Palestina: piccole storie di…

… quotidiana caparbietà disarmante

Corrispondenza di Paolo Pantaleoni: seconda parte (*)

Vauro-Gaza

Se ti siedi sulle colline che circondano At’ Twani puoi ascoltare le molte storie di una comunità resistente.

Una comunità che prova a strappare ogni ambito della propria quotidianità all’orrore infinito dell’occupazione, alle umiliazioni, alla prepotenza, ai soprusi, all’oppressione.

Se la storia è il corso degli eventi, delle tragedie, degli accadimenti, di vittorie e sconfitte da ricordare, le storie – come scriveva Sandro Portelli qualche anno fa – sono ciò che lega inscindibilmente l’uomo alla storia.

Ce ne sono tante di storie da ascoltare in Palestina.

Stupefacenti, tristi, divertenti, tragiche, grottesche, comiche, animate da donne e uomini che spesso con una caparbietà disarmante ambiscono a vivere una vita degna e praticano – sia negli spazi politici concessi che in quelli non concessi – la ricerca dei propri desideri.

La Palestina è anche la storia di un sedicenne che trascorre tre anni di vita nelle carceri israeliane senza aver commesso nessun crimine.

Sono gli anni della prima Intifada, dei comitati popolari, della disobbedienza civile, della capacità di un’intera comunità di connettersi con il mondo evitando di auto-ghettizzarsi in una spirale imposta fatta di azione e reazione.

Sono gli anni dei coprifuoco, della repressione brutale, dello sciopero fiscale di Beit Sahour, la cui popolazione rifiutò di pagare le tasse agli occupanti.

Sono gli anni in cui nacquero quei soggetti, al tempo informali e auto-organizzati, che costituiscono oggi l’ossatura del mondo associativo palestinese.

In un villaggio del distretto di Betlemme qualcuno lancia sassi contro un veicolo militare israeliano, cosa abbastanza frequente.

Gli israeliani non avevano nel villaggio, tra la popolazione palestinese, una rete di informatori tale da indicare i nomi dei responsabili.

Ma l’esercito deve dare un segnale, dimostrare che un lancio di pietre fatto da adolescenti non resta impunito, e così di notte entra in alcune abitazioni e arresta dei sedicenni sulla base delle testimonianze dei soli militari del veicolo fatto oggetto del lancio di pietre.

Tre anni di reclusione per non avere fatto nulla, tre anni di vita rubati, il percorso scolastico interrotto, il primo distacco forzato dalla famiglia.

Il ragazzino esce dal carcere dove nel frattempo è diventato uomo, ha imparato un po’ di ebraico, torna a casa, si sposa, inizia a lavorare e costruisce assieme alla moglie una splendida famiglia.

La Palestina è anche la storia di una ragazza palestinese dai lineamenti occidentali che, per non rinunciare a una borsa di studio in una scuola privata straniera a Tel Aviv, per un anno si finge israeliana.

Sale sugli autobus che dalle colonie del distretto di Betlemme vanno a Tel Aviv, parla solo in inglese, trova un alloggio in nero e torna a casa (a meno di sessanta chilometri) un fine settimana al mese.

Quella ragazza si diploma; la famiglia, per quanto non facoltosa ha compreso che l’istruzione è uno strumento di emancipazione straordinario e ha fatto sacrifici enormi per consentire alle proprie figlie di completare il proprio percorso di studi.

Il giorno della consegna del diploma, a Tel Aviv, in Israele, solo una parte della famiglia riceve il permesso di ingresso per 14 ore.

Il padre, a cui il permesso viene negato, decide di entrare clandestinamente, di notte, a rischio dell’arresto per poi rientrare, sempre clandestinamente, la notte successiva.

Due passaggi notturni, a piedi, per percorsi impervi e a rischio di venire arrestati o feriti dalle guardie di frontiera per assistere al diploma della figlia.

Non so se ha senso chiedersi quanti padri lo avrebbero fatto in condizioni analoghe, credo che sia un gesto d’amore straordinario per chi ha incoraggiato le figlie a istruirsi ed emanciparsi.

In Palestina, sulle colline a sud di Hebron, nel villaggio di At’Twani puoi incontrare anche l’Italia migliore, quella di giovani realisti capaci di sognare l’impossibile.

Puoi incontrare persone che con rispetto e coraggio si mettono a servizio di una lotta e di una comunità, si mettono in discussione, compartecipano a un sacrificio.

Dal 1996 a oggi in Palestina sono arrivati, tramite i molti canali della Cooperazione internazionale, fiumi di denaro, che hanno creato danni pari a quelli dell’occupazione.

Hanno contribuito a rompere i legami solidali in seno alla società palestinese incrementando la divisione in classi della società.

Centinaia di cooperanti ed espatriati si sono trasferiti in massa tra Ramallah e il distretto di Betlemme, in molti casi portandosi dietro il proprio mondo in maniera invasiva in un contesto dagli equilibri sociali sempre più fragili e precari.

In buona misura hanno semplicemente redistribuito denaro, in misura minore generato clientele, in rari casi dato vita a progettualità virtuose e riconosciute come tali dalla comunità locale.

Ad At’ Twani c’è senza dubbio l’Italia migliore, quella di cui non si parla sui media nazionali, quella che mette a disposizione degli altri la propria umanità, per una comunità per cui la semplice esistenza coincide con la forma più potente e persuasiva di resistenza, mettendo a nudo l’orrore dell’occupazione, non fornendo alibi all’occupante e creando relazioni solidali e auto-mutuo-aiuto.

È’ bello, sotto un vecchio pino marittimo, sedersi e ascoltare, rubando tempo alla vita e provando a connettersi con la semplicità e la radicalitá di una lotta che crea vincoli e legami solidali.

Sulle colline a sud di Hebron succede anche questo accanto alle violenze dei coloni, alle aggressioni dell’esercito, alle demolizioni, alle restrizioni della mobilità e alla istituzionalizzazione, qui nei Territori Occupati, di un apparato discriminatorio che permea ogni aspetto della vita.

In Palestina c’è il mondo, ci sono anche le nostre storie, le nostre paure e le speranze di quante e quanti, nel mondo, provano a costruire quotidianamente l’altro mondo possibile.

(*) La prima parte di questa corrispondenza era in “bottega” ieri. La vignetta è di Vauro.

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