OTTO MARZO

OTTO MARZO
di Mauro Antonio Miglieruolo

 

Una notte che non riuscivo a prendere sonno, trascinato dal filo disordinato dei pensieri, vidi me stesso morto incerto sul cammino da intraprendere. Ed ecco come per incanto,



realmente, non più in sostegno di chimere, mi ritrovai in una vasta spianata sotto un cielo terso graziosamente imbiancato da nuvole leggere, batuffoli occasionali, posti qua e là certamente non dal caso, ma dalla benigna ispirazione di un poeta.
C’erano alcune donne sul prato, curve sul verde dell’erba, intente a raccogliere fiori o non so che altro. Una di esse, ne aveva radunato un certo numero, si volse e tese il mazzo multicolore. Nell’atto di porgere i fiori sbottò a ridere.

Era bella, di quel bello modesto e delicato che incanta i pittori e rende distratto lo sguardo ferrigno di certi uomini troppo propensi a cogliere i segni espliciti della voluttà, quella proposta e quella negata. Ancor più bello il sorriso. Non tanto per la cordialità sincera, immediata; quanto per la fiduciosa innocenza, un poco timorosa, con cui seppe porgerlo. Tese i fiori e abbassò le lunghe ciglia pudiche, per distogliersi dalla mia ineffabile persona. Solo allora, dopo l’imbarazzo di quegli occhi, mi resi conto d’essere andato come stavo, col nudo da letto, svergognato dall’immodestia in cui incappa a volte l’uomo prossimo al risveglio, stretto dalle necessità della minzione, o sotto la spinta di qualche sogno erotico.
Non seppi come rigirarmi. Non avevo abbastanza mani, né sufficiente disinvoltura per salvarmi da me stesso.
Mi rassegnai ad arrossire.

La più anziana del gruppo, l’unica veramente tale, una vecchina apparentemente centenaria e assai benevola, drizzò la schiena, un poco, quanto poteva, o giusto il necessario per potermi fissare in viso e, appoggiando ambedue le mani sui reni doloranti, dicendo a più riprese “povera me! povera me!”, mi salutò con un caldo “benvenuto giovanotto” (a me! al rigore dei miei capelli grigi!), un saluto con cui illustrò compiutamente l’enorme distanza di tempo che ci separava.
– Dove sono? – balbettai per tutta risposta, pieno di timore, tanto pieno da accettare di cadere nell’impietosità di quell’insulsa richiesta.
Nessuna rispose. Non con parole. Né con cenni. Mute, esilarate, mi soccorsero porgendo panni d’emergenza. Sorto da chissà dove apparve uno scialle, che drappeggiai in fretta intorno alla vita; un telo servì a proteggere la schiena dalla frescura mattutina; alcune ghirlande di fiori protessero il torace troppo scoperto.
Vestirsi di fiori? mi chiesi perplesso. Sono forse una ninfa?
Esattamente questo avrei dovuto chiedere: chi sono io? e chi voi, in questo reciproca finzione? Eravamo in dovere di sincerità, o tacitamente accordati dalle convenzioni? Invece ringraziai, stupito della loro misura, e compostezza. Salvo il benvenuto della vecchina, la cui rughe non nascondevano la grazia pregressa, non si spendevano in parole; né in sussurri, piccoli sbotti di risa, capannelli sovreccitati, occhiate languide sprezzanti o provocatorie, come sarebbe stato da aspettarsi, in quello e altri simili consessi. Eppure ugualmente, nonostante gli insistiti silenzi, riuscivano a comunicare i loro stati d’animo, la cordialità anzitutto, e la simpatia con cui mi accoglievano tra loro. Atteggiamento inusitato per donne alle prese con uno del quale sapevano ben poco!
Quella muta eloquenza mi inquietò.

