«Ordet» di Carl Theodor Dreyer

Giuliano Spagnul continua a raccontare i film del grande regista danese (*)

La vita ordinata della famiglia della fattoria di Borgensgaard , in un villaggio dello Jutland nel 1930, è tale solo in apparenza. Il primogenito del patriarca Morten Borgen, Mikkel è dichiaratamente ateo, il secondogenito Joahnnes è un folle che si crede il Cristo reincarnato, il più giovane, Anders, è innamorato della figlia del sarto, il capo carismatico di una setta acerrima nemica della fede seguita dai Borgen. L’unica figura che sembra portatrice di una sorta di serenità, vera garanzia di quel fragile equilibrio che regna comunque all’interno della famiglia, è la moglie di Mikkel, Inger, madre di due bambine e che porta in grembo il terzogenito che tutti auspicano essere maschio. La storia è facilmente riassumibile a grosse linee, Inger tenta vanamente di convincere il vecchio Morten ad accondiscendere al matrimonio tra Anders e la figlia del sarto Anna, ma sarà solo il rifiuto del sarto ad Anders che farà indispettire Morten e che capovolgerà il suo diniego in un assenso che lo porterà a scontrarsi col suo rivale religioso. Nel frattempo proprio durante l’alterco nella casa del sarto, Inger ha le doglie. Un parto difficile che porterà prima al sacrificio del nascituro (sarebbe stato finalmente un maschio) e poi alla morte della madre stessa. La disperazione di Mikkel e della famiglia tutta è acuita dalla follia di Joahnnes che pretende di poter far risorgere Inger. Ed è proprio questo alla fine quello che avviene, grazie anche alla fede complice dell’innocente Maren, la bambina primogenita.

Alla luce del precedente film Dies Irae (prescindendo dal non riconosciuto Due esseri del 1944) di ben 11 anni precedente, la protagonista femminile di Ordet, Inger sembra personificare la realizzazione di Anne, il suo desiderio di amore eluso dal marito Absalon. Inger ama di un amore corrisposto e il suo ruolo sociale, domestico non è messo in ombra da nessuna severa custode della norma come Merete, la madre di Absalon. Eppure, visto da più vicino, il ruolo che ricopre Inger non è poi così meno angusto e problematico di Anne. Che cosa divide col marito al di là di una generica (anche se certamente importante) reciproca dichiarazione d’amore e di un appagato (anche questo non sottovalutabile) rapporto sessuale? Quale possibilità di scalfire o di condividere (e pertanto di poter cercare insieme una via d’uscita) l’angustia di una vita priva di fede e conseguentemente senza senso che Mikkel sente costantemente pesargli addosso? Inger vive lo scacco di una incomprensione esistenziale col proprio compagno di vita. La già rediviva Inger, passata attraverso il rogo di Anne, deve morire ancora una volta per rendersi conto di essere l’unica presenza veramente viva in un mondo di semi vivi. La fede di Inger è la fede per la vita nella sua accezione più ampia, quella di chi crede nell’umano non come il depositario di verità assolute ma come colui che cercando la verità produce quei valori che danno senso alla vita stessa. Questo amore per la vita, così spirituale e materiale al tempo stesso caratterizza una fede che nella sua pienezza può rendere un uomo “un altro uomo (…) pieno di forza, di energia, di felicità” e come dice sempre Inger “non è bello essere felici?”. Ma nel suo lamentare il non sentire più la voce di Dio, Mikkel esprime la mancanza di quell’altra voce dell’affetto che è quella del padre; per contro il non comprendersi con Inger (l’avere idee diverse sulla fede, sulla follia, sul padre) non è vissuto come problema e l’amore che prova per essa è dato per scontato. D’altronde è Inger stessa, o almeno il suo lato materno, capace di vedere in Mikkel il suo “grande bambino”, a sopravalutare il peso che lei occupa all’interno di quella grande famiglia. Quando penserà di ragionare con il vecchio Borgen circa il matrimonio di Anders si troverà di fronte all’assoluta testardaggine del vecchio che neanche la promessa di un nipotino maschio (che lei “sente” tale) riuscirà a smuovere. E’ lo scacco definitivo di tutti quelli che, come Inger, pensano di poter far contare la propria esistenza grazie alla loro dedizione, al loro esserci come esseri accudenti, dispensatori di cure senza nulla in cambio pretendere. E in effetti nulla, al di là delle gratuite dichiarazione d’amore e affetto, avranno. Ma forse Inger, se veramente discende da Anne, è anche lei figlia di strega e il figlio maschio promesso, e fino allora lesinato, ancora una volta non lo partorirà. Non sarà Inger a morire realmente ma solo il figlio maschio (e interessante notare qui che tra i progetti incompiuti di Dreyer c’era la tragedia di Medea, colei che uccide i propri figli maschi). La morte di Inger è una parentesi, un mettersi da parte, un allontanarsi come per la moglie di Un angelo del focolare (1925 ), dove il maschilismo di un marito piccolo-borghese viene ridimensionato dall’intervento di un’anziana governante che sostituisce temporaneamente la moglie e ripristina un’armonia domestica più giusta.

