«OUR WAR»: dall’altra parte del muro

I volontari occidentali con la Resistenza curda del Rojava

di Giuliano Spagnul

Pomeriggio di un freddo giorno d’aprile inoltrato, che sembra indugiare al ritorno dell’inverno piuttosto che alla primavera burocraticamente sancita dal calendario. Il clima, qui a Milano, è in sintonia con la visione di questo “docufilm” crepuscolare, girato in una regione fino a poco tempo fa sconosciuta alla maggioranza degli occidentali: il Rojava, a nord est della Siria, confinante con la Turchia; abitato da curdi che combattono e resistono alle agguerrite e crudeli milizie dell’Isis. Il cinema è il Beltrade, scommessa di una sala cinematografica impegnata, trasformazione evolutiva, piuttosto che puro resto, di quel vasto mondo (mai troppo rimpianto) di sale d’essai, cineclub e altro che riempivano la Milano degli anni ’70 e in parte anche degli ’80. È forse l’ultima proiezione in calendario di «OUR WAR» (*) e fortunatamente riesco a non perderla.

Non è la storia dei combattenti curdi, ma quella dei volontari occidentali che si aggregano alle loro file. Non propriamente Brigate internazionali come nella Spagna dei nostri nonni, ma singoli non tenuti insieme da una causa ideale ma piuttosto da motivazioni private, con l’idea comune però di essere almeno dalla parte giusta. È corretto quindi che la storia si concentri su tre singoli protagonisti, senza la pretesa di essere esaustiva di un fenomeno che pur non essendo di vaste proporzioni, come quello dei foreign fighters occidentali verso l’Isis, ha comunque la sua importanza e pone interrogativi che ci riguardano sempre più da vicino. Se è vero che la guerra l’Isis ce la sta portando progressivamente entro i nostri confini man mano che arretra nel proprio territorio, il discorso sul nostro coinvolgimento fisico, diretto si fa sempre più pressante. Che senso ha allora andare a combattere lì se poi li si lascia impunemente agire (al riparo delle nostre leggi) qui da noi, è quello che, in un qualche modo, si chiede il giovane svedese Rafael, figlio di una coppia mista svedese curda. Il suo lavoro, a casa propria, come guardia del corpo a protezione di persone a rischio (donne maltrattate, persone minacciate dalla malavita) sembra già essere in parte una risposta. È una domanda che invece non sembra porsi Karim Franceschi, italiano con madre marocchina, giovane dei centri sociali; il retroterra politico sembra per lui abbastanza solido per sapere che la guerra, quella vera, è contro il capitalismo, di cui il fenomeno Isis è solo uno dei tentacoli che è necessario estirpare al più presto. L’ultimo: l’americano, Joshua Bell, è quello che sembra essere il meno problematizzato, l’ex-marine, il reduce che non sa più ritrovare se stesso nella pace e ha bisogno di una nuova guerra in cui inserirsi. Ma, sorprendentemente, sarà proprio lui, alla fine, a maturare una nuova coscienza più lucida e consapevole. Proprio il suo pragmatismo, così tipicamente americano, lo renderà capace di aderire alla pancia di quel popolo e di riconoscersi in quella sua ostinata capacità di resistere e di ridere e di sorridere pur nel perdurare di un orribile conflitto. È la capacità pragmatica di attrezzarsi a un conflitto che si sa permanente, al di là della pur agognata vittoria, il conflitto della vita. Sono tre figure emblematiche, utili per cercare di capire meglio la realtà caotica e confusa del presente. A queste però andrebbe aggiunta un’altra figura, il quarto protagonista del film: la figura invisibile del guerriero dell’Isis, quello che non si vede mai che sta oltre quel muro, quel muro costellato di buchi inferti dalle cannonate nemiche, da cui si spara e si uccide. Anche su questo è possibile leggere una divergenza tra il pensiero dell’americano e quello degli altri due. Per il primo non c’è il mostro, l’orrore senza volto e senza pensiero (o con il solo pensiero fisso del martirio annessa ricompensa in paradiso) ma semplicemente il nemico. E da ex-militare valuta questo nemico con il solo metro di giudizio a lui congeniale: quello dell’efficacia in combattimento. Per lui il giudizio è inequivocabile: i combattenti dell’Isis sono pessimi; bene armati ma decisamente scadenti. E tanto gli basta. Per quanto invece riguarda noi – compagni, militanti, impegnati ecc – non riusciamo a vedere altro che mostri. «Hanno come un muro davanti agli occhi» dice Karim che ha interrogato un prigioniero. Difficile capire cosa si ha davanti e quando Karim tornato in Italia guerreggia virtualmente in un videogioco, osserva che la diversità con la guerra vera consiste soprattutto nel fatto che nel gioco, una volta sconfitti, si può ricominciare comunque da capo; mentre tra i nemici, immaginari e reali non c’è differenza, virtuali gli uni e gli altri in quanto inconoscibili e in definitiva non umani. Ma se ai combattenti curdi noi togliessimo l’aurea politica – la causa comune (democrazia, socialismo, comunismo…) – rischierebbero anche loro di diventare inconoscibili cessando all’improvviso di esistere? Altre culture, altri mondi; chi li conosce? In fondo, per entrambi: Allah è grande! A ben guardare «OUR WAR» ci pone domande che vanno ben al di là di queste tre storie; tre vite di persone con cui condividiamo modi di vita che usiamo chiamare valori. Ma al di là, fuori dalle nostre pretese conoscitive, siamo disarmati. Ciò che non riusciamo a comprendere ci è alieno, tendenzialmente invisibile. E se è visibile è solo come inganno, forma estranea che si mimetizza tra di noi assumendo i nostri comportamenti e costumi ma rimanendo intimamente altro. Una carrellata nel cinema fantascientifico basterebbe a renderci edotti che questa paura alligna in noi da lungo tempo, coltivata nel nostro immaginario ben prima di qualsivoglia revival di guerre fra religioni. È la paura dell’altro, di tutto ciò che non riusciamo a conoscere, cioè a inglobare, annettere al nostro sistema di pensiero. Ma soprattutto è la paura del conflitto, di quel conflitto che sembra non potersi dissolvere in nessuna sintesi dialettica. La nostra civiltà è ormai una macchina militare, in tutti i sensi, estremamente potente che corre il rischio di implodere più per eccesso che per difetto di potenza. Non serve a nulla sognare utopie consolatrici, anche se, come ha detto l’ex-marine, risultano effettivamente molto belle, sulla carta; ma la realtà, continua Joshua, è che sono i bombardieri pagati dal capitalismo che permettono ai curdi di contrattaccare e vincere. Questo non deve significare rassegnarci al capitalismo, per una sorta di realismo o coerenza (il capitalismo rimane una minaccia mortale) ma che la posta in gioco è un’altra. La posta in gioco siamo noi, esseri umani la cui peculiarità, per sopravvivere, è quella di evolverci, di poter sempre cambiare per assecondare quelle strategie che la nostra specie è in grado di mettere in atto volta per volta. Fra i tre umani del film, l’americano mingherlino dall’aria più sfigata è quello che è stato in grado di mettere in atto un cambiamento maggiore, di modificare se stesso grazie all’aiuto degli altri che gli stavano intorno. Per gli altri due, con cui credo la maggioranza di noi spettatori ha avuto la possibilità di identificarsi, sembra più difficile, problematico farlo; anche se nella loro aria un po’ mesta e insoddisfatta sembra aleggiare proprio lo stesso anelito.

(*) Quando «Our War» fu presentato fuori concorso a Venezia, Giuliano Spagnul ne aveva scritto in “bottega”: cfr «Our War»

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