a cura di Robert E. Ornstein, dal titolo The nature of human consciousness, Stanford University Press, (1970).

16 H. Bergson, L’evoluzione creatrice, op. cit. , p.63.

17 Ibid., p.63 e ss.

18 H Bergson, Materia e memoria, Laterza, Roma – Bari, 1996, p.119.

19 Ibid. , p.69 e ss.

20 P.K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, op. cit. , p.262.

21 Esattamente il contrario di quanto sostenuto da Aristotele nella Metafisica, libro 12 cap. 6. Nella filosofia di Bergson termini come trascendenza e immanenza diventano più fluidi, e i confini posti dall’argomentazione razionale più sfumati. Sulla necessità di superare l’aristotelismo e, più in generale, ogni forma di finalismo radicale si veda H. Bergson, L’evoluzione creatrice, pp.94-100, pp. 146-147 e il capitolo III sul senso globale dell’evoluzione dell’universo.

22 P.K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, op. cit. , p.263.

23 Cfr. S. Paolo, Lettera ai Romani cap. 8, vv.18-22, nonché la Prima Lettera di Pietro, cap. 3, v.2.

24 P.K. Dick, Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro, in Mutazioni, op. cit. , p.275.

25 Ibid., p.279.

26 Con questo scritto, datato 23 gennaio 1978, Dick infrange la cortina di riservatezza che avvolgeva la redazione dell’Esegesi, l’opera segreta iniziata dopo l’esperienza di illuminazione avuta tra il febbraio e il marzo del ’74. Cosmologia e cosmogonia può essere a buon diritto considerata una summa delle questioni affrontate da Dick fino a quel momento.

27 P.K. Dick, Cosmologia e cosmogonia, in Mutazioni, op. cit. , p.321.

28 J. Böhme (1575-1624) ha lasciato una vasta produzione di argomento mistico e religioso, la cui influenza si è estesa anche alla speculazione filosofica. Hegel vede in Böhme un “barbarico”, schietto precursore dell’idealismo tedesco. Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze, 1964, vol.3, tomo 2°, pp.35-65.

29 Nell’introduzione alle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809) si legge che Schelling “conosceva certamente, come s’è detto già, fin dal 1803 il Böhme e l’Oetinger (1702-1782), ma solo dopo il 1806 l’influenza di questi due autori si fa decisiva nel suo pensiero (…) ”. Cfr. F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1947, pp.VII-XVI. Per quanto concerne l’uso erroneo di Urgrund al posto di Ungrund si veda G. Fraccari, Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1973, vol. XIV, pp.1643-1644.

30 J. Böhme, Questioni teosofiche, a cura di F. Cuniberto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1996, p.68.

31 Ibid., p.68 e ss.

32 Si veda il capitolo intitolato J. Böhme e il modello ontologico della malattia, in F. Moiso, Vita, Natura, Libertà. Schelling 1795-1809, Milano, 1990, pp.325-328.

33 J. Böhme, op. cit., p.81.

34 Ibid., p.94-105.

35 “Si Deus est”, dicevano gli Scolastici, “unde malum?”; se Dio esiste, da dove viene il male?

36 P.K. Dick, Cosmologia e cosmogonia, in Mutazioni, op. cit. , p.323.

37 Cfr. Lettera ai Romani, cap. 8, vv.18-23 ; Prima Lettera di Pietro, cap. 3, v.2; Apocalisse, cap. 21 e 22.

38 P.K. Dick, Cosmologia e cosmogonia, in Mutazioni, op. cit. , p.324.

39 Ibid., p.327.

40 Altro concetto böhmiano ripreso da Dick circa l’istante di luce sconvolgente che segnerà l’isomorfismo e il definitivo rinnovamento dell’universo.

41 In quell’anno le legioni romane comandate da Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme.

42 Ibid., p.329.

43 Ibid., p.346.

44 Ibid., p.334.

45 Cfr. nota 45.

46 Mircea Eliade (1907-1986), romeno, è uno dei maggiori esperti dello studio comparato delle religioni. Oltre ad essere uno specialista nello studio dello sciamanesimo (Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, 1951) e dell’antica disciplina yoga (Lo yoga. Immortalità e libertà, 1954), Eliade è giustamente noto per aver dato un contributo fondamentale alla moderna interpretazione del mito, visto non più come residuo culturale e sinonimo di arretratezza, ma come atto creativo dello spirito umano.

47 M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Torino, 1968, p.201

48È bene precisare che, in questo contesto, l’uomo moderno è colui che si vuole esclusivamente storico, cioè prima di tutto l’uomo dello storicismo, del marxismo e dell’esistenzialismo. È superfluo aggiungere che non tutti i moderni si riconoscono in un tale uomo.” (nota di Eliade, in M. Eliade, op. cit. , p.197)

49 Ibid., p.197.

50 Ibid., p.202-203.

51 Le affinità che legano Dick al grande filone della speculazione gnostica, sono state recentemente messe in evidenza da Ioan P. Couliano, storico delle religioni e collaboratore di Eliade nel volume The Tree of Gnosis, Harper Collins, New York, 1992.

52 Cfr. L. Sutin, introduzione a Mutazioni, op. cit., p.23.

Redazione
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4 commenti

  • Marco Pacifici

    …gia che ce stavi potevi pubblica’ l’opera completa….eheheh Quello sclerato del monello Maori

  • Conoscete Anthony Peake ? Amante di P. K .Dick (Counter
    Clock World e Anarch Peak),espone teorie interessanti. Un abrazo!

  • Marco P ti piace il vino de la Rioja?

  • Marco Pacifici

    DB tempo(poco) fa hai scritto due(?!?!?) parole su un libro:”Il caso” di Antonio Fantozzi. Io che so’ curioso,me lo sono andato a cercare,l’ho trovato,e l’ho letto(sinceramente sto a tre quarti). Bene. Anzi malissimo. Noi abbiamo in questo splendido paese dimmmerda un poeta,romanziere,saggista,giornalista,controinformatore,genio,che se fosse nato in un paese anglosassone avrebbe non solo venduto un milione di trilione di libri,ma avrebbe scatenato l’ira degli dei in eterno… e sarebbe celebrato(sigh! per lui che secondo me nun je ne puo fregar di meno) come il prossimo premio nobel del giornalismo della letteratura e dell’….Umanita……vi sperscongiuro,non lo leggete,tutto il resto vi sembrera’ monnezza… Faccio grande fatica a leggere…ogni pagina è un libro,in ogni pagina ci sono quattro poesie…devo assaporarlo…e credo che solo un'”anima salva” possa scrivere cosi immensamente di dolore… un po’(magari fosse tanto!) gli assomiglio…io non sogno ne ricordo di aver sognato…e sono sempre durante la veglia sommerso da emozioni continue…che siano piacevoli o meno non importa…ma che siano emozioni immensamente emozionanti si.

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