Nella fiabesca versione del film muto il lieto fine è d’obbligo, ma è appunto fiabesco. In Ordet la scomparsa di Inger mette in luce la verità dei rapporti di potere. I due vecchi patriarchi si riconciliano, hanno ritrovato il Dio unico, despota come loro; la giovane obbediente figlia del sarto viene portata a rimpiazzare Inger (anche lei come la governate che sostituisce la moglie del film muto, arriva con un uccellino in una gabbia). Mikkel subisce una trasformazione, finalmente piange e dalle parole del padre si intuisce la possibilità di una riconciliazione anche tra loro, sulla base di un rinnovato affetto. Insomma sembra quasi che la morte di Inger fosse proprio necessaria, il sacrificio supremo per il bene della famiglia. Ma l’elemento inaspettato non permette questo consolatorio finale. Johannes provvidenzialmente uscito di scena dopo il primo fallito tentativo di miracolo ricompare. E’ un nuovo Johannes non più folle, ma neanche realmente rinsavito, perché colui che è passato attraverso la follia non è più né folle né sano, è “altro”. Johannes ricompare e scompagina di nuovo le carte.

Ma prima di lasciarsi convincere dalla nipote ad operare il miracolo, sulla bara di Inger esclama che essa deve marcire perché il tempo è marcio. Se “non c’è neppure un credente che creda”, “allora mettete il coperchio.” Ma a quale credo fa riferimento Joahnnes? Non certo a quello di un Dio dispotico a cui sono asserviti i due vecchi patriarchi, dispensatori di una debole quanto ottusa fede, che serve a loro solo come paravento per un potere che anche da vecchi sono ben restii a cedere. Né tantomeno a quello ufficiale del giovane parroco, rappresentante di quell’alleanza tra fede e ragione che ha permesso la nascita della “modernità”, riconoscendo in Dio sì l’orologiaio del mondo, ma al contempo estromettendolo da questo per potere dare all’uomo l’operabilità del mondo stesso. “Dio non fa i miracoli perché questi violerebbero le leggi naturali da lui stesso create” è la risposta del prete alle domande pungenti del medico scettico ma possibilista. Il Dio di Inger è invece proprio colui che continua ad operare nel mondo in silenzio, nel segreto dei tanti miracoli quotidiani del vivere. E finché c’è ancora qualcuno disposto a credere in questo, folle o bambino che sia, il coperchio della bara può ancora non essere chiuso definitivamente sull’essere umano. Inger torna a vivere, ma con una nuova coscienza. Non sarà più l’angelo del focolare, la dispensatrice di cure, illusa di poter apportare modifiche positive all’ottusa cecità dei rapporti di potere che la circondano. L’abbraccio finale tra Inger e Mikkel non segna il trionfo della vita rinnovata in una fede acquiescente. La pendola rimessa in funzione da Anders non riporta il tempo indietro. L’esclamazione di Inger: “Si, la vita… la vita.” e il suo ardore, definito da molti critici, quasi vampiresco, insomma il suo anelito tutto terreno la pone, lei unica fra tutti gli astanti ad affermare il suo essere viva. E nulla, a dispetto di quell’idilliaco finale in cui tutti gli uomini appaiono riappacificati (tranne Johannes che esce di scena), nulla sarà più come prima. A costo della solitudine, quella solitudine che attende la successiva protagonista di Dreyer: Gertrud.

(*) Per ricordare il grande regista danese stiamo pubblicando una serie di schede filmiche preparate da Giuliano Spagnul: qui la prima «Dies Irae»: negli occhi di Carl Theodor Dreyer

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *