Ortanova: ancora stragi in famiglia
L’analisi di Edoardo Venditti e Mattia Giusto Zanon (*) e un commento di Vito Totire (**)
La strage delle pistole d’ordinanza tenute in casa
di Edoardo Venditti e Mattia Giusto Zanon
È successo di nuovo. A Orta Nova, in provincia di Foggia, intorno alle due di sabato si è consumata l’ennesima tragedia con armi legalmente detenute. L’agente di polizia penitenziaria Cirio Curcelli, 53 anni, ha ucciso la compagna Teresa 54enne e le due figlie di 12 e 18 anni, per poi suicidarsi. Con la pistola di ordinanza. «Ho ucciso mia moglie e le mie figlie. Ora mi uccido. Lascio la porta aperta» ha confessato Curcelli in una chiamata ai carabinieri prima di mettere la parola fine al suo folle gesto.
La tragedia ci riporta alla mente casi analoghi di omicidi-suicidi in ambito familiare ben noti alle cronache italiane. Come quello dell’ispettore in servizio all’ufficio immigrazione della Questura di Venezia Luigi Nocco, che nell’agosto 2017 ha sparato alla moglie uccidendola per poi rivolgere l’arma contro se stesso. Ancora una volta con la pistola d’ordinanza. O il caso più recente, nell’aprile di quest’anno, di Simone Cosentino, poliziotto 42enne della questura di Ragusa che ha scaricato sulla moglie mentre dormiva tre colpi della pistola di ordinanza. Subito dopo, il suicidio.
Il problema non è la professione degli omicidi, simili tragedie sono avvenute anche per mano di non appartenenti alle forze dell’ordine. Il problema reale è la disponibilità di armi in casa. È vero che un omicidio può essere commesso con qualsiasi oggetto, o anche solo con le proprie mani, ma in un momento di follia o di disturbi psichici l’avere o non avere a disposizione un’arma da fuoco tra le mura domestiche fa la differenza. E secondo i dati del Viminale, aggiornati a luglio 2018, sono 1.315.700 le licenze rilasciate in Italia per detenzione legale.
L’arma da fuoco comporta degli evidenti vantaggi per chi intende compiere un simile gesto. Il primo è sicuramente la distanza fisica dalla vittima: una pistola può sparare anche a distanze non strettamente ravvicinate, mentre un altro tipo di arma, un coltello per esempio, necessita di una prossimità con la vittima che può comportare tutta una serie di complicazioni. Psicologiche, soprattutto quando la vittima fa parte della sfera familiare, nonché di efficacia. Sparare è senza dubbio più facile. Chi decide di compiere questo folle gesto ha bisogno di un’arma che non fallisca. Ha già corso tanti rischi, non può permettersi anche questo.
Uno studio americano del 2015 dal titolo Men who murder their families: what the research tell us ha analizzato 408 casi di omicidio-suicidio. Di questi, l’88% sono stati compiuti con armi da fuoco, per il 91% dei casi da uomini che già in passato avevano manifestato segni di violenza domestica. La ricerca dimostra chiaramente come ci sia un’immediatezza nell’uso dell’arma da fuoco che nessun altro tipo di arma ha. Concetto ribadito ieri anche da Giorgio Beretta, esponente di spicco dell’Osservatorio Permanente sulla Armi Leggere (Opal), che in tweet ha affermato: «Negli omicidi familiari sono le armi da fuoco lo strumento più usato. Armi detenute da legali detentori, spesso persone in divisa. L’arma non è solo un mero strumento, ma stabilisce la dinamica delittuosa».
Ma come fare a prevenire episodi di questo tipo in un paese, il nostro, in cui sempre più persone si avvicinano al mondo delle armi? Nel caso di un semplice legale detentore, una delle soluzioni, anche se poco nota all’opinione pubblica, potrebbe essere il cosiddetto “ritiro cautelativo”: è possibile infatti rivolgersi agli organi di polizia ogni qualvolta si abbia anche solo il sospetto che un legale detentore possa fare un uso improprio della propria arma affinché gli venga momentaneamente ritirata.
Ma come comportarsi nella fattispecie in cui a sparare sono membri delle forze dell’ordine? Ponendo delle limitazioni: basterebbe che fossero obbligati a lasciare le armi di ordinanza nei posti di lavoro al termine del turno, oltre che prevedere un rigoroso sistema di controlli psicologici frequenti.
