Omaggio a Joyce Lussu

«Di fronte a queste cose che cominciano ad apparire ineluttabili, è del tutto inutile lasciarsi deprimere. Bisogna, anzi, a maggior forza, reagire. Conservo la mia capacità di reazione ma anche il mio equilibrio, allorché dico: “Di fronte a tutto questo, io provo a far qualcosa”. L’unico rimedio, in qualsiasi situazione, anche nella più sciagurata, è provare ad agire contro». Joyce Lussu

«Rivoluzionaria, anticonformista e incorruttibile pacifista». Il 18 maggio a Cagliari è stata ricordata Joyce Salvadori Lussu: un primo momento nelle celebrazioni per il centenario della nascita. Nell’appuntamento cagliaritano si è visto un film-intervista di Marco Bellocchio accompagnato da molti interventi: fra gli altri di Silvia Ballestra, che a Joyce Lussu ha dedicato il libro intervista «Una vita contro» (Dalai), e di Luisa Maria Plaisant, direttrice dell’Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell’autonomia, autrice di «Una donna nella storia» (Cuec). L’incontro è stato arricchito da brevi letture (con la voce di Monica Zuncheddu) di Joyce Lussu, selezionate dal circolo di lettura Mieleamaro che ringrazio per avermi concesso di riprodurre qui i testi.

Letture

Da «L’uomo che voleva nascere donna»

L’esperienza della guerra civile si era accompagnata per me con un’altra esperienza che mi parve ben più misteriosa e difficile: mettere al mondo un figlio. Da quando avevo conosciuto il mio compagno l’avevo sempre desiderato molto; senza un figlio, il nostro rapporto mi pareva incompleto. Ma le strettoie della vita clandestina, i continui faticosi spostamenti, la necessità di conservare la mobilità necessaria per sfuggire all’Ovra e alla Gestapo, l’idea di far correre a una creaturina indifesa i rischi che correvamo noi, ci avevano dissuaso dal metter su famiglia. Così che una volta ero stata costretta a rivolgermi a un’orrenda megera, che i francesi chiamano faiseuse d’anges, fabbricatrice d’angeli. Il fatto di dover rinunziare a un figlio (anzi a una figlia: mi ero fissata che sarebbe stata una femmina) non per mio desiderio ma per la violenza delle circostanze esterne, e di dovermi sottoporre alla brutalità e alla umiliazione dell’aborto clandestino, mi fece piombare in una disperazione mai conosciuta prima. Stavo immobile, al buio, nel sangue dell’orrenda ferita, rifiutando di muovermi, di parlare, di mangiare; volevo distruggermi, insieme alla mia figlia mai nata. Non fu facile per il mio compagno riportarmi ad accettare la vita, con infinite cautele e infinito affetto. Ma la ferita rimase, come un incubo ricorrente; potevo non pensarci, per periodi più o meno lunghi; consolarmi, mai. La rivolta contro una “civiltà” che mi obbligava ad ammazzare per non essere ammazzata, a distruggere per non essere distrutta, prendeva forme sempre più precise; l’unica risposta era non farsi sopraffare dalla paura, far fallire gli scopi per i quali venivano organizzati il terrorismo e la repressione, per ingenerare viltà, impotenza e opportunismo; lottare fino in fondo coincideva con il minimo necessario di dignità umana.

Mi accorsi di essere incinta di nuovo dopo l’8 settembre ’43; era un momento poco adatto all’incremento demografico. Ma decisi insieme al mio compagno che il figlio me lo sarei tenuto (questa volta sapevo che sarebbe stato un maschio) e che niente al mondo mi avrebbe indotta a strapparlo dal mio corpo; avremmo fatto la guerra insieme, dato che una guerra c’era da fare.

Mi andò bene, e mio figlio nacque pochi giorni dopo l’entrata degli alleati a Roma, sano di quasi quattro chili.

Da «L’olivastro e l’innesto»

Emilio mi faceva conoscere il paesaggio dei pascoli di montagna, andavamo a cavallo e ci portavamo anche il piccolo Giuannicu, qualche volta passavamo la notte all’addiaccio, sotto le stelle, avvolti nella coperta che portavamo arrotolata dietro la sella, mentre i cavalli pascolavano con le zampe anteriori impastoiate; oppure in una capanna, facendoci un materasso di rami di lentischio ammucchiati a spina di pesce con le fronde all’interno, m’insegnava come si trovano le sorgenti e come si fa ardere un fuoco anche se piove tra i rami sotto cui si cerca riparo, e col suo coltello da pastore tagliava e puliva le erbe commestibili, i cardi, il crescione, i funghi. I nostri contrasti si accendevano sulla caccia: io consideravo questo divertimento virile un residuo barbarico, e mi scagliavo contro Emilio, i suoi antenati e tutta la stirpe sarda accusandoli di genocidio di cervi e di mufloni, di assassinio dei grandi volatili e delle dolci foche mediterranee, di stragi di lepri e di uccelli innocenti; gli recitavo «L’allodola» di Shelley e «La mort du cerf» di non so più quale autore francese. “Due culture a confronto” diceva Emilio e non mi dava torto; ma non mi dava nemmeno ragione, e continuava a uscire dal portone del cortile a cavallo e col fucile in spalla, come aveva fatto suo nonno.

Mi piaceva viaggiare da sola, partivo da Armungia con le bisacce legate alla sella, una per le mie cose e un’altra per la biada, e andavo da un ovile all’altro fino ai villaggi più isolati e desolati. Mi presentavo ai pastori nelle loro capanne di pietra e di fronde, dove bollivano la ricotta e preparavano il formaggio, e mi accoglievano impassibili e cortesi, senza segni di sorpresa, come se veder arrivare donne sconosciute a cavallo fosse abitudine quotidiana. Mi offrivano gioddu e latte fresco e mi chiedevano da dove venivo e dove andavo, senza curiosità, ma per potermi dare indicazioni pratiche; e non altro. Qualche volta dicevo che ero la moglie di Emilio Lussu, qualche volta no. Ma nell’un caso e nell’altro il trattamento ospitale, discreto e distaccato, di una signorilità che solo un’antica cultura aveva potuto maturare, era uguale.

Da «Portrait»

Il ’71 fu per me un anno importantissimo, perché il 21 marzo, primo giorno di primavera, nacque il mio primo nipote. Fu in assoluto il più bel giorno della mia vita. Il tempo non fuggiva più da me, ma mi sedeva accanto, si dilatava in un rinato presente, in un fresco ripetersi di un colore di un gesto, di un disegno del sopracciglio. Dopo non molto, nacque il secondo. Avevo dimenticato la sorprendente meraviglia che danno questi esseri nuovi, la gravità filosofica dello sguardo di un neonato che non ha ancora scelto il colore dei suoi occhi, la sua stupefacente intelligenza nell’inoltrarsi nel mondo prima ancora che i suoi piedini siano appoggiati sulla terra. E come ci vedono, noi che abbiamo vissuto tanto? Avremo la loro approvazione, li aiuteremo a vivere? Certo bisogna ridimensionarsi, migliorarsi, essere all’altezza.

Consiglio a tutti di diventare nonni. S’imparano moltissime cose, e tutto quello che si dava per scontato ridiventa un problema.

Il ’75 fu invece un anno triste. Emilio morì ai primi di marzo, senza vedere l’inizio della primavera. Era una bella giornata, e dalle finestre si vedevano le chiome dei pini attorno a Castel Sant’Angelo, che avevamo guardato insieme per trent’anni. Nel silenzio totale della casa, sentivo la sveglia di cucina battere il tempo con ritmi monotoni e tristi, come gli attitus delle donne sarde. Non più, per te, il tempo… Il tempo, per te, mai più.


Redazione
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  • Un’amica mi segnala che il libro di Joyce Lussu «L’uomo che voleva nascere donna (diario femminista a proposito della guerra)», curato da Chiara Creella, è edito da Gwynplaine – 156 pagine per 13 euri – che ha pure ristampato altri testi di Joyce Lussu («Padre padrone padreterno» e «Il libro delle streghe»): se faticate a trovarli scrivete a Gwynplaine.edizioni@gmail.com .

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