un appello per Gaza

il mare di Gaza non è fra i più sani del Mediterraneo, che sorpresa

 

Malak Mattar: in gabbia a Gaza

In gabbia.
Il desiderio di muoversi, di viaggiare è innato in tutti gli esseri umani. E a Gaza, è diventato un bruciore nello stomaco e un dolore nei nostri cuori. Le nostre valigie sono sempre pronte, perché non sappiamo mai quando Rafah si aprirà o Israele concederà un permesso. Siamo costretti a vivere vite di costante incertezza e delusione. La maggior parte di noi non uscirà mai, per questo ognuno porta dentro una gabbia che rispecchia la gabbia più grande fuori. E il mio viso? Il mio viso è vuoto, ad eccezione dei fogli di giornale, perché i media ci danno speranza con notizie di un imminente sollievo – poi precipitano il giorno successivo. Presto, perderemo anche la capacità di sperare.

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Gaza deve vivere per la vita di tutta la Palestina – appello per una campagna internazionale

 

La vita della popolazione di Gaza è seriamente messa in pericolo e noi, cittadini/e del mondo, associazioni, gruppi e confessioni sentiamo la responsabilità di agire laddove le Risoluzioni hanno fallito, e porre alla attenzione internazionale questo lento genocidio.

 

Prima di tutto il nostro sguardo si appunta sull’assedio, imposto dalle Autorità israeliane e attivamente sostenuto dal Governo Egiziano. Con un concorso di colpa anche di quei loro alleati che, in modo attivo o passivo, persistono nel privare la popolazione di Gaza  dei diritti umani, dì rifornimenti essenziali, di medicine, di trattamento del sistema fognario, di acqua potabile ed elettricità, di libertà di movimento.

 

Non si tratta di una catastrofe naturale, ma prodotta dall’uomo.

Il lento strangolamento di Gaza mette in luce non solo il sacrificio di quella popolazione civile, ma anche le nozioni di autonomia, libertà e la sopravvivenza stessa della Palestina.

 

Come cittadini/e del mondo, la nostra responsabilità e interesse nei confronti del popolo di Gaza è chiedere la loro liberazione, passo essenziale per la liberazione e la conservazione della Palestina.

 

A coloro che chiedono “Ma chi ci guadagna dalla sopravvivenza di Gaza?” le risposte sono ovvie: due milioni di esseri umani che vivono a Gaza, tre milioni di esseri umani che vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme.

 

Gaza è sotto assedio da 10 anni. L’accordo per il cessate il fuoco del 2014 tra le fazioni e il Governo di Gaza con le Autorità israeliane comprendeva negoziati per aprire le frontiere di terra e fornire un porto di mare, in modo tale da alleggerire l’assedio.

 

Nei tre anni successivi, con rare eccezioni di qualche atto irresponsabile, Gaza per parte sua ha onorato l’accordo. Ma non è avvenuto lo stesso da parte di Israele: attacchi di bassa intensità, dalla terra, dal mare e dall’aria quasi quotidiani e uccisioni di almeno 30 abitanti di Gaza, tra cui pescatori. E le Autorità egiziane, invece di mettere in pratica l’accordo da loro favorito, hanno stretto l’assedio e aumentato la sofferenza, bombardando e allagando tunnels e mettendo in pratica una quasi totale chiusura della frontiera con Gaza, l’unico punto di transito alternativo per persone, cibo, medicine e molti rifornimenti civili la cui entrata non è permessa da Israele.

 

Israele non ha  rispettato nemmeno gli accordi elaborati con le Nazioni Unite per l’entrata dei materiali da costruzione per ricostruire le migliaia di case distrutte.

 

Si contano ormai migliaia di morti per mancanza di medicine, di cure come radioterapia e chemioterapia, per mancanza di strumenti per la diagnostica e la cura, e aumenteranno inevitabilmente per l’inquinamento ambientale, la povertà e la conseguente malnutrizione dei settori più fragili della popolazione, in particolare i bambini. La carenza di elettricità, carburante, la mancanza di  fognature e dell’acqua è insostenibile e insopportabile, e incide sulla salute pubblica. Il crollo delle attività produttive e commerciali  causa oltre il 40% di disoccupazione, con la conseguente disperazione di una popolazione per lo più giovane.

 

L’Unione Europea, attualmente silenziosa, non è stata neanche in grado di mantenere i suoi impegni preesistenti. Ancor più chiaro il suo fallimento nel tenere aperto il passaggio di Rafah secondo il meccanismo ancora attivo EUBAM. Analogamente è stato abbandonato un progetto approvato per un porto a Gaza. Entrambi questi impegni erano contenuti negli accordi 2014 per la cessazione delle ostilità.

 

Le Nazioni Unite hanno fallito nella applicazione delle loro tante Risoluzioni.

 

Anche i recenti appelli del Palestinian Human Rights Organisations Council (PHROC), dei Physicians for human rights, la denuncia di Gisha e le tante denunce che si susseguono, ci sollecitano a sviluppare una campagna internazionale per Gaza, non solo con richieste sull’emergenza, ma presentando una lista di bisogni strutturali da soddisfare.

 

La lista degli interventi è lunga – perché l’inazione è stata ancora più lunga. E crescerà, se non interviene un cambiamento. Ma il tempo per agire è breve se si vuole che le decisioni siano efficaci.

 

I diritti alla salute e alla vita possono essere garantiti solo da un sistema sanitario pienamente funzionante, dalla fornitura di infrastrutture essenziali, da una economia che funzioni. Sono condizioni che dovrebbero essere fornite dalle autorità che mantengono l’assedio: ma in mancanza di scadenze precise e senza sanzioni il Diritto Umanitario internazionale che richiede che gli occupanti provvedano ai bisogni della popolazione occupata è stato  trascurato e violato troppo a lungo; adesso il tempo è scaduto.

 

Mentre si concerta un piano integrato per la messa a disposizione di strumenti e si fanno i primi passi per una pressione internazionale sulle Autorità israeliane affinché adempiano alle loro responsabilità e obblighi derivanti dal diritto internazionale, è necessario essere pronti a rispondere direttamente ai bisogni fondamentali del popolo Palestinese e farlo in un quadro di indipendenza dalle parti che queste necessità negano, mantenendo l’assedio.

 

Dunque chiediamo alla Comunità internazionale degli Stati, alla Unione Europea e alle Nazioni Unite di agire immediatamente e per un piano di azione a lungo termine. Ci sono già fondi congelati e progetti per rispondere a molte di queste richieste.

 

– Fornitura immediata e stabile di medicine, presidi medico chirurgici, strumentazione medica e sue componenti, per ripristinare molto rapidamente quanto manca per provvedere alla salute e garantirne il mantenimento.

 

– Immediata disposizione di una linea stabile di fornitura di carburante per generare energia e nuovi cavi per coprire le necessità, mentre a Gaza si ricostruisce un secondo impianto di produzione.

 

– Apertura immediata e stabile 24/7 del passaggio di Rafah attraverso EUBAM.

 

-Impianto di desalinizzazione della misura adeguata a provvedere acqua potabile per l’intera comunità.

 

– Costruzione del porto e nel frattempo attivazione temporanea di un  servizio di piccoli battelli per passeggeri e piccoli carichi, con la terra più vicina, Cipro.

 

– Fornitura di impianti di energia solare per tutte le strutture ospedaliere che servono più di 500 pazienti al mese e  ai dipartimenti per cure specialistiche avanzate indipendentemente dal numero di pazienti e, nel frattempo, fornitura temporanea di carburante per coprire le necessità dai generatori esistenti.

 

– Fornitura di cemento ed altri materiali necessari per la ricostruzione delle abitazioni, già accertate da Nazioni Unite e UNRWA.

 

– Ricostruzione ed espansione, come necessaria, del distrutto sistema fognario.

 

– Costruzione di servizi e impianti di riciclaggio e smaltimento dei rifiuti

 

– Garantire accesso indipendente alla comunicazione satellitare e telefonica

 

– Garantire la possibilità di produrre e utilizzare prodotti locali per scambi economici all’estero, per comprare dall’estero prodotti per il consumo sul mercato libero

 

Se si verificano queste condizioni il lavoro potrà ricominciare e anche il settore dell’istruzione migliorerà, a Gaza tornerà la circolazione di beni e danaro, e i giovani potranno avere un futuro.