(*) pubblicato ieri sul quotidiano «il manifesto»
Occorrre un piano strategico di prevenzione
di Vito Totire
A seguito di un tragico e simile evento avevamo posto il problema dell’arma di ordinanza portata a casa; lo avevamo posto anche con una lettera a Il Fatto Quotidiano che fu commentata e condivisa dal redattore. Come succede spesso nessuno nelle istituzioni ha messo in moto tentativi efficaci per risolvere il problema.
Tutti sappiamo che la disponibilità dell’arma non costituisce la causa “unica” di queste tragedie; ma l’esperienza dimostra che LA DISPONIBILITA’ FACILITA LA STRAGE, QUANTO MENO NELLA SUA DIMENSIONE.
Il che è ovviamente solo la punta dell’iceberg; ma è un iceberg tragicamente scoperto da tanti decenni. A Ortanova si è consumato quello che i manuali della psichiatria pre-basagliana definivano “suicidio allargato “ o peggio “suicidio altruista”.
E ci sono troppi elementi che si ripetono in questo ennesimo, tragico scenario. Una attività lavorativa usurante, spesso fonte di distress e di depressione reattiva; una disattenzione cronica ai problemi e alle necessità della prevenzione. Al governo in carica –che nel suo programma di insediamento non aveva neppure citato la parola “carcere” – è stata una parlamentare della opposizione a ricordare il tema, facendo anche esplicitamente riferimento a uno dei problemi più gravi (non certo l’unico) della carceri: quello delle condizioni disastrose dei lavoratori penitenziari. La parlamentare ha una storia personale di sindacalismo e anche questo spiega la sua “attenzione” in un Paese in cui ormai il “testa/coda” destra-sinistra è sempre più all’ordine del giorno.
Il nocciolo della questione però i “decisori politici” non lo vogliono affrontare; ed è (senza voler insinuare effetti miracolistici) affidare la vigilanza sulle condizioni di lavoro e di salute psicofisica dei lavoratori a un organo terzo e indipendente (le Ausl) sottraendolo e quindi eliminando il VISAG che, a prescindere dalle buone intenzioni dei singoli operatori, non ha l’autonomia per intervenire con una dinamica di disposizioni vincolanti e di sanzioni.
Le persone in difficoltà devono poter palesare la loro condizione di sofferenza a un ente di vigilanza, devono essere nelle condizioni di poter chiedere aiuto senza temere contraccolpi negativi sul piano salariale e occupazionale. Non è sufficiente istituire il solito “telefono amico” (anche qui, sempre buone intenzioni, ma spesso inefficacia!). E se ormai (quasi) chiunque comprende che il pianeta carcere è un sistema di vasi comunicanti, è fin troppo chiaro che una condizione di malessere lavorativo si ripercuote su tutto il sistema e quindi anche sulle parsone detenute, in termini di burnout, assenza di empatia e aggressività.
Occorre finalmente un piano strategico nazionale di prevenzione e di sostegno a un’attività lavorativa pesante e pericolosa per la salute psicofisica, a una attività lavorativa che viene più spesso abbracciata da persone con scarse possibilità socio-economiche, segnando questa dinamica un ennesimo mattone della disuguaglianza sociale nel nostro Paese anche tra nord e sud. Non è un caso che la tragedia si sia consumata a Foggia, provincia di origine dell’avvocato del popolo Conte, presidente di un governo “freddo” (per usare un eufemismo) sulla cronica arretratezza della politiche di alternativa alla pena detentiva. Anzi ogni occasione è buona per fare propaganda: CARCERE PER GLI EVASORI FISCALI! A parte il significato giustizialista: in quale carcere, in quali celle, stante gli attuali indici di sovraffollamento.
Queste sparate si ripercuotono su uomini come Ciro Corcelli, sulle ultime (o penultime, non fa differenza) ruote del carro; saranno loro a dover gestire le “sparate” propagandistiche del palazzo.
Ciro Curcelli è colpevole o è una vittima? Alla coscienza di ognuno di noi la risposta se la vorremo dare, ammesso che serva a qualcosa una domanda posta in questi termini.
Ma intanto subiamo un ennesimo grave lutto: rimarremo inermi fino al prossimo?
Il sindaco ha indetto il lutto cittadino a Ortanova. Un gesto di sensibilità, per quando doveroso. Ma il lutto è di tutti e le lacrime, anche quelle sincere, non bastano.
(**) Vito Totire è psichiatra, portavoce delle associazioni Chico Mendes e Centro Francesco Lorusso
LE IMMAGINI sono state scelte dalla “bottega”: la prima è di Mauro Biani; la seconda di Bansky.