Perché tacciono? mi interrogai a disagio. Non trovai risposte. Ma nuove domande, più pregnanti, nel concreto della realtà da cui ero circondato. Uno stormo di uccelli passò in cielo, parimenti silenzioso. Anche il giorno, che iniziava a farsi sonnolento, soggiornava nel silenzio. Tutto il mondo, la terra generosa, a cui bastava essere, trascorreva senza rumore. Solo io avevo bisogno di suoni. Di tumulti, pensieri, spiegazioni…
Articolai quel bisogno con parole.
– Dove siamo? – insistetti, senza minimamente preoccuparmi dell’eccesso di zelo che mettevo nell’immergermi nell’ordinario delle mie richieste. Sapevo bene che non avrei potuto ricevere altro che un nome. Ma era inevitabile lo chiedessi, trascinato dal bisogno di aggrapparmi a un alcunché, il più inconsistente e quotidiano, me poverino, naufrago dell’imperscrutabile.
Le donne si guardarono l’un l’altra e guardarono me. Richiamarono alcune che si aggiravano nei paraggi, accostarono le teste e bisbigliarono tra loro l’eventuale d’una risposta. Al termine però tacquero.
Parlarono per loro gli occhi. Quel luogo non aveva definizione, dissero nel solito modo. Né l’aveva il tempo, o il luogo. Loro stesse non avevano nomi. L’irrazionale della mia incertezza si scontrava con l’assenza assoluta di formule.
Osservai di nuovo il mondo, tutto intorno ciò che mi assediava. Le montagne lontane, velate dalle brume; gli alberi occasionali che tendevano i rami, qua e là, con disposizione deliziosamente asimmetrica, i rami grandi e folti pronti ad offrire riparo; e mi dissi che tutto quello somigliava molto a un Paradiso. Il più concreto e reale. Un ampio Paradiso bucolico. Lo dissi anche a loro. Lo confessai.
– Siamo in Paradiso, vero? – chiesi cercando d’essere audace, a principiare dal tono. – E io sono morto…
A colei che mi aveva donato i fiori, uno squisito pegno d’amore, brillarono gli occhi per la felicità. Quasi che con quelle parole io l’avessi ammessa, e riconosciuta.
– Sì, certo, in Paradiso, – consentì contenta. – O piuttosto al suo inizio. Il luogo giusto per darsi alla pazza gioia!
Non mi sembrava vi fosse lì chi si desse alla pazza gioia. Non almeno come l’avevo vissuta e considerata sempre. Nessun clamore, nessuna eccesso. Niente follie. Di crapule neppure il sospetto. Solo un’eternità, vasta indolente, di pace e di ristoro.
– Guarda là, – indicò la donna puntando il dito in un qualunque impreciso alle mie spalle.
Guardai. Altre figure di bellezza apparvero nella lontananza. Un corteo leggero di fanciulle, le vesti svolazzanti che fluttuavano nel vento. Correvano felici, grandi farfalle in carne e ossa, veleggiando su un mare di allegria e giovanile esuberanza. Tra i capelli, sui veli bianchi ed eterei spiccavano i colori intensi di piccoli mazzi di fiori. Davanti a loro una vasta distesa d’acqua, se lago o fiume non saprei dire. Si immersero ad una ad una, sollevando grandi spruzzi d’acqua. Altra acqua sparsero con le mani, lanciandosela reciprocamente addosso. Doveva essere ben gelida, a giudicare dal freddo che sentivo. Nessuna di loro però levava grida, o proteste, una ripulsa. Pur nella gioia mantenevano intatto il sommesso scarno che caratterizzava i rumori della contrada.
– Dov’è la gente? – chiesi ancora, incuriosito da un particolare. Non vedevo uomini in mezzo a quelle ninfe, né persone anziane (salvo la vecchina cadente). Neppure case scorgevo, o strade, campi coltivati, tralicci dell’alta tensione o altri segni della presenza umana. Quel luogo era raro ed esclusivo, riservato alle fanciulle, e basta.
Gli occhi delle giovani dilatarono a quell’ultima domanda. Qualcuna arrossì. L’unica che avesse parlato tornò ad abbassare gli occhi. L’incontinenza della domanda, veramente indiscreta, la colpiva altrettanto che la mia nudità. Mi avvicinai, e si confuse. Dolce, la giudicai, tutta donna.
– Dov’è la gente? – insistetti.
– Qui, – rispose. Ma poi correggendosi aggiunse: – Tutto intorno.
Non ve n’era. C’erano solo prati, alberi, acque chiare e nuvole. Gente proprio no. Un brivido di spavento mi suggerì che tutto ciò che vedevo, quel corpo, quei pensieri, quella terra, fossero frutto esclusivo del nulla della fantasia. Ma non lo era. Ben salda soggiornava la terra sotto i miei piedi, ben saldo mi mantenevo io stesso. Io, tutto racchiuso nella mia volontà di sapienza ed attenzione.
Una triade di uccelli bianchi attraversò il cielo. Planavano alti e lenti, inclinando le ali quando occorreva, distendendole per cercare il vento. Percorrevano il su e giù, l’alto e il basso dell’infinito di quel luogo, in una totalità in cui ogni meta aveva uguale importanza e direzione. Vedevi una parte e vedevi l’insieme. Bastava un’occhiata per cogliere l’intero di quel Paradiso in cui ero entrato occasionalmente per benevola e fortunata concessione.
– Qui vedo solo donne… – constatai stranito.
E ripetendo in me quell’obiezione, dieci o forse venti volte, uno strano turbamento, fatto di paura e meraviglia mescolate insieme, mi prese alla gola.

– Rispondi… – pregai rivolto alla fanciulla, che invece diede un passo indietro. – Rispondi, ti prego.
Rispose per lei la vecchia centenaria.
– Non c’è gente, qui, – disse fissandomi severa, con intenzione. – Nessun altro che te…
Era quel che mi aspettavo, ormai, l’inevitabile. Raccolsi armi e bagagli, fantasie ed emozioni, e tornai a considerarmi nella turbolenza del mio letto, perennemente in disordine.
– Mio Dio! – ansimai, mentre già le figure del mio pellegrinaggio s’inoltravano nei meandri incerti della memoria.
Mi ripromisi, in fretta, prima che fuggissero definitivamente, di distribuire un fiore, ed un sorriso, ad ognuna in cui fossi incappato il giorno seguente. Sarei stato felice di ringraziare e mostrarmi amabile. Solo allora, dopo quel proposito, lieto per essere stato tra gli Angeli, riuscii a chiudere gli occhi e a precipitarmi nel sonno.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

  • sarina aletta

    Dolce verità
    per Lui siamo da sempre
    un’ ossessione.

    ( haiku da Sarina )

  • sarina aletta

    …e vale egualmente il contrario.
    Il confronto con la diversità dell’altra/o
    esiste comunque al di la del genere “diverso”.
    E…se ci dovessimo separare, maschi e femmine,
    a causa di guerre stellari o storie del genere
    e vivessimo lontani e infine sconosciuti in mondi diversi,
    nascerebbero e continuerebbero le stesse storie identiche,
    attrazioni-odi -indifferenze, in base alle abissali differenze di ognuno
    che non solo esistono ma sono splendide, misteriose e necessarie,
    l’omosessualità ne è prova, anticipo e conferma.

    P.S. Dimenticavo la cosa essenziale: Il racconto-sogno è delizioso.

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