 

Non è più accettabile il lento genocidio imposto al popolo di Gaza.

 

La libertà di vivere del popolo di Gaza è la sola sana leva  per un processo democratico in Palestina e la autodeterminazione del suo popolo.

 

Dunque è anche il solo piano realistico per la pace. Agire adesso!

 

Contatto:

wexgaza@gmail.com

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La politica dell’umiliazione – Ramzy Baroud

Mohammed Abed è un tassista di 28 anni del villaggio di Qarara, vicino alla città di Khan Younis nella Striscia di Gaza. Non ha denti.

La mancanza di cure mediche e di un appropriate prestazioni dentistiche, gli sono costati tutti i suoi denti che  sono marciti e decomposti quando era molto giovane.

Tuttavia, le sue necessità economiche disperate gli hanno impedito di comprare una dentiera. Alla fine la sua comunità ha contribuito, raccogliendo le poche centinaia di dollari necessari perché finalmente Mohammed fosse in grado di mangiare.

Mohammed non è disoccupato. Lavora per 10 ore, talvolta di più, ogni  giorno. IL vecchio taxi che guida tra Khan Younis e Gaza City, è di proprietà di un’altra persona. L’intero salario di Mohammed va dai 20 ai 30 shekel, circa 6 dollari.

Mantenere una famiglia di quattro figli con un guadagno così esiguo, non ha permesso a Mohammed di pensare a spese apparentemente così non rilevanti come sistemarsi i denti o una comprare una dentiera.

Per quanto possa sembrare strano, Mohammed è piuttosto fortunato.

La disoccupazione a Gaza è tra le più alte del mondo: attualmente viene stimata del 44%. Le persone cui viene dato un ‘impiego’, come Mohammed, lottano ancora per sopravvivere. L’80% dei Gazani dipendono dall’assistenza umanitaria…

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Un’avvocatessa olandese determinata ad ottenere giustizia per la gente di Gaza – Amira Hass

Che cosa hanno in comune l’isola di Giava in Indonesia, la FIFA, una falsa accusa in Libia ed il campo profughi di Bureij nella Striscia di Gaza? Condividono tutti una stessa avvocatessa olandese, Liesbeth Zegveld, che sfida i termini di prescrizione e i limiti nazionali di giurisdizione quando si tratta di crimini nei confronti della vita umana commessi da potenti.

Martedì scorso ha inviato una notifica di chiamata in correità all’ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Benny Gantz ed al comandante delle forze aeree israeliane Amir Eshel, chiedendo loro di comunicarle entro sei settimane se si assumono la responsabilità dell’uccisione di sei membri della famiglia di Ismail Ziada, un cittadino olandese, nel corso dell’operazione ‘Margine Protettivo’ a Gaza nel 2014, e se intendono risarcirlo per i danni.

La notifica informa che, se non intendono farlo, lei ed il suo cliente intenteranno una causa civile accusandoli di crimini di guerra presso un tribunale olandese. Il giudice esaminerà in primo luogo la questione se un tribunale olandese abbia giurisdizione sul caso.

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Le case dei killer di Abu Khdeir non saranno demolite, quelle palestinesi sì

Le case degli assassini di Mohammed Abu Khdeir, estremisti israeliani, non saranno demolite. Lo ha stabilito ieri la Corte Suprema israeliana, in linea con il diritto internazionale che vieta la punizione collettiva come forma di rappresaglia.

Perché è una notizia? Perché nello stesso giorno le famiglie di quattro palestinesi responsabili di attacchi con i coltelli hanno ricevuto ordini di demolizione delle proprie abitazioni. L’ennesimo caso di una giustizia, quella israeliana, che distingue sulla base dell’appartenenza etnica. A ricevere gli ordini di demolizione sono stati i familiari di tre giovani palestinesi che il 16 giugno hanno compiuto un attacco con un coltello alla port di Damasco, uccidendo una soldatessa israeliana: il 18enne Baraa Ibrahim Saleh, il 18enne Adel Hassan Ahmad Ankush e il 19enne Usama Ahmad Ata.

