Palestinian lives matter

articoli di Samah Jabr, Bashir Abu Manneh, Omar Barghouti, Yonatan Shapira, Hagar Shezaf, Umberto De Giovannangeli, Osama Hamdan, Gideon Levy, Alex MacDonald, Collettivo Femminista Palestinese, Ramzy Baroud, Enrico Campofreda, Amjad Iraqi, Moni Ovadia, Branko Marcetic, Daniele Nalbonede, Amira Hass, Richard Falk, Jessica Buxbaum, Meri Calvelli, Alberto Masala, Francesco Masala, con disegni di Latuff

Tacere è criminale , di Alberto Masala

inizia così:

Israele è il nuovo Cortés, incaricato far rispettare la legge dell’Occidente su questa terra ripulita della sua popolazione col massacro o l’addomesticamento. Essere solidali con la Palestina oggi, significa battersi contro questa prospettiva e sostenere una democrazia mondiale nella quale l’uguaglianza fra gli uomini, tutti gli uomini, divenga la regola…

Brahim Senouci

e continua qui

 

 

nella poesia che segue sostituite Piombo Fuso con Guardiano delle Mura, e trovate le differenze

 

GAZA – Suheir Hammad

 

qui è successo un gran miracolo

un tripudio di luci

Operazione Piombo Fuso sui bimbi

un esercito banchettante si nutre di epifanie

non so niente sotto il sole dall’altra parte del muro nessuno ne accenna

alcuni sono preposti a morire in coperte sintetiche dalle fantasie a fiori

senza che se ne diffonda notizia

sono venuta all’Apocalisse quotidiana

una scala appoggiata lì senza cura

sei candele danno fuoco a una casa

un cavallo legato al fumo

certi devono morire per mandare un segnale

la linea piatta streaming live un fiume una memoria più lunga della durata di una vita

i vivi vogliono morire nel loro paese

nessuna porta aperta nessun mare aperto

a mani piene di cuore cinque figlie avvolte nei sudari

ogni giorno jihad

ogni giorno fede più forte della paura

ogni giorno lo specchio del fuoco

i vivi vogliono morire con le loro famiglie

la ragazza perde arti il fratello raccoglie braccia e armi

alcuni devono morire per non essere morti prima

corpi di bimbi sul pavimento dell’ospedale la mamma accanto

il padre traumatizzato questa è la mia famiglia

non li ho saputi proteggere questa è la mia famiglia

non gli ho fatto alzare la testa li ho seppelliti

la mia famiglia e adesso cosa faccio la mia famiglia è pane

un pesce un popolo tagliato a pezzetti

c’è sete ruberie vita

c’è fame un inverno dentro l’inverno

alcuni devono morire per portare salvezza

io sono venuta per porre fine al tempo sempre presente

la donna ha perso i genitori i figli e urla

mia sorella   ho perso mia sorella voglio morire

gli occhi di mia sorella erano miele la sua voce la mia

non posso affrontare tutto questo solo dio   solo dio mia sorella

medici uccisi scuole colpite carovane bombardate

i feriti stanno morendo i morti sono sepolti in tre

ore la gente prega insieme e maledice la gente

piange a voce alta e bassa sempre troppo forte mai abbastanza

certi muoiono perché sono nelle vicinanze

altri muoiono perché così sta scritto

nessun esercito chiede scusa ha mai

chiesto scusa le autorità rincorrono le scartoffie

l’occupazione si sedimenta sempre più profonda

qui è successo un gran miracolo

i vivi stanno morendo e i morti vivendo

un tripudio di luci

una striscia una terra un incendio

il mare uno specchio di fuoco

Operazione Piombo Fuso sui bambini

le teste gli rotolano via dalle spalle per strada

come trottole che ruotano veloci nelle mani

un esercito banchetta nutrendosi di epifanie

trascinando il futuro verso la storia

le donne, non fan ardere d’amore, ma divengono fiaccole

(Traduzione italiana di Pina Piccolo)

da qui

 

 

I bambini sono tutti uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri (e vivranno meglio e più a lungo) – Francesco Masala

Prendete Abraham e Ibrahim, il primo potrà diventare amministratore delegato di Teva, invece Ibrahim, se riesce ad arrivare in un ospedale, a Gaza, potrebbe morire perché mancano medici e medicine, o, se è fortunato, sopravvivere in sedia a rotelle o privo di un arto.

Prendete Cristian e Muhammad, il primo potrà diventare amministratore delegato di RWM o di Leonardo, invece Muhammad potrebbe morire, in Yemen o a Gaza, per esempio, colpito da una macchina da guerra prodotta da quelle imprese (ed esportate a norma di legge, naturalmente).

 

 

 

La psicanalista palestinese Samah Jabr: “La resistenza è un diritto e un dovere” –  (di Enrico Campofreda)

 

Più e meglio d’una pianificazione politica, sia rispetto all’immobilismo cariatico di Fatah sia dell’islamismo più o meno intransigente, l’intervista che la psicanalista palestinese Samah Jabr ha concesso ieri alla rivista online Lundimatin, pone punti chiarissimi nell’incistata questione palestinese, tornata a insanguinare vari angoli abitati dal suo popolo. La linea che Israele ha intrapreso da oltre un ventennio – secondo la regìa di Netanyahu e non solo, diciamo noi – gioca sul binomio: palestinesi barbari terroristi o sottomessi disumanizzati. Nell’uno, con omicidi mirati e bombardamenti generici, e nell’altro caso, tramite lo stillicidio d’una frammentazione d’un popolo: i fuoriusciti tenuti lontani da una terra che si chiamava Palestina, chi vive sotto embargo (Striscia di Gaza), chi è sotto occupazione (Cisgiordania), chi nella precarietà dei campi profughi in Giordania, Libano, Siria, a tutti costoro s’impedisce di ricreare una dignità comunitaria, un’essenza economica, una rappresentanza degna d’autorevolezza, di ascolto e accettazione mondiale. Teoricamente questo era previsto nel 1993, non è mai stato così. A tal punto che il sostegno al popolo palestinese, non solo e non tanto per le angherie subìte, ma per la propria capacità di resistenza è riconosciuta da Paesi solidali, limitata però da iniziative come i recenti ‘Accordi di Abramo’, dall’attivismo internazionale, minuto o organizzato, non dalle parolaie istituzioni internazionali come l’Onu reso impotente da veti e aggiramento delle risoluzioni. La stessa Autorità Nazionale Palestinese tende a passivizzare il suo popolo, relegandolo al ruolo di beneficiario di carità internazionale. Una linea che Israele gradisce perché gli toglie dal panorama geopolitico un interlocutore attivo e rivendicativo.

 

 

Perciò, sostiene la psicoterapeuta che vive e lavora a Gerusalemme e della capitale scippata dal sionismo prim’ancora che dai coloni ultraortodossi conosce le mille e una contraddizioni,  i palestinesi devono uscire dal ruolo di vittima che molti vogliono cucirgli addosso. Esiste un’ampia gioventù palestinese, straniata dallo stallo d’una condizione bloccata, la cui prospettiva è unicamente quella di reiterare azioni già viste, se non per esperienza diretta per informazione acquisita. C’è il desiderio d’uscire dal tunnel – materiale e metaforico – non per diventare bersaglio o supplice d’aiuto, bensì per vivere un’esistenza degna della dignità che anima chi sente di voler affermare una differente vita personale e collettiva. D’altra parte Jabr non dimentica come i traumi per i connazionali siano sempre presenti e s’aggravino. Essi vivono sotto perenne minaccia di repressione, prigionìa, espulsione, massacro. Per loro la Nakba esiste da settantatrè anni e continua a perpetuarsi giorno dopo giorno. Questa gente subisce quotidianamente la ripetizione di un’illegalità davanti ai propri oppressori. Non possono che conseguirne angoscia, depressione, frustrazione, umiliazione psicologica, sofferenza sociale. Il male creato dall’occupazione va oltre gli episodi anche cruenti e luttuosi in sé, l’impotenza viene interiorizzata, si perde l’autostima soggettiva e collettiva di poter trovare uno sbocco a una condizione asfittica. L’impotenza paralizza i più, al di là dell’invecchiamento, della mancanza di energie e di soluzioni a medio termine. Però la resistenza contribuisce a tener viva la voglia di vivere, per quanto tutto ciò appaia un paradosso nei giorni in cui a Gaza la morte saetta improvvisa, azzerando anche la vita dei bambini. Eppure la resistenza umanizza, mostra come gli interventi esterni non sono in grado né vogliono proteggere i palestinesi. La resistenza è un diritto e un dovere. E sebbene la solidarietà internazionale dal basso sia una linfa benefica, quel che manca è una ripoliticizzazione interna, unica salvezza per la gente che soffre, da cui può e deve emergere una rigenerata leadership nazionale.

da qui

 

 

In quanto occupante, Israele non ha diritto all’ “autodifesa” – Bashir Abu Manneh

 

Invocando l’autodifesa,  Israele  devia il discorso dai suoi crimini coloniali contro i palestinesi alle ferite che esso stesso ha subito come conseguenza.

 

“Israele ha il diritto all’autodifesa”. Questa dichiarazione viene ripetuta ovunque: da funzionari statali e organi di stampa, da commentatori e conduttori. Sembra così semplice e ovvia che è difficile discuterne.

Ma oggi Israele usa l’autodifesa come suo strumento retorico chiave per la guerra. Invocando l’autodifesa, Israele devia il discorso dai suoi crimini coloniali contro i palestinesi alle ferite che esso stesso ha subito di conseguenza. Tuttavia, è proprio perché Israele sta negando ai palestinesi i loro diritti umani, incluso il diritto all’autodeterminazione, che non può rivendicare l’autodifesa come giustificazione legale per l’uso della forza. In effetti, la condotta di Israele è chiaramente parte di un progetto di occupazione guidato dallo stato per il quale è penalmente responsabile.

Ci sono due ragioni principali per cui la premessa di autodifesa di Israele è errata. In primo luogo, l’autodifesa non si applica alle guerre di uno stato occupante contro coloro che occupa – ma questo non è rilevante per Israele in relazione ai palestinesi. In secondo luogo, ciò che Israele fa a Gaza viola tutte le condizioni stabilite per l’autodifesa, in particolare la necessità della guerra quando la pace è facilmente disponibile, la  separazione tra soldati e civili e la proporzionalità del danno inflitto nel raggiungimento degli obiettivi militari.

Come giustificazione per la guerra, l’autodifesa si basa sull’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che specifica: “Niente nella presente Carta deve pregiudicare il diritto intrinseco all’autodifesa individuale o collettiva se si verifica un attacco armato contro un Membro della Nazioni Unite, fino a quando il Consiglio di Sicurezza non avrà adottato le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali “. Salvo l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, questa è l’unica giustificazione legale per l’uso della forza da parte degli Stati contro altri Stati. Non si fa menzione di attori non statali qui. Né l’analogia tra i diritti individuali e quelli statali è problematica: gli stati non hanno i diritti degli individui.

A causa di questa intrinseca “mancanza di chiarezza sui parametri legali dell’articolo 51″, molti studiosi di diritto non lo considerano adatto allo scopo. Gli stati aggressori hanno trasformato l’articolo 51 in un meccanismo per giustificare la violenza piuttosto che per proibire l’uso della forza. Ogni guerra è ormai una guerra di autodifesa condotta in nome della sicurezza dello Stato contro le minacce: dalle invasioni statunitensi dell’Afghanistan e dell’Iraq alle invasioni russe di Cecenia e Ucraina. Come disse una volta Noam Chomsky: “Se avessimo delle registrazioni, probabilmente scopriremmo che l’Unno Attila agiva per legittima difesa. Poiché le azioni dello stato sono sempre giustificate in termini di difesa, non scopriamo  nulla quando sentiamo che certe azioni specifiche sono così giustificate, tranne che stiamo ascoltando il portavoce di qualche stato; ma questo lo sapevamo già. ”

L’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha già criticato i metodi aggressivi e illegali di “lawfare” di Israele nel diritto internazionale. Durante l’invasione di Gaza nel 2008-2009, sostenne che Israele non poteva invocare l’autodifesa come giustificazione per la guerra, perché contravveniva sia agli obblighi di Israele come occupante (nel “controllo effettivo”) di Gaza, sia al principio legale della necessità militare ” come giustificazione legale esclusiva per qualsiasi operazione. ” Infatti, “nonostante la diffusa accettazione del pretesto di Israele, lo status giuridico dei Territori palestinesi occupati esclude, a seguito dell’occupazione prolungata, l’applicazione dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite “.,

Ciò è supportato da un’analisi scientifica del diritto internazionale in riferimento alle numerose invasioni israeliane di Gaza. Norman Finkelstein sostiene che “Israele. . . non ha alcun mandato legale per usare la forza contro la lotta per l’autodeterminazione palestinese “. Perché? Perché “Israele non può pretendere il diritto di autodifesa se l’esercizio di questo diritto  risale al torto di un’occupazione illegale / negazione dell’autodeterminazione (ex injuria non oritur jus [Nessun vantaggio o diritto legale può  derivare da un atto illegale]). ” I diritti nazionali palestinesi sono di primaria importanza e protetti dalla legge.

Israele, quindi, non ha basi legali per entrare in guerra contro i palestinesi occupati. È vero il contrario. Ha degli obblighi nei loro confronti e deve porre fine alle violazioni dei diritti dei palestinesi, non aumentarle. Il modo in cui può proteggere nel modo giusto i propri cittadini e proteggerli dai razzi indiscriminati di Hamas, è  risolvere politicamente il conflitto e raggiungere una pace senza occupazione. Porre fine all’assedio di Gaza e concedere ai palestinesi un minimo di dignità umana sarebbe già un buon inizio.

Giustificazione legale a parte, che dire di come Israele conduce effettivamente le sue cosiddette campagne di autodifesa? Questo è sempre più presente nel discorso pubblico e ampiamente riportato da molte organizzazioni per i diritti umani. Almeno dalla Seconda Intifada, Israele ha usato una forza militare sproporzionata, indiscriminata e non necessaria, in violazione del diritto internazionale.  Prende di mira  strutture civili, uccide centinaia di bambini, stermina intere famiglie e infligge distruzione e punizioni collettive su tutta la popolazione assediata. Anche che gli scudi umani sono esclusivamente una tattica di Israele.

L’invocazione di Israele all’autodifesa ha una chiara funzione. Facilita l’occupazione e rafforza il suo progetto colonialista. La nuova legge sullo stato-nazione rende illegale per Israele consentire l’autodeterminazione palestinese in Israele-Palestina. Solo gli ebrei israeliani possono esercitare questo diritto. L’apartheid è ormai sulla bocca di tutti e la supremazia ebraica in Israele non può più essere nascosta o ignorata. Ne sono testimoni i linciaggi contro i cittadini palestinesi di Israele

Israele usa la forza anche per quella che chiama deterrenza militare. Come funziona? Colpire i palestinesi abbastanza duramente da ridurre le loro aspirazioni politiche. Prolungare le guerre per bombardare e distruggere di più. E terrorizzare i palestinesi per ridurli a una rassegnata accettazione della loro vita degradata. Se questa formula sionista collaudata funziona come previsto, si arriva all’espulsione.

Affinché palestinesi e israeliani vivano in pace, a Israele non dovrebbe più essere concesso un pass gratuito per confezionare guerre di aggressione con il pretesto dell’autodifesa. Se il conflitto israelo-palestinese dovesse protrarsi per altri cento anni, nessuno nella regione sarà al sicuro.

 

Bashir Abu-Manneh è a capo della School of English dell’Università del Kent e un redattore di Jacobin.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org

 

da qui

 

 

Persone di coscienza! I Palestinesi vi chiedono di boicottare Israele – Omar Barghouti

 

Ispirato dalla lotta anti-apartheid sudafricana, il movimento non violento BDS ha bisogno del tuo sostegno, scrive il co-fondatore del BDS Omar Barghouti.

 

Toni Morrison ha scritto nel suo romanzo Beloved: “Le definizioni appartengono ai definitori, non ai definiti”. Noi Palestinesi abbiamo imparato a nostre spese che, se non definiamo chiaramente noi stessi la nostra oppressione e le nostre aspirazioni, lo farà l’oppressore egemone, cancellando la nostra storia e impadronendosi del nostro futuro.

A volte le definizioni emergono inaspettatamente. Tre giorni fa, a seguito di un attacco aereo israeliano che ha colpito un quartiere residenziale di Gaza City che ha scosso l’edificio in cui vive, la giovane figlia di una mia amica terrorizzata è corsa tremante nelle braccia della madre. Ha chiesto: “Voglio essere coraggiosa, mamma, ma come posso farlo quando la morte è così vicina?” La sua stessa domanda, durante un massacro trasmesso in televisione, definisce il coraggio. I Palestinesi stanno distruggendo ogni giorno la nostra paura e sperano e lavorano per garantire che questo coraggio ispiri milioni di persone a parlare e ad agire in modo efficace per porre fine alla complicità nell’oppressione di Israele.

L’attuale guerra israeliana contro i Palestinesi –a Gaza, Gerusalemme, Lydd, Acri, Haifa e altrove– e contro la resistenza palestinese suggerisce molteplici definizioni. Conflitto, apartheid, resistenza, ritorsione, autodifesa, giornalismo etico, coesistenza e giustizia sono tra le definizioni che sono oggetto di accese controversie. A volte il dibattito stesso viene utilizzato per giustificare quell’immorale “sia una parte che l’altra” [both-sides-ing] che ostacola l’indignazione e il dovere di agire.

Per ricordare al mondo questo dovere e per protestare contro gli orribili attacchi di Israele, che fanno parte di ciò che molti Palestinesi definiscono come una Nakba in corso, i Palestinesi di tutto il mondo hanno messo in atto martedì uno sciopero generale. In questo modo, abbiamo affermato la nostra unità come popolo indigeno che aspira soprattutto alla liberazione, e abbiamo ribadito il nostro appello per una solidarietà internazionale sostanziale, specialmente sotto forma di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

Ispirato dalla lotta anti-apartheid sudafricana e dal movimento per i diritti civili degli Stati Uniti, il movimento BDS, non violento e antirazzista, è stato lanciato nel 2005 dalla più ampia coalizione della società palestinese. Chiede la fine dell’occupazione israeliana del 1967, la difesa del diritto dei profughi palestinesi di tornare nelle loro terre e la fine del sistema di dominio razziale istituzionalizzato e legalizzato di Israele, che corrisponde alla definizione di apartheid delle Nazioni Unite, come recentemente riconosciuto da Human Rights Watch.

Israele ha condotto per anni una guerra totale di repressione contro il BDS, in parte a causa del ruolo guida assunto dal BDS nel divulgare l’analisi dell’apartheid di Israele tra studenti, accademici, artisti, sindacati, movimenti sociali, razziali e per la giustizia climatica. Il riconoscimento da parte di Israele dell’impatto “strategico” del BDS nella mobilitazione di un’efficace solidarietà internazionale con la lotta di liberazione palestinese è un altro fattore chiave.

Ma forse il fattore più importante dietro la guerra di Israele contro il BDS è il fatto che il movimento ha mandato in frantumi l’apatia di coloro a cui non importa affatto e l’inazione di coloro a cui non importa abbastanza. Il BDS ha drasticamente ridefinito la solidarietà con la lotta palestinese per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza, soprattutto come un obbligo etico di porre fine alla propria complicità. Di fronte alla flagrante oppressione, ovunque avvenga, l’apatia e l’inazione sono immorali, quando sia possibile agire senza pagare un prezzo troppo alto. Apatia e inazione sono ancora più immorali quando si ha non solo la possibilità, ma anche il dovere di agire se il proprio stato o istituzione è complice del sistema di oppressione.

Quando Stati più o meno democratici, come Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia, forniscono a Israele finanziamenti militari incondizionati o anche armamenti, oppure lo proteggono da sanzioni e responsabilità sancite nel diritto internazionale, sono complici dei crimini di Israele contro i Palestinesi.

Quando le multinazionali traggono profitto dalla fornitura di beni o servizi che consentono a Israele di mantenere il suo regime di occupazione e di apartheid, sono complici.

Quando fondi sovrani o fondi di investimento di chiese o di università detengono azioni in queste multinazionali, sono complici.

Quando artisti, atleti o accademici, noncuranti dei picchetti posti dal BDS palestinese, partecipano a eventi in Israele o sponsorizzati da Israele, sono complici.

Tutta questa complicità genera per i cittadini una responsabilità morale ad agire, per impedire che i loro soldi delle tasse e coloro che parlano in loro nome diventino pertecipi negli incessanti tentativi di Israele di trasformare Gaza e altri ghetti palestinesi in “zone del non-essere”, come li avrebbe chiamati Frantz Fanon.

L’esplosione stimolante e senza precedenti di solidarietà con i Palestinesi negli ultimi giorni indica che milioni di esseri umani in tutto il mondo si rendono ora conto di questo dovere etico e molti di loro stanno agendo per realizzare un cambiamento, anche a livello politico. Un esempio illuminante è la dichiarazione del Movement for Black Lives, che ha chiesto di tagliare i 3,8 miliardi di dollari di finanziamenti militari annuali a Israele e di imporre sanzioni “fino a quando Israele non interromperà le sue pratiche di apartheid e il suo progetto di insediamento coloniale”. In ambito parlamentare, Alexandria Ocasio-Cortez, ha coraggiosamente twittato: “Gli stati di apartheid non sono democrazie”.

Noti personaggi delle reti televisive, tra cui Ali Velshi della MSNBC e John Oliver della HBO; icone della musica, come John Legend; e personaggi di Hollywood, come Susan Sarandon, Viola Davis, John Cusack, Wentworth Miller e Natalie Portman, hanno tutti espresso solidarietà come mai prima d’ora, e alcuni di loro hanno twittato la famosa mappa della Palestina che scompare gradualmente sotto il colonialismo d’insediamento.

Sul terreno, i Palestinesi resistono ogni giorno alla cancellazione della loro terra, identità e speranza. In mezzo alle immagini inquietanti di morte e distruzione a Gaza, un’immagine mi ha lasciato con un misto di angoscia e speranza viscerali. È l’immagine di un giovane, Amara Abu Ouf, che ha mostrato una V in segno di vittoria mentre lo stavano ancora tirando fuori dalle macerie di un edificio di Gaza raso al suolo da una bomba israeliana. Questa è la definizione della fenice che risorge dalle ceneri, si potrebbe dire. Ebbene, oggi è la definizione del Palestinese.

Omar Barghouti è un difensore palestinese dei diritti umani, co-fondatore del movimento BDS per i diritti dei Palestinesi e co-destinatario del Gandhi Peace Award nel 2017.

https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/may/19/boycott-divest-sanction-the-israeli-state

 

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Ex pilota israeliano: “Il nostro esercito è un’organizzazione terroristica gestita da criminali di guerra”

 

Un ex pilota dell’aeronautica militare israeliana, Yonatan Shapira, ha descritto il governo e l’esercito israeliani come “organizzazioni terroristiche” gestite da “criminali di guerra”.

Il capitano Shapira, che si era dimesso dall’esercito israeliano nel 2003 al culmine della Seconda Intifada palestinese ha spiegato, in un’intervista esclusiva a Anadolu News Agency, che dopo essersi arruolato nell’esercito si era reso conto di essere “parte di un’organizzazione terroristica”.

“Mi sono reso conto durante la Seconda Intifada che ciò che l’aviazione e l’esercito israeliani stanno facendo, terrorizzando una popolazione di milioni di palestinesi, sono crimini di guerra. Quando l’ho capito ho deciso, non solo di andarmene, ma di organizzare altri piloti perché si rifiutino pubblicamente di prendere parte a questi crimini” ha detto.

“Da bambino in Israele, vieni allevato con un’educazione militarista sionista molto forte. Non conosci quasi nulla della Palestina, non sai della Nakba del 1948, non sai dell’oppressione in corso”, ha detto Shapira.
Da quando ha lasciato l’esercito israeliano, Shapira ha lanciato una campagna che ha incoraggiato altri membri dell’esercito a disobbedire agli ordini di attaccare i palestinesi.

Dal 2003, la campagna ha portato altri 27 piloti dell’esercito a essere congedati dai loro posti nell’aeronautica israeliana.
Nell’ultima settimana, aerei da guerra israeliani hanno condotto centinaia di attacchi aerei contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, uccidendo almeno 188 palestinesi tra cui 55 bambini e 33 donne e ferendo 1.230 persone.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

 

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Nakba: come sono state nascoste le prove dell’espulsione degli arabi nel 1948 – Hagar Shezaf

 

Pagine Esteri pubblica alcune parti dell’inchiesta comparsa nell’estate del 2019 sul quotidiano israeliano Haaretz 

 

Quattro anni fa, la storica Tamar Novick fu sconvolta da un documento che trovò nel fascicolo di Yosef Waschitz, del dipartimento arabo del partito di sinistra Mapam, nell’archivio Yad Yaari di Givat Haviva. Il documento, che sembrava descrivere gli eventi accaduti durante la guerra del 1948, citava:

“Safsaf [ex villaggio palestinese vicino Safed] – 52 uomini sono stati catturati, legati l’uno all’altro, hanno scavato una fossa e hanno sparato loro. 10 stavano ancora tremando. Le donne arrivarono, implorando pietà. Sono stati trovati i corpi di 6 uomini anziani. C’erano 61 corpi. 3 casi di stupro, uno ad est di Safed, una ragazza di 14 anni, 4 uomini uccisi. Ad uno hanno tagliato le dita con un coltello per prendergli l’anello”. Lo scrittore prosegue descrivendo ulteriori massacri, saccheggi e abusi perpetrati dalle forze israeliane nella Guerra d’indipendenza israeliana. “Non c’è un nome sul documento e non è chiaro chi ci sia dietro”, dice il dottor Novick ad Haaretz. “Si interrompe anche nel mezzo. L’ho trovato molto inquietante. Sapevo che trovare un documento come questo mi rendeva responsabile di capire davvero cosa era successo”.

Il villaggio di Safsaf dell’Alta Galilea fu occupato dalle forze di difesa israeliane durante l’operazione Hiram verso la fine del 1948. Moshav Safsufa fu eretta sulle sue rovine. Nel corso degli anni la settima brigata è stata accusata di aver commesso crimini di guerra nel villaggio. Queste accuse sono supportate dal documento trovato da Novick, che in precedenza non era noto agli studiosi. Potrebbe anche costituire un’ulteriore prova che i vertici israeliani sapessero cosa stava succedendo già al tempo.

Novick decise di consultare altri storici in merito al documento. Benny Morris, i cui libri sono testi fondamentali nello studio della Nakba – la “catastrofe”, come i palestinesi si riferiscono all’emigrazione di massa di arabi dal paese durante la guerra del 1948 – le disse che anche lui si era imbattuto in documenti simili in passato. Si riferiva alle note fatte dal membro del Comitato Centrale del Mapam, Aharon Cohen, sulla base di un briefing dato nel novembre 1948 da Israel Galili, l’ex capo di stato maggiore della milizia dell’Haganah, che divenne l’IDF. Le note di Cohen in questo caso, che Morris ha pubblicato, riportavano: “Safsaf 52 uomini legati con una corda. Gettato in una fossa e ucciso con arma da fuoco. 10 sono stati uccisi. Le donne imploravano pietà. [Ci sono stati] 3 casi di stupro. Catturato e rilasciato. Una ragazza di 14 anni è stata violentata. Altri 4 sono stati uccisi. Anelli tolti coi coltelli”.

La nota a piè di pagina di Morris (nel suo seminale “The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949”) afferma che questo documento è stato trovato anche nell’Archivio Yad Yaari. Ma quando Novick tornò per esaminare il documento, fu sorpresa di scoprire che non c’era più.

“All’inizio ho pensato che forse Morris non era stato preciso nella sua nota a piè di pagina, che forse aveva commesso un errore”, ricorda Novick. “Mi ci è voluto del tempo per considerare la possibilità che il documento fosse semplicemente scomparso”. Quando ha chiesto ai responsabili dove fosse il documento, le è stato detto che era custodito sotto chiave a Yad Yaari – per ordine del Ministero della Difesa.

Dall’inizio dell’ultimo decennio, le squadre del Ministero della Difesa hanno setacciato gli archivi di Israele e rimosso documenti storici. Ma non sono solo i documenti relativi al progetto nucleare di Israele o alle relazioni estere del paese che vengono trasferiti nei caveau: le centinaia di documenti che sono stati nascosti sono parte di uno sforzo sistematico che vuole nascondere le prove della Nakba.

Il fenomeno è stato rilevato per la prima volta dall’Akevot Institute for Israeli-Palestinian Conflict Research. Secondo un rapporto redatto dall’istituto, l’operazione è guidata dal Malmab, il dipartimento di sicurezza segreto del ministero della Difesa (il nome è un acronimo ebraico che sta per “direttore della sicurezza dell’establishment della difesa”), le cui attività e budget sono classificati. Il rapporto afferma che il Malmab ha rimosso la documentazione storica illegalmente e senza alcuna autorità, e almeno in alcuni casi ha sigillato documenti che erano stati precedentemente autorizzati per la pubblicazione dalla censura militare. Alcuni dei documenti che erano stati posti nei sotterranei erano già stati pubblicati.

Un rapporto investigativo di Haaretz ha scoperto che il Malmab ha nascosto la testimonianza dei generali dell’IDF sull’uccisione di civili e la demolizione dei villaggi, così come la documentazione dell’espulsione dei beduini durante il primo decennio di statualità. Le conversazioni condotte da Haaretz con i direttori di archivi pubblici e privati hanno rivelato che il personale del dipartimento di sicurezza aveva trattato gli archivi come come loro proprietà, in alcuni casi minacciando gli stessi direttori.

Yehiel Horev, che ha guidato il Malmab per due decenni, fino al 2007, ha ammesso ad Haaretz di aver lanciato il progetto, che è ancora in corso. Sostiene che ha senso nascondere gli eventi del 1948, perché scoprirli potrebbe generare disordini tra la popolazione araba del paese. Alla domanda su quale sia lo scopo di rimuovere documenti già pubblicati, ha spiegato che l’obiettivo è minare la credibilità degli studi sulla storia del problema dei rifugiati. Secondo Horev, un’accusa fatta da un ricercatore che è supportata da un documento originale non è la stessa cosa di un’accusa che non può essere dimostrata o confutata.

Secondo un documento del ’48, il 70% degli arabi se ne andò a causa di operazioni militari ebraiche.

Il documento che Novick stava cercando potrebbe aver rafforzato il lavoro di Morris. Durante le indagini, Haaretz riuscì infatti a trovare il promemoria di Aharon Cohen, che riassume una riunione del Comitato politico del Mapam sul tema dei massacri e delle espulsioni nel 1948. I partecipanti all’incontro chiedevano la collaborazione con una commissione d’inchiesta che avrebbe indagato gli eventi. Un caso discusso dalla commissione riguardava “gravi azioni” compiute nel villaggio di Al-Dawayima, ad est di Kiryat Gat. Un partecipante ha menzionato a questo proposito la milizia clandestina Lehi, allora sciolta. Sono stati anche segnalati atti di saccheggio: “Lod e Ramle, Be’er Sheva, non c’è un negozio [arabo] che non sia stato violato. 9a brigata dice 7, 7a brigata dice 8″. “Il partito”, afferma il documento verso la fine, “è contro l’espulsione se non vi è alcuna necessità militare per essa. Esistono diversi approcci per quanto riguarda la valutazione della necessità. E sono necessari ulteriori chiarimenti. Quello che è successo in Galilea – quelli sono atti nazisti! Ognuno dei nostri membri deve riferire ciò che sa”.

La versione israeliana

Uno dei documenti più affascinanti sull’origine del problema dei profughi palestinesi è stato scritto da un ufficiale a Shai, il precursore del servizio di sicurezza Shin Bet. Parla del perché il paese è stato svuotato di così tanti dei suoi abitanti arabi, soffermandosi sulle circostanze di ogni villaggio. Compilato alla fine di giugno 1948, era intitolato “L’emigrazione degli arabi di Palestina”.

Questo documento è stato la base per un articolo che Benny Morris ha pubblicato nel 1986. Dopo la pubblicazione dell’articolo, il documento è stato rimosso dall’archivio e reso inaccessibile ai ricercatori. Anni dopo, il team del Malmab ha riesaminato il documento e ha ordinato che rimanesse classificato. Non potevano sapere che pochi anni dopo i ricercatori di Akevot avrebbero trovato una copia del testo e lo avrebbero passato davanti alla censura militare, che ne ha autorizzato la pubblicazione incondizionatamente. Ora, dopo anni di occultamento, il succo del documento viene rivelato qui.

Il documento di 25 pagine inizia con un’introduzione che approva sfacciatamente l’evacuazione dei villaggi arabi. Secondo l’autore, il mese di aprile “ha primeggiato in un aumento dell’emigrazione”, mentre maggio “è stato benedetto con l’evacuazione dei posti massimi”. Il rapporto poi affronta“le cause dell’emigrazione araba”. Secondo la narrativa israeliana diffusa negli anni, la responsabilità dell’esodo da Israele spetta ai politici arabi che hanno incoraggiato la popolazione a andarsene. Tuttavia, secondo il documento, il 70% degli arabi se ne andò a causa di operazioni militari ebraiche.

L’autore anonimo del testo classifica le ragioni della partenza degli arabi in ordine di importanza. La prima ragione: “Atti diretti di ostilità ebraica contro i luoghi di insediamento arabi”. La seconda ragione è stata l’impatto di quelle azioni sui villaggi vicini. Terza importanza per importanza furono le “operazioni dei fuggitivi”, vale a dire i sotterranei di Irgun e Lehi. La quarta ragione dell’esodo arabo furono gli ordini emessi dalle istituzioni e dalle “bande” arabe (poiché il documento si riferisce a tutti i gruppi combattenti arabi); il quinto era “le” operazioni sussurranti “ebraiche per indurre gli abitanti arabi alla fuga”; e il sesto fattore era “ultimatum di evacuazione”.

L’autore afferma che “senza dubbio, le operazioni ostili sono state la causa principale del movimento della popolazione”. Inoltre, “Gli altoparlanti in lingua araba hanno dimostrato la loro efficacia nelle occasioni in cui sono stati utilizzati correttamente”. Per quanto riguarda le operazioni Irgun e Lehi, il rapporto osserva che “molti nei villaggi della Galilea centrale hanno iniziato a fuggire in seguito al rapimento dei notabili di Sheikh Muwannis [un villaggio a nord di Tel Aviv]. L’arabo ha imparato che non è sufficiente stringere un accordo con l’Haganah e che ci sono altri ebrei [cioè le milizie separatiste] da cui guardarsi”.

L’autore osserva che gli ultimatum per partire furono impiegati specialmente nella Galilea centrale, meno nella regione del Monte Gilboa. “Naturalmente, l’atto di questo ultimatum, come l’effetto del ‘consiglio amichevole’, è arrivato dopo una certa preparazione del terreno per mezzo di azioni ostili nell’area”.

Un’appendice al documento descrive le cause specifiche dell’esodo da ciascuna delle decine di località arabe: Ein Zeitun – “la nostra distruzione del villaggio”; Qeitiya – “molestie, minaccia di azione”; Almaniya – “la nostra azione, molti uccisi”; Tira – “consiglio ebraico amichevole”; Al’Amarir – “dopo la rapina e l’omicidio compiuti dai fuggitivi”; Sumsum – “il nostro ultimatum”; Bir Salim – “attacco all’orfanotrofio”; e Zarnuga – “conquista ed espulsione”.

All’inizio degli anni 2000, il Centro Yitzhak Rabin ha condotto una serie di interviste con ex personaggi pubblici e militari come parte di un progetto per documentare la loro attività al servizio dello Stato. Anche il lungo braccio del Malmab si è impadronito di queste interviste. Haaretz, che ha ottenuto i testi originali di molte delle interviste, li ha confrontati con le versioni ora disponibili al pubblico, dopo che gran parte di esse sono state dichiarate classificate.

Questi includevano, ad esempio, sezioni della testimonianza di Brig. Gen. (res.) Aryeh Shalev sull’espulsione oltre il confine dei residenti di un villaggio che ha chiamato Sabra. Successivamente nell’intervista, le seguenti frasi sono state cancellate: “C’era un problema molto grave nella valle. C’erano rifugiati che volevano tornare nella valle, nel Triangolo [una concentrazione di città e villaggi arabi nell’Israele orientale]. Li abbiamo espulsi. Li ho incontrati per convincerli a non volerlo. Ho documenti a riguardo. “In un altro caso, il Malmab ha deciso di nascondere il seguente segmento di un’intervista che lo storico Boaz Lev Tov ha condotto con il Magg. Gen. (res.) Elad Peled:

Lev Tov: “Stiamo parlando di una popolazione: donne e bambini?”

Peled: “Tutti, tutti. Sì.”

Lev Tov: “Non fai distinzione tra loro?”

Peled: “Il problema è molto semplice. La guerra è tra due popolazioni. Vengono fuori dalla loro casa“.

Lev Tov: “Se la casa esiste, hanno un posto dove tornare?”

Peled: “Non sono ancora eserciti, sono bande. In realtà siamo anche gang. Usciamo di casa e torniamo a casa. Escono di casa e tornano in casa. È la loro casa o la nostra casa“.

Lev Tov: “Qualms appartiene alla generazione più recente?”

Peled: “Sì, oggi. Quando mi siedo qui su una poltrona e penso a quello che è successo, mi vengono in mente tutti i tipi di pensieri“.

Lev Tov: “Non era così allora?”

Peled: “Guarda, lascia che ti dica qualcosa di ancora meno carino e crudele, sul grande raid a Sasa [villaggio palestinese nell’alta Galilea]. L’obiettivo era in realtà quello di dissuaderli, di dire loro: “Cari amici, i Palmach [le” truppe d’assalto “dell’Haganah] possono raggiungere ogni luogo, voi non ne siete immuni.” Questo era il cuore dell’insediamento arabo. Ma cosa abbiamo fatto? Il mio plotone ha fatto saltare in aria 20 case con tutto ciò che c’era“.

Lev Tov: “Mentre le persone dormivano?

Peled: “Suppongo di sì. Quello che è successo è:  siamo venuti, siamo entrati nel villaggio, abbiamo piazzato una bomba accanto a ogni casa, e poi Homesh ha suonato una tromba, perché non avevamo la radio, e quello era il segnale [per le nostre forze] di andarsene. Stiamo correndo al contrario, gli Zappatori rimangono, tirano, è tutto primitivo. Accendono la miccia o tirano il detonatore e tutte quelle case sono sparite“.

Un altro passaggio che il ministero della Difesa ha voluto nascondere al pubblico è venuto dalla conversazione del dottor Lev Tov con il maggiore generale Avraham Tamir:

Tamir: “Ero sotto Chera [Magg. Il generale Tzvi Tzur, in seguito capo dello staff dell’IDF], e io abbiamo avuto ottimi rapporti di lavoro con lui. Mi ha dato libertà di azione – non chiedere – e mi è capitato di essere responsabile del personale e del lavoro operativo durante due sviluppi derivanti dalla politica [del primo ministro David] Ben-Gurion. Uno sviluppo è stato quando sono arrivate notizie sulle marce di rifugiati dalla Giordania verso i villaggi abbandonati [in Israele]. E poi Ben-Gurion stabilisce come politica che dobbiamo demolire [i villaggi] in modo che non abbiano un posto dove tornare. Cioè, tutti i villaggi arabi, la maggior parte dei quali si trovava [nell’area coperta dal] Comando Centrale, la maggior parte di loro“.

Lev Tov: “Quelli che erano ancora in piedi?

Tamir: “Quelli che non erano ancora abitati dagli israeliani. C’erano posti in cui avevamo già stabilito israeliani, come Zakariyya e altri. Ma la maggior parte di loro erano ancora villaggi abbandonati“.

Lev Tov: “Erano in piedi?”

Tamir: “In piedi. Era necessario che non ci fosse un posto dove tornare, così ho mobilitato tutti i battaglioni di ingegneria del Comando Centrale, e in 48 ore ho buttato a terra tutti quei villaggi. Periodo. Non c’è posto in cui tornare“.

Lev Tov: “Senza esitazione, immagino”.

Tamir: “Senza esitazione. Questa era la politica. Mi sono mobilitato, l’ho realizzato e l’ho fatto”.

Alla vigilia della fondazione di Israele, quasi 100.000 beduini vivevano nel Negev.

Tre anni dopo il numero scese a 13,000.

Negli anni durante e dopo la guerra di indipendenza, nel sud del paese furono effettuate numerose operazioni di espulsione.

Al posto dei beduini e dei loro greggi, c’era un silenzio mortale. Decine di carcasse di cammelli erano sparse nell’area. Abbiamo appreso che tre giorni prima l’IDF aveva “fregato” i beduini e le loro greggi erano state distrutte: i cammelli sparando, le pecore con le granate. Uno dei beduini, che ha iniziato a lamentarsi, è stato ucciso, gli altri sono fuggiti “.

La testimonianza continuava: “Due settimane prima, gli era stato ordinato di rimanere dov’erano per il momento, poi gli era stato ordinato di andarsene e per accelerare le cose furono massacrati 500 capi …L’espulsione è stata eseguita “in modo efficiente”.

La lettera prosegue citando ciò che uno dei soldati ha detto a Parnes, secondo la sua testimonianza: “Non se ne andranno a meno che non abbiamo fregato i loro greggi. Una ragazzina di circa 16 anni si è avvicinata a noi. Aveva una collana di perline di serpenti di ottone. Abbiamo strappato la collana e ognuno di noi ha preso una perla come souvenir. ” La lettera è stata originariamente inviata a MK Yaakov Uri, di Mapai (precursore del lavoro), che l’ha trasmessa al ministro dello Sviluppo Mordechai Bentov (Mapam). “La sua lettera mi ha scioccato”, ha scritto Uri a Bentov. Quest’ultimo ha fatto circolare la lettera tra tutti i ministri del governo, scrivendo: “È mia opinione che il governo non possa semplicemente ignorare i fatti riportati nella lettera”. Avevano confermato che i contenuti “in effetti generalmente sono conformi alla verità”.

Malmab, ad esempio, ha mostrato interesse per il libro in lingua ebraica “A Decade of Discretion: Settlement Policy in the Territories 1967-1977”, pubblicato da Yad Tabenkin nel 1992 e scritto da Yehiel Admoni, direttore del Jewish Agency’s Settlement Department durante il decennio di cui scrive. Il libro menziona un piano per insediare i profughi palestinesi nella Valle del Giordano e lo sradicamento di 1.540 famiglie beduine dall’area di Rafah della Striscia di Gaza nel 1972, compresa un’operazione che includeva la sigillatura di pozzi da parte dell’IDF. Ironia della sorte, nel caso dei beduini, Admoni cita l’ex ministro della Giustizia Yaakov Shimshon Shapira dicendo: “Non è necessario estendere troppo la logica della sicurezza”.

L’intero episodio beduino non è un capitolo glorioso dello Stato di Israele “. Secondo Azati, “Ci stiamo muovendo sempre più verso un inasprimento dei ranghi. Sebbene questa sia un’era di apertura e trasparenza, apparentemente ci sono forze che stanno spingendo nella direzione opposta“.

Benny Morris non è sorpreso dall’attività del Malmab.

“Lo sapevo”, dice “Non ufficialmente, nessuno mi ha informato, ma l’ho incontrato quando ho scoperto che i documenti che avevo visto in passato sono ora sigillati. C’erano documenti dall’Archivio IDF che ho usato per un articolo su Deir Yassin, e che ora sono sigillati. Quando sono arrivato all’archivio, non mi era più permesso di vedere l’originale, quindi ho sottolineato in una nota [nell’articolo] che l’Archivio di Stato aveva negato l’accesso ai documenti che avevo pubblicato 15 anni prima “.

Il caso Malmab è solo un esempio della battaglia intrapresa per l’accesso agli archivi in Israele.

Secondo il direttore esecutivo dell’Akevot Institute, Lior Yavne, “L’archivio dell’IDF, che è il più grande archivio in Israele, è sigillato quasi ermeticamente. Circa l’1% del materiale è aperto. L’archivio dello Shin Bet, che contiene materiali di immensa importanza [per gli studiosi], è completamente chiuso a parte una manciata di documenti “. Un rapporto scritto da Yaacov Lozowick, l’ex capo archivista presso l’Archivio di Stato, al momento del suo ritiro, si riferisce alla presa dell’establishment della difesa sui materiali d’archivio del paese.

In esso, scrive: “Una democrazia non deve nascondere le informazioni perché rischia di mettere in imbarazzo lo Stato.

In pratica, l’establishment della sicurezza in Israele, e in una certa misura anche quello delle relazioni estere, stanno interferendo con la discussione [pubblica] “. I sostenitori dell’occultamento hanno avanzato diversi argomenti, Lozowick osserva: “La scoperta dei fatti potrebbe fornire ai nostri nemici un ariete contro di noi e indebolire la determinazione dei nostri amici; rischia di suscitare la popolazione araba; potrebbe indebolire gli argomenti dello Stato nei tribunali; e ciò che viene rivelato potrebbe essere interpretato come crimini di guerra israeliani “. Tuttavia, dice: “Tutti questi argomenti devono essere respinti. Questo è un tentativo di nascondere parte della verità storica al fine di costruire una versione più conveniente “. Quello che dice Malmab.

Yehiel Horev è stato il custode dei segreti dell’establishment della sicurezza per più di due decenni.È stato a capo del dipartimento di sicurezza del ministero della Difesa dal 1986 al 2007 e naturalmente è stato tenuto fuori dai riflettori.A suo merito, ha ora accettato di parlare apertamente con Haaretz del progetto degli archivi. “Non ricordo quando è iniziato”, dice Horev, “ma so di averlo iniziato. Se non sbaglio, è iniziato quando le persone volevano pubblicare documenti dagli archivi. Abbiamo dovuto creare delle squadre per esaminare tutto il materiale in uscita “. Dalle conversazioni con i direttori degli archivi, è chiaro che una buona parte dei documenti su cui è stata imposta la riservatezza si riferiscono alla Guerra d’Indipendenza.

Nascondere gli eventi del 1948 fa parte dello scopo di Malmab? “Cosa significa” parte dello scopo “?

L’argomento viene esaminato sulla base di un approccio per valutare se possa danneggiare le relazioni estere di Israele e l’establishment della difesa. Questi sono i criteri. Penso che sia ancora rilevante. Non c’è pace dal 1948. Potrei sbagliarmi, ma per quanto ne so il conflitto arabo-israeliano non è stato risolto. Quindi sì, potrebbe essere che gli argomenti problematici rimangano “. Dal suo punto di vista, ogni documento deve essere esaminato e ogni caso deve essere deciso nel merito. Se gli eventi del 1948 non fossero noti, potremmo discutere se questo approccio sia quello giusto. Non è così. Molte testimonianze e studi sono apparsi sulla storia del problema dei rifugiati. Qual è il punto di nascondere le cose? “La domanda è se può fare del male o no. È una questione molto delicata. Non tutto è stato pubblicato sulla questione dei rifugiati e ci sono tutti i tipi di narrazioni. Alcuni dicono che non c’è stata nessuna fuga, solo espulsione. Altri dicono che c’era il volo. C’è una differenza tra la fuga e coloro che dicono di essere stati espulsi con la forza. Non posso dire ora se meriti la totale riservatezza, ma è un argomento che deve assolutamente essere discusso prima di prendere una decisione su cosa pubblicare “.

Per anni il ministero della Difesa ha imposto la riservatezza su un documento dettagliato che descrive i motivi della partenza di coloro che sono diventati rifugiati. Benny Morris ha già scritto del documento, quindi qual è la logica per tenerlo nascosto? “Non ricordo il documento a cui ti riferisci, ma se ha citato da esso e il documento stesso non è lì [cioè, dove Morris dice che è], allora i suoi fatti non sono forti. Se dice: “Sì, ho il documento”, non posso discuterne. Ma se dice che è scritto lì, potrebbe essere giusto e potrebbe essere sbagliato. Se il documento fosse già fuori e fosse sigillato nell’archivio, direi che è una follia. Ma se qualcuno lo ha citato, c’è una differenza di giorno e notte in termini di validità delle prove che ha citato. “ In questo caso, stiamo parlando dello studioso più citato quando si parla di profughi palestinesi. “Il fatto che tu dica ‘studioso’ non mi fa impressione.

Conosco persone nel mondo accademico che dicono sciocchezze su argomenti che conosco dalla A alla Z. Quando lo stato impone la riservatezza, il lavoro pubblicato è indebolito, perché non ha il documento “.

Ma nascondere documenti basati su note a piè di pagina nei libri non è forse un tentativo di chiudere a chiave la stalla stalla dopo che i cavalli sono scappati? “Ti ho dato un esempio che non è necessario che sia così. Se qualcuno scrive che il cavallo è nero, se il cavallo non è fuori dalla stalla, non puoi provare che sia davvero nero”. Ci sono pareri legali che affermano che l’attività del Malmab negli archivi è illegale e non autorizzata. “Se so che un archivio contiene materiale riservato, ho il potere di dire alla polizia di andare lì e confiscare il materiale. Posso anche utilizzare i tribunali. Non ho bisogno dell’autorizzazione dell’archivista. Se c’è materiale classificato, ho l’autorità di agire. Guarda, c’è una policy. I documenti non sono sigillati senza motivo. E nonostante tutto, non ti dirò che tutto ciò che è sigillato è giustificato al 100% [in quanto sigillato]. “

Il ministero della Difesa ha rifiutato di rispondere a domande specifiche riguardanti i risultati di questo rapporto investigativo e si è accontentato della seguente risposta: “Il direttore della sicurezza dell’establishment della difesa opera in virtù della sua responsabilità di proteggere i segreti dello Stato e le sue risorse di sicurezza. Il Malmab non fornisce dettagli sulla sua modalità di attività o sulle sue missioni “.

 

https://www.haaretz.com/misc/article-print-page/.premium.MAGAZINE-how-israel-systematically-hides-evidence-of-1948-expulsion-of-arabs-1.7435103

(traduzione di Sara Cimmino)

 

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Gaza, la Spoon River palestinese 60 bambini uccisi ,444 feriti 30.000 sfollati – Umberto De Giovannangeli

 

Pensateli  in fila. Mano nella mano. Un milione di bambini. Bambini palestinesi. Bambini di Gaza. Una fila interminabile. E provate a pensare alla loro esistenza, ad una infanzia negata. E’ la Spoon River palestinese. Denuncia Henrietta Fore, direttore generale dell’Unicef, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia“

Un milione di bambini a Gaza subiscono le conseguenze crescenti di un conflitto violento, senza un posto sicuro dove andare. Sono state perse vite e sono state distrutte famiglie.
A Gaza, almeno 60 bambini sono stati uccisi e altri 444 sono stati feriti in meno di 10 giorni. Circa 30.000 bambini sono stati sfollati. Si stima che 250.000 bambini abbiano bisogno di servizi di protezione e per la salute mentale. Almeno 4 strutture sanitarie e 40 scuole sono state danneggiate. Circa 48 scuole – la maggior parte gestite dall’Unrwa – vengono usate come rifugi d’emergenza per le famiglie che cercano rifugio dalle violenze.  I sistemi idrici e igienico-sanitari, già indeboliti, sono stati ulteriormente compromessi come risultato di quest’ultima escalation. Le infrastrutture essenziali, fra cui pozzi e serbatoi di acqua di falda, impianti di desalinizzazione e di trattamento delle acque reflue, reti di distribuzione dell’acqua e stazioni di pompaggio – hanno subito danni significativi. Stimiamo che 325.000 persone abbiano bisogno di servizi idrici e igienico-sanitari di emergenza, senza i quali è più facile che contraggano malattie infettive potenzialmente letali.
La capacità di energia elettrica in tutta Gaza è diminuita di circa il 60%, lasciando gli ospedali sempre più dipendenti dai generatori per garantire i servizi sanitari essenziali. Questi generatori richiedono quantità significative di carburante per funzionare. Qualsiasi riduzione della capacità di assistenza sanitaria potrebbe anche mettere a repentaglio le cure per i malati di Covid-19.  L’Unicef chiede l’immediata cessazione delle ostilità per ragioni umanitarie per permettere l’ingresso del personale e degli aiuti essenziali, tra cui carburante, articoli medici, kit di primo soccorso e vaccini contro il Covid-19. Chiediamo inoltre che si stabiliscano corridoi umanitari in modo da poter portare questi aiuti in sicurezza, in modo che si ricongiungano le famiglie e possano accedere a servizi essenziali e in modo che i malati e i feriti possano essere evacuati. In ogni giorno di prosecuzione del conflitto, i bambini negli stati di Palestina e Israele soffriranno. Questi bambini hanno bisogno di un cessate il fuoco adesso, e di una soluzione politica a lungo termine al conflitto in generale. Meritano molto di più di questo ciclo orribile di violenze e paura che va avanti da troppo tempo”.

Nell’ultima settimana sono stati uccisi almeno 60 bambini a Gaza e due nel sud di Israele e più di mille persone, compresi 366 minori, sono rimaste ferite a Gaza, l’equivalente di quasi tre bambini feriti ogni ora, da quando è iniziata l’escalation del 14 maggio tra Israele e gruppi armati nella Striscia. Decine di persone sono state ferite anche nel sud di Israele. Così Save the Children, che chiede un cessate il fuoco immediato a tutte le parti. L’organizzazione ha diffuso un video con i racconti dei bambini che vivono a Gaza. “Ogni volta che c’è un attacco aereo ci spaventiamo. Appena proviamo a uscire e arriviamo alla porta principale, ne arriva un altro e torniamo dentro il più velocemente possibile. Ogni volta che metto la testa sul cuscino, c’è un altro attacco aereo e mi sveglio terrorizzato” ha detto Khaled.

I servizi salvavita sono al punto di rottura poiché le linee elettriche sono state danneggiate nei bombardamenti. Le forniture di carburante, che sono le uniche fonti di energia e elettricità nella Striscia di Gaza, sono esigue e Israele ha chiuso il confine attraverso il quale entrano i rifornimenti. “Almeno 60 bambini sono stati uccisi a Gaza in una settimana giorni. Quante altre famiglie devono perdere i propri cari prima che la comunità internazionale agisca? Dove possono correre i più piccoli quando gli attacchi aerei piovono sulle loro case? Le famiglie a Gaza e il nostro staff ci dicono che sono al punto di rottura: vivono all’inferno senza un posto dove trovare rifugio e apparentemente senza fine in vista. Le forniture di base e l’energia si stanno esaurendo, aggravando e alimentando ulteriormente questa catastrofe umanitaria”, afferma Jason Lee, direttore di Save the Children per i territori palestinesi occupati. Save the Children chiede che il blocco su Gaza venga revocato con urgenza mentre le vite dei bambini sono in bilico. Il governo di Israele e tutte le parti devono consentire agli operatori umanitari di raggiungere i minori con aiuti salvavita e l’ingresso senza ostacoli di rifornimenti essenziali e carburante.

L’annientamento di una popolazione

Quasi la metà degli abitanti di Gaza non ha cibo a sufficienza, il tasso di disoccupazione è arrivato oltre il 40% e circa 23.550 persone sono ancora senza casa dalla guerra del 2014.
Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare.
Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65 per cento degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione.

Questa è la vita a Gaza. E i primi a esserne colpiti sono i più indifesi: i bambini, ai quali è negata la gioia dell’infanzia. Più di 740 scuole si trovano in grande difficoltà per la carenza di energia elettrica, che è disponibile per sole 2 ore al giorno.
Una limitazione che provoca gravi conseguenze anche per l’interruzione dei servizi sanitari e di emergenza, per l’aumento delle malattie trasmesse dall’acqua per la sospensione della potabilizzazione e il disastro ambientale a seguito del mancato trattamento delle acque reflue

“I bambini di Gaza – rimarca Jennifer Moorehead, già direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati – sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno già sofferto 10 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività”. La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità.

“Qui è diverso dagli altri paesi che hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità”, dice agli operatori di Save the Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.

Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età.

Il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone.

I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (DPTS), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti.

Si tratta di sintomi frequenti in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico.

Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia ha dichiarato che “a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata da cui non puoi comunque uscire”.
Secondo Bruce Grant, responsabile Unicef nei Territori Occupati: “per i bambini un evento del genere mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere responsabili del disagio sofferto dalla famiglia”.
Fatima Qortoum nel 2008 aveva 9 anni. Ha visto schizzare il cervello di suo fratello, a causa delle schegge di una bomba e quattro anni più tardi, nel bombardamento del 2012, l’altro fratello di sei anni è rimasto ferito ai polmoni e alla spina dorsale. Ad oggi, Fatima soffre di PTSD.
“Non avevamo paura. Siamo abituati a tutto questo. Mio padre ci disse in casa: Gli israeliani stanno cercando di terrorizzarci, ma noi abbiamo la nostra resistenza che li spaventa”, ha raccontato all’Onu Mohamed Shokri, 12 anni.

L’evento-guerra, ovviamente, è il più traumatico per il bambino. Tutto il sistema sensoriale è allertato e colpito profondamente: essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni militari; vedere soldati, armi, spari, persone uccise; sentire le urla dei feriti, sono tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella memoria.

Un anno dopo dall’operazione “Piombo Fuso”, Amal, 10 anni, portava con sé, ovunque vada, due foto di suo padre e di suo fratello morti durante l’attacco. “Voglio guardarli sempre. La mia casa non è bella senza di loro”, spiegava Amal, ferita gravemente alla testa e all’occhio destro.
Il danno fisico non è nulla in confronto a quello psicologico.

Fu trovata quattro gironi dopo l’attacco, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock; era una dei 15 sopravvissuti. Kannan, 13 anni, zoppica per il colpo di pistola ricevuto sulla gamba sinistra. Anche per lui il danno non è solo fisico: prima della guerra del 2014, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Nei mesi successivi alla sparatoria ha avuto ripetutamente degli incubi, si è svegliato spesso piangendo, si spaventa molto facilmente e “non va al bagno da solo” dice Zahawa, sua madre.

Le parole di una animatrice del Ciss (Cooperazione internazionale Sud Sud) descrivono bene i sentimenti dei bambini: “I bambini nei loro racconti, spesso fanno riferimento alla guerra. Dopo che abbiamo fatto il gioco delle sagome, abbiamo notato che i bambini riconoscono i loro occhi e le loro orecchie come punti di debolezza nel loro corpo, spiegando che con gli occhi vedono le distruzioni e con le orecchie sentono il bombardamento.

Invece per quanto riguarda i punti di forza, i bambini rispondono, le gambe perché ci aiutano a fuggire e le mani perché ci aiutano a nascondere la faccia”.
“La prima volta che sono tornato a Gaza dopo la guerra – racconta Akihiro Seita, il direttore dei programmi di salute dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi – sono rimasto impressionato da quanto madri e bambini soffrissero per la portata dei bombardamenti. Tutte le mamme che ho incontrato nei centri di salute dell’Unrwa hanno messo in evidenza come i loro figli si comportassero in maniera diversa durante e dopo il conflitto: alcuni non dormivano più, altri non mangiavano, altri ancora non riuscivano più a parlare. E’ straziante ascoltare questi racconti, ancora di più l’esserne testimone”.

Eyad El Serraj, lo psichiatra che dirige il Gaza Community Mental Health Programme e si occupa dei disordini post-traumatici sui minori dal 1990, dice che per i bambini in cura si va dagli incubi alla difficoltà di concentrazione, dal senso di colpa per essere sopravvissuti, fino al senso di insicurezza e impotenza.

Secondo El Serraj, la relazione che questi bambini hanno con i genitori è distorta perché si rendono conto fin dalla prima infanzia che non sono in grado di proteggerli, e parla di un trauma collettivo che aggrava il conflitto preparando la strada a nuova violenza, in quanto “il conflitto, da un punto di vista psicologico, dà vita a un ciclo di vittimizzazione e aggressione che continua a ripetersi, aggravandosi. I giovani passerebbero attraverso un momento iniziale di totale apatia, in cui si sentono stanchi e impotenti: uno stato d’animo che conduce spesso a gravi forme di depressione e alla fase di vittimizzazione. Poi il conflitto continua e i giovani cominciano a dare segni di forte ansietà e rabbia. E qui comincia la fase di aggressione che conduce a esplosioni di violenza: un ciclo che continua a ripetersi e ad aggravarsi. E a rendere impronunciabile tra i bambini di Gaza la parola “speranza”.

(dalla Palestina ha collaborato Osama Hamdan)

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IN ISRAELE NESSUNO SI OPPONE ALLA GUERRA – Gideon Levy

 

Non c’è questione che non veda tutti gli Israeliani d’accordo sul lancio di una guerra. È passata quasi una settimana e nessuno si oppone a questa orribile aggressione, nemmeno i leader di centro sinistra Yair Lapid, Merav Michaeli e Nitzan Horowitz.

Attaccano Benjamin Netanyahu, ma non serve essere coraggiosi per farlo, esprimono dolore per le nostre sofferenze, ma non una parola su questa voluta guerra criminale il cui bilancio delle vittime e il minuscolo vantaggio che concede a Israele deve ancora essere determinato. Ancora una volta, questa è la prova che non esiste un campo di pace in Israele, nemmeno un piccolo schieramento.

I commentatori degli studi televisivi parlano di “apocalisse”, orde di generali in pensione e agenti dello Shin Bet che intonano un coro uniforme e ripugnante. Con la bava alla bocca e gli occhi accesi, rivolti verso l’alto verso i gloriosi piloti che sono riusciti a eludere e distruggere la sofisticata difesa aerea del nemico: Due aquiloni strappati in una buona giornata. Il bombardamento dell’indifeso campo profughi di Gaza è “la prova che la nostra forza aerea è la migliore del mondo”, ha detto un noto giornalista con voce tremante di emozione.

E i risultati non vengono mostrati. Gli israeliani non hanno idea di quello che sta succedendo a Gaza, non hanno idea di cosa stiano facendo i militari in loro nome. Ecco perché chiedono a gran voce di continuare, perché sono convinti della giustizia della loro causa.