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ISRAELE. È ufficiale: ingresso vietato a chi sostiene il Bds

Dopo la legge arrivano i primi regolamenti: il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato ieri la lista delle 28 linee guida predisposte dall’Autorità israeliana per la popolazione, l’immigrazione e i confini per vietare l’ingresso a cittadini stranieri. E per la prima volta compare esplicitamente la dicitura “attività di Bds”: il visto di ingresso sarà negato a chi è ritenuto membro, attivista o sostenitore della campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele.

A questa si aggiungono altre 27 ragioni di denied entry, tra cui rischio di attività criminali, bugie nell’indicare le ragioni del viaggio, sospetto di voler restare illegalmente in Israele, mancanza di collaborazione con il personale di sicurezza, intento sospetto di voler lavorare illegalmente in Israele, comportamento violento, intento sospetto di portare avanti attività missionarie, sospetto di voler diventare un peso per Israele (concetto non meglio identificato, ma legato probabilmente alla mancanza di mezzi finanziari sufficienti).

Inoltre, secondo le linee guida, nel caso si sospetti che il cittadino straniero voglia visitare i Territori Palestinesi Occupati dovrà essere sottoposto a interrogatorio anche da parte di funzionari dell’esercito israeliano.

Per la prima volta Israele mette nero su bianco il divieto di ingresso a attivisti del Bds, sebbene in passato – in particolare negli ultimi mesi – persone considerate legate alla campagna di boicottaggio siano state già rispedite indietro ai confini terrestri israeliani. In quei casi, però, non era stato indicato il Bds come ragione del diniego. A dicembre era toccato a Isabel Piri, membro del Consiglio Mondiale delle Chiese e poco dopo – ufficialmente non per Bds – al direttore di Human Rights Watch in Palestina e Israele, Omar Shakir.

A febbraio Haaretz aveva pubblicato il numero di persone a cui era stato rifiutato l’ingresso in Israele nel 2016: un aumento di nove volte rispetto ai cinque anni precedenti, 16.534 contro i 1.870 del 2011.

Il 6 marzo di quest’anno il parlamento israeliano aveva approvato in terza lettura con 46 voti a favore e 28 contrari la legge anti-Bds, che vieta ai cittadini stranieri che appoggiano pubblicamente il Bds l’ingresso nel paese. Non solo chi fa campagna contro il boicottaggio dello Stato di Israele, ma anche chi sostiene quello delle colonie illegali nei Territori Occupati, visione condivisa dalla comunità internazionale – a partire dall’Unione Europea – che considera gli insediamenti illegali secondo il diritto internazionale.

Una legge nata su inziativa del partito nazionalista Casa Ebraica, rappresentante del movimento dei coloni, e fatta propria dal Likud del premier Netanyahu. Proteste all’epoca erano giunte da Campo Sionista, formazione centrista che ha messo insieme i laburisti di Herzog e i centristi dell’ex ministro Livni, ma soprattutto dalla Lista Araba Unita, federazione dei quattro partiti arabi di Israele, che ha parlato chiaramamente di “attacco al legittimo dissenso sulle politiche israeliane”.

La notizia delle 28 linee guida arriva a poca distanza da un’altra notizia, quasi ignorata dai media internazionali: mentre il presidente indiano Modi faceva visita al premier Netanyahu per rafforzare i rapporti tra Tel Aviv e Nuova Delhi saltando la tradizionale tappa di Ramallah e l’ufficio del presidente palestinese Abu Mazen, l’African National Congress votava per ridurre il livello di rappresentanza diplomatica del Sud Africa in Israele.

Il partito di governo sudafricano ha deciso di declassare la presenza diplomatica di Pretoria per protestare contro l’occupazione militare dei Territori Palestinesi e “inviare un forte messaggio sulla continua occupazione della Palestina e i continui abusi dei diritti umani contro il popolo palestinese”. Un atto simbolico importante da parte di chi ha sconfitto il regime di apartheid anche grazie al boicottaggio globale.

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redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Un commento

  • Francesco Masala

    ReteRomana Palestina

    Date: 13 luglio 2017 14:58
    Oggetto: COMUNICATO STAMPA GAZA DEVE VIVERE PERCHE’ VIVA LA PALESTINA
    COMUNICATO STAMPA – GAZA DEVE VIVERE PERCHE’ VIVA LA PALESTINA
    Oltre 350 firme individuali e 60 di associazioni e reti da diversi continenti hanno sottoscritto in pochi giorni l’appello per una campagna internazionale “Gaza deve vivere, perché viva la Palestina” (allegato) lanciato da tre associazioni che da anni, in settori diversi (sanità, ricerca, cultura), sono impegnate e lavorano in solidarietà con la popolazione di Gaza, perché sia riconosciuto il suo diritto di vivere: Appello per i bambini di Gaza Genova, NWRG onlus (New weapons research groups) e Cultura è Libertà, una campagna per la Palestina. La raccolta delle firme continua dal 13 luglio sul sito http://www.we4gaza.org

    Tra le prime firme quelle di Noam Chomsky, saggista pacifista USA, AnnWright, ex colonnella dell’esercito americano e attivista per la pace, Francis Boyle, professore; da Israele, Nurit Peled-El Hanan, premio Sakharov, Michel Warshawski, giornalista e saggista; dall’India Niloufer Bhagwat, vicepresidente della Associazione degli avvocati; dalla Gran Bretagna, il giornalista e scrittore John Pilger; dalla Francia Christiane Hessel-Chabry, presidente onorario dell’associazione EJE (Les enfants, le jeu et l’éducation); dalla Grecia Haris Golemis, economista direttore del Nicos Poulantzas Institute; dal Libano la scrittrice Bayan Nuwayhed Al Hout e la prof di scienze politiche e giornalista NahlaChahal; dall’Italia Egidia Beretta, presidente della Fondazione Utopia Vik, Luisa Morgantini, già presidente del Parlamento Europeo, Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunal Permanente dei Popoli; il premio Nobel per la Pace Mairead Corrigan Maguire, irlandese; il coordinatore generale del Tribunale Russell sulla Palestina Pierre Galand da Bruxelles; Richard Falk già rapporteur delle Nazioni Unite sulla situazione dei Territori Palestinesi Occupati. Il Coordinamento Europeo delle associazioni e comitati per la Palestina (ECCP) da Bruxelles, ha aderito e inviato una lettera sui temi dell’appello, all’alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini, in vista del Consiglio europeo dei Ministri degli Esteri che si terrà il 17 luglio.

    Scrittori e giornalisti, avvocati e medici, professori e ricercatori, parlamentari italiani ed europei, attivisti sociali e culturali, donne e uomini solidali con la popolazione di Gaza chiedono un concreto ed energico intervento delle Istituzioni, a cominciare da quelle europee, perché Gaza viva.

    L’appello mette in luce in primo luogo le responsabilità di Israele sulla attuale disastrosa situazione economica e sociale di Gaza, causa del lento sterminio di una popolazione già colpita da diversi attacchi militari che hanno provocato migliaia di vittime e distrutto infrastrutture essenziali.

    Non si tratta di una situazione di crisi temporanea, ma del risultato di dieci anni di assedio e di blocco della libertà di movimento di merci e persone: le continue emergenze non sono state né possono essere risolte da misure tampone. Le emergenze, come la recente crisi dell’elettricità e la quasi permanente scarsità di acqua potabile, possono essere risolte – sottolinea l’appello – solo attraverso un piano di sviluppo di breve e lungo periodo, senza il quale continuerà lo stillicidio di morti e lo strangolamento della popolazione. Ogni giorno muoiono persone, tra queste molti bambini, perché non possono ricevere le cure necessarie a causa dell’assenza di medicine e di strumentazione adeguata (dializzati, diabetici, malati di cancro, bambini con fibrosi cistica, neonati prematuri, malati che necessitano interventi chirurgici).

    L’appello, inviato al Presidente e ai gruppi parlamentari europei, denuncia infine che l’agonia di Gaza mette in pericolo la possibilità stessa di vita della Palestina che ha bisogno, come condizioni essenziali, del coinvolgimento di tutta la popolazione nel percorso di autodeterminazione, della sua partecipazione a un processo democratico diffuso, della fine dell’assedio e dell’occupazione israeliana: Gaza deve vivere, perché viva la Palestina.

    13 luglio 2017

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