Possiamo supporre che se più israeliani vedessero le immagini da Gaza, almeno alcuni di loro si desterebbero e chiederebbero di porre fine a questo orrore. Ho ricevuto le foto dei corpi straziati di 40 bambini durante il raccolto di venerdì sera a Gaza. Non si può rimanere in silenzio dopo aver visto queste immagini. Lasciamo da parte l’umanità per ora, è irrilevante in tempo di guerra.

La domanda è: a cosa serve tutto questo? Cosa sarebbe successo se Israele non avesse provocato i palestinesi a Gerusalemme? E cosa sarebbe successo se anche dopo queste provocazioni avesse ingoiato il suo orgoglio e ritirato i suoi aggressivi agenti di polizia dal complesso di Al-Aqsa, o non avesse bombardato le torri residenziali di Gaza, per evitare una guerra? Cosa sarebbe successo se avesse mostrato moderazione? È più potente adesso? Hamas è forse più vulnerabile o è stato indebolito militarmente ma rafforzato politicamente fino a raggiungere il massimo storico?

Hamas è l’eroe del momento, non Israele. E per quanto riguarda la deterrenza, la madre di tutte le scuse per ogni guerra a Gaza, basti guardare cosa è successo l’ultima volta che ci hanno parlato della deterrenza, durante la guerra del 2014. Si presume che il deterrente abbia raddoppiato la potenza militare di Hamas, così come la sua audacia.

Hamas è anche responsabile di crimini di guerra, ovviamente, ma soprattutto, ricordiamo, contro il suo stesso popolo. Costruire una macchina da guerra aggressiva senza alcuna protezione per la popolazione contro l’esercito israeliano è un crimine contro l’umanità.

Ma siamo israeliani, quindi dobbiamo discutere dei nostri crimini di guerra. Questi si stanno accumulando nell’operazione in corso, che per un momento sembrava essere stata condotta con maggiore cautela rispetto alle precedenti. Ora il sangue dei bambini a Gaza scorre nelle strade, a causa dei crimini dei nostri piloti e soldati.

Se i piloti potessero vedere le foto dei bambini che hanno ucciso, se i comandanti delle basi aeree comparsi venerdì sera in tutti gli studi televisivi, con la loro rivoltante e smielata eloquenza, vedessero queste immagini, cosa direbbero? Che non c’era scelta? Ora possiamo aspettare il Venerdì Nero che accade sempre alla fine di una guerra a Gaza. Migliorerà l’equilibrio del sangue che ha già assunto proporzioni mostruose.

Di tutte le foto terribili, un video dal nord di Gaza, filmato giovedì sera, è rimasto impresso nella mia memoria. La telecamera era ferma e registrava una folla di persone in fuga verso sud, temendo un attacco aereo. Era tarda notte e la gente trasportava sacchetti di plastica e bambini, un mare di persone in fuga per salvarsi la vita, non per la prima volta, non per l’ultima, perché la maggior parte di loro non aveva un posto dove tornare. Uno di loro è saltato improvvisamente sulla strada per salvare un gattino, un raro momento di umanità.

Dovremmo guardare attentamente queste immagini. Cosa ci dà il diritto di fare tutto questo? Da dove viene?

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Fonte: https://www.haaretz.com/…/.premium.HIGHLIGHT-in-israel…

 

Tradotto daBeniamino Benjio Rocchetto

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Israele-Palestina: Un glossario del linguaggio problematico dei media – Alex MacDonald

 

Gli attivisti segnalano che i termini usati dai politici e dagli organi di stampa distorcono la narrazione sui fatti di Gerusalemme

 

Pochi argomenti possono suscitare forti emozioni quanto quello dei rapporti tra Israele e Palestina e l’uso del linguaggio relativo alla situazione attuale è fortemente contestato.

Dall’ultima fiammata nella regione, molti attivisti palestinesi hanno usato i social media per criticare il linguaggio utilizzato da alcuni organi di stampa e da alcuni politici per inquadrare gli eventi in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati.

 

Spesso, il bersaglio delle critiche è il linguaggio che sembra equivocare tra parti diseguali, in particolare l’uso di parole come “scontri” o riferimenti alla “violenza” in forma passiva che non riferiscono la causa o l’obiettivo della violenza.

Altre volte, il linguaggio usato dai commentatori e dai media può virare verso la cospirazione o nell’uso di termini disumanizzanti.

L’immagine di un titolo del quotidiano New York Times “corretto” da un attivista riassume molte delle preoccupazioni di alcuni osservatori. Di seguito alcuni dei termini e concetti che hanno alimentato la polemica:

 

1. “Scontri”

Uno dei termini che più di frequente appare nei resoconti dei media sulla violenza in corso a Gerusalemme –e nei precedenti avvenimenti in Israele-Palestina– è “scontri“.

 

Il termine allude a un conflitto tra due parti. L’Oxford English Dictionary descrive il verbo come “entrare in una violenta e rumorosa collisione “.

Tuttavia, molti attivisti filo-palestinesi hanno criticato il termine perché implica un grado di parità nell’uso della violenza e suggerisce quindi che ambedue le parti siano ugualmente da condannare.

Sebbene ci siano stati casi di attivisti che lanciavano pietre, i servizi di sicurezza israeliani sono pesantemente armati e pesantemente corazzati e sono stati gli istigatori di praticamente tutta la violenza durante i recenti avvenimenti.

L’uso di “scontri” inteso in senso neutrale rimuove inoltre l’operatore della violenza, consentendo che la colpa sia, implicitamente, distribuita in modo uniforme tra tutti i coinvolti.

Anche ignorando che in molti casi non c’è stata violenza da parte degli attivisti palestinesi, l’uso di “scontri” oscura la natura della violenza che ha avuto luogo e la narrazione entra in quel che è stato colloquialmente indicato come “bothsideism” (NdT, potremmo tradurlo come “cerchiobottismo”).

Simili considerazioni possono essere fatte anche su altri termini come “disordini” e “rivolte”.

 

2. “Conflitto”

In un senso simile a “scontri”, l’uso del termine “conflitto” può di nuovo implicare un’equivalenza della violenza tra i Palestinesi e le forze di sicurezza israeliane.

 

In generale, l’uso del termine “conflitto” ha un retaggio travagliato nella regione: per decenni la situazione è stata descritta come il “conflitto arabo-israeliano”.

È un termine ancora popolare tra gli Israeliani di destra, che implica che il mondo arabo nel suo  insieme sia in guerra contro il piccolo stato israeliano, oscurando le traversie dei Palestinesi nei Territori Occupati e ignorando le relazioni di cui Israele gode con molti stati arabi.

Il “conflitto israelo-palestinese”, pur essendo meno oscuro, implica ancora un certo grado di uguaglianza tra le due parti, anche se storicamente la violenza è stata appannaggio di entrambe le parti.

 

3. “Disputa sulla proprietà”

Parecchi politici e organi di stampa hanno descritto la controversia nel quartiere Sheikh Jarrah come una “disputa sulla proprietà“. Se nel senso più letterale ciò potrebbe essere vero, tale descrizione minimizza enormemente il contesto sottostante, implicando invece che quel che accade a Sheikh Jarrah non è più significativo o moralmente disdicevole di quanto lo sia, per esempio, una disputa tra un proprietario e un inquilino a Parigi, Londra o Istanbul.

 

La pianificata espulsione di 40 Palestinesi dal quartiere ha origine nel fatto che le famiglie si sono stabilite lì nel 1956, dopo la loro espulsione da quello che è oggi riconosciuto internazionalmente come Israele. Le case in cui vivono furono costruite con l’aiuto dell’Agenzia dell’ONU per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA) mentre Gerusalemme Est era sotto il controllo della Giordania.

Durante gli anni ’60, le famiglie raggiunsero con il governo giordano un accordo che li avrebbe resi proprietari della terra e delle case. L’accordo prevedeva che dopo tre anni avrebbero ricevuto gli atti di proprietà ufficiali, intestati a loro nome. Ma l’accordo fu affossato nel 1967, quando Gerusalemme Est fu occupata da Israele. La legge israeliana favorisce i coloni permettendo solo agli Ebrei di rivendicare le proprietà che dichiarano di aver posseduto prima del 1948, negando però lo stesso diritto ai Palestinesi.

Così, mentre c’è davvero una “disputa” sulla proprietà, discuterne in tali termini implica che si tratti di poco più di una normale questione legale, piuttosto che di una situazione del tutto particolare.

Anche l’uso del termine “sfratti” ha un effetto simile, anche se, di nuovo, è più accurato.

 

4. “Estremista” e “terrorista”

Sia “terrorista” sia “estremista” sono termini spesso usati quando si parla di Israele-Palestina. I media israeliani riportano i presunti atti di violenza dei Palestinesi quasi esclusivamente come causati da “terroristi”. Benché il termine sia forse meno frequente nei media stranieri, continua a comparire, in particolare tra i media di destra.

Per quale motivo l’uso del termine “terrorismo” sia controverso nel giornalismo è una questione molto più ampia. Agenzie come Reuters hanno a lungo evitato di usarlo, dicendo che viola “l’approccio neutrale” dell’agenzia. Nel contesto specifico degli avvenimenti di Gerusalemme, il termine normalizza una narrativa messa in giro dai servizi di sicurezza israeliani.

Per la maggior parte del mondo, un terrorista è qualcuno che compie atti di violenza indiscriminata contro i civili: le azioni del gruppo dello Stato Islamico (IS) e di al-Qaeda sono particolarmente importanti nell’immaginario popolare.

Questa equiparazione degli attivisti palestinesi che protestano –o, al massimo, lanciano pietre– contro le forze di sicurezza israeliane, con gli attacchi dell’11 settembre o i massacri dell’IS serve a delegittimare la causa palestinese e sottende un’irrazionale sete di sangue.

Estremista” è forse un termine ancor più rischioso, perché quasi sempre ciò che costituisce un “estremista” è indefinito. Molte ideologie politiche sono considerate estreme perché divergono da quella che è considerata la politica tradizionale, ma il termine è essenzialmente soggettivo.

 

5. “Sionismo”

Molti commentatori ebrei hanno regolarmente espresso disagio con l’uso del termine “sionismo” o “sionista” associato alle azioni israeliane.

Il termine, nato nel XIX secolo, si riferisce al movimento politico per la creazione di una patria ebraica. Sono esistite diverse incarnazioni del sionismo, che vanno dai sostenitori di sinistra di uno stato binazionale e socialista nella Palestina storica ai fondamentalisti religiosi di estrema destra che sostengono uno stato basato su leggi ebraiche Halakhah [NdT, la tradizione “normativa” religiosa dell’Ebraismo] che escludono i non-ebrei dalla cittadinanza.

Tuttavia, nel secolo scorso il termine sionismo è stato usato anche da gruppi antisemiti di estrema destra nell’ambito delle teorie antiebraiche che parlano di una cospirazione. Queste teorie ipotizzavano che il sionismo non fosse meramente un movimento politico per la colonizzazione della Palestina storica, ma facesse parte di un piano più ampio per il dominio del mondo.

Un popolare mito neonazista si riferisce al “Governo di Occupazione Sionista” o ZOG [Zionist Occupation Government], un termine usato per descrivere una cabala ebraica segreta che si presume gestisca la maggior parte dei governi occidentali.

Una rapida ricerca su Google del termine “antisionista” mostra il problema: i risultati includono il sito web del Jewish anti-Zionist Network, un gruppo di ebrei filopalestinesi di sinistra, ma includono anche l’Anti-Zionist League, che è un’organizzazione neonazista.

Questo ha portato molti a sentirsi a disagio nell’usare il termine “sionista”, specialmente in un contesto che vira verso territori che implicano il controllo di governi stranieri, il controllo dei media o della finanza o una doppia lealtà.

 

6. “Islam”

Il fatto che gli eventi di Gerusalemme siano accaduti durante il Ramadan e abbiano coinvolto i fedeli della moschea al-Aqsa non dovrebbe oscurare il fatto che il conflitto non è principalmente religioso. Molti Palestinesi cristiani e laici sono altrettanto coinvolti nella difesa della moschea al-Aqsa e si oppongono all’azione contro i residenti di Sheikh Jarrah.

 

Lo status di Gerusalemme Est e della moschea al-Aqsa è carico di significato religioso, ma ha anche un’enorme risonanza nazionale per i Palestinesi di tutte le fede e ideologie politiche. La spinta per l’istituzione di Gerusalemme Est come futura capitale di uno Stato palestinese è venuta tanto dai leader politici laici, cristiani e di sinistra dell’ultimo secolo, quanto dai religiosi musulmani e dagli islamisti.

Alcuni organi di stampa, così come i sostenitori e gli oppositori stranieri della causa palestinese, hanno tentato di inquadrare la situazione a Gerusalemme come un conflitto tra Islam ed Ebraismo, tra Musulmani ed Ebrei. Ma è una visione fondamentalmente sbagliata che può contribuire a narrazioni sia antisemitiche sia islamofobiche.

 

7. “Arabo”

Dal XIX secolo, teorici, leader di comunità, politici e attivisti discutono sulla relazione tra l’identità palestinese e l’identità araba. Ma identità ed etnicità sono in gran parte costrutti sociali e sono spesso fluidi.

Al culmine del movimento nazionalista arabo, dagli anni ’50 ai ’70, molti leader politici palestinesi come Yasser Arafat e George Habash sostennero il movimento panarabista ed equipararono la lotta della Palestina contro Israele come una parte della più ampia lotta per l’unità e l’indipendenza araba.

Tuttavia, negli ultimi decenni, poiché il panarabismo si è affievolito e la campagna per la liberazione palestinese in sé e per sé ha preso il sopravvento nella regione, i Palestinesi della diaspora, dei Territori Occupati e quelli nei confini internazionalmente riconosciuti di Israele si sono identificati prima di tutto come “Palestinesi”.

 

L’uso del termine “Arabo” per descrivere i Palestinesi si è perciò caricato di connotazioni. Questo è più che mai evidente nei media israeliani, specialmente quelli di destra, che regolarmente si riferiscono a tutti i Palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo come “Arabi”, insinuando l’inesistenza di un’identità palestinese e la temporalità del loro legame con quella terra.

Implica anche –paradossalmente imitando in parte i panarabisti– che i Palestinesi siano semplicemente un’estensione del più ampio mondo arabo e quindi Israele sia la vittima a causa della sua più piccola popolazione e di una posizione unitaria che lo avversa.

Si fa spesso una  distinzione anche tra gli Arabi-israeliani e i Palestinesi, ossia tra quei Palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana e quelli che vivono nei Territori Occupati. Mentre ci sono differenze in termini di diritti e standard di vita, e mentre alcuni Palestinesi in Israele si vantano orgogliosamente della loro identità israeliana, la maggioranza dei cittadini palestinesi di Israele si identifica prima di tutto come palestinese; ad esempio, la più grande città palestinese in Israele, Nazareth, negli ultimi giorni è esplosa in solidarietà con i manifestanti di Sheikh Jarrah e al-Aqsa.

 

8. “Il Monte del Tempio”, “Haram al-Sharif” e “al-Aqsa”

Come detto sopra, la contrapposizione Israele-Palestina non ha una base religiosa. Ma c’è una parte di Gerusalemme dove la religione gioca un ruolo importante: il complesso della Città Vecchia che ospita la moschea al-Aqsa, la Cupola della Roccia e il Muro del Pianto.

Agli Ebrei, il complesso è noto come il Monte del Tempio, luogo di due antichi templi biblici e il sito dove la “presenza divina” sulla Terra è più forte. Il Muro del Pianto, dove pregano gli Ebrei, è considerato una delle ultime parti restanti della struttura del Secondo Tempio.

Ai Musulmani, il complesso è noto come al-Haram al-Sharif (il Nobile Santuario, noto anche come la Spianata delle Moschee) e ospita la moschea al-Aqsa –uno dei tre maggiori luoghi sacri dell’Islam– che comprende la Cupola della Roccia e altri santuari islamici.

Molti organi di stampa tentano di evitare provocazioni sul come chiamare l’area, riferendosi a essa con entrambi i nomi ed elaborando sulle distinzioni. Ma anche qui è possibile falsare la natura della controversia.

Dalla conquista di Gerusalemme Est da parte di Israele nel 1967, ci sono stati attivisti religiosi israelo-ebraici che hanno chiesto la costruzione del Terzo Tempio in quel luogo, cosa che secondo loro annuncerebbe la venuta del messia e richiederebbe la demolizione della moschea al-Aqsa. Tuttavia, nessun leader israeliano ha sostenuto pubblicamente questa idea, per timore di una massiccia reazione negativa da parte del mondo musulmano.

Negli ultimi decenni, però, ci sono state campagne da parte di gruppi di coloni ebrei per la rimozione del divieto di preghiera ebraica nel sito. Lo “status quo”, come viene chiamato, è un accordo tra Israele e l’autorità religiosa giordana che controlla il complesso. L’accordo consente agli Ebrei di visitare il sito, ma non di pregarvi. Questa posizione è stata sostenuta, sinora, dal Gran Rabbinato di Gerusalemme.

Gli attivisti che chiedono che la preghiera ebraica sia consentita nel complesso hanno impostato la discussione come un fatto di uguaglianza religiosa: se ai Musulmani è permesso pregarvi, perché non è così anche per gli Ebrei?

È facile rappresentarlo come un problema di sciovinismo musulmano che nega agli Ebrei l’accesso al loro luogo più sacro. Ma così si ignora il contesto della conquista di Gerusalemme Est da parte di Israele e la continua colonizzazione e insediamento della terra palestinese; al-Haram al-Sharif, probabilmente il simbolo più significativo di sovranità palestinese, è visto come una linea rossa.

In un altro mondo, in cui ci fosse uno stato in cui Israeliani e Palestinesi vivono come cittadini pienamente uguali, il dibattito potrebbe essere considerato come una cosa che ha a che fare con i diritti religiosi e la teologia ma, nel contesto attuale, le condizioni materiali impongono una diversa narrazione.

https://www.middleeasteye.net/news/israel-palestine-aqsa-sheikh-jarrah-media-coverage-problematic-glossary

 

Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina

 

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Una lettera d’amore al nostro popolo in Palestina

 

La tua implacabile volontà di rimanere sulla terra è fonte di ispirazione, perseveranza e forza d’animo. Ancora una volta, i palestinesi dall’estremo nord all’estremo sud della nostra patria stanno sfidando i tentativi del colonialismo sionista di separare terra e persone. Dalla Galilea a Gaza sveli la geografia della Palestina, di fronte alla brutalità militare e all’impunità internazionale. La violenza di Stato e dei coloni, e la pulizia etnica a Sheikh Jarrah e nel complesso di Al Aqsa non sono eccezioni. Fanno parte di una Nakba in corso che ha attraversato il tempo e lo spazio palestinese dal 1948.

Per le nostre sorelle palestinesi, la vostra fermezza nel mantenere la posizione, a rischio di lesioni e morte, e contro ogni previsione, è la nostra forza d’animo. La violenza di genere è il cuore della pratica coloniale sionista. Siamo al vostro fianco mentre resistete a questa colonizzazione machista e militarizzata. Condividiamo il vostro dolore per questo nuovo assalto alla vita e alla terra palestinese. Siamo infuriate mentre i coloni seminano devastazione e chiedono la morte del nostro popolo. Restiamo vigili mentre resistete agli attacchi aerei a Gaza, alle granate stordenti, ai lacrimogeni, all’acqua putrida, ai proiettili di gomma e alla profanazione dei nostri luoghi sacri a Gerusalemme, non meno durante il mese di Ramadan. Siamo con voi mentre resistete alla violenta cancellazione della lotta palestinese da parte dei media.

Il vostro impegno ci ha ispirato per generazioni: la Palestina è una questione femminista. L’amore guida la nostra metodologia per la liberazione. Affermiamo la vita e imploriamo le donne ovunque di parlare, organizzare e unirsi alla lotta per la liberazione palestinese. Chiediamo la cessazione immediata dei furti di case a Sheikh Jarrah, Silwan e oltre, e la fine immediata degli attacchi aerei su Gaza.

Per il nostro popolo in tutta la Palestina, siamo con voi. Si sta proteggendo un futuro in cui i palestinesi  possano vivere ovunque senza paura della violenza coloniale, un futuro in cui i nostri figli e le nostre case siano al sicuro, un futuro libero dall’oppressione  coloniale e dall’incarcerazione, un futuro in cui possiamo praticare liberamente il nostro culto spirituale.

Stiamo arrivando attraverso le città nel cuore dell’impero statunitense, che ha alimentato la colonizzazione e l’espropriazione del popolo palestinese. La nostra visione per un futuro radicalmente diverso si basa sull’uguaglianza, la giustizia e l’interconnessione che afferma la vita. Onoriamo le vostre voci, perseveranza e Sumoud (“fermezza”) e promettiamo di continuare la nostra lotta comune per la giustizia e la liberazione in Palestina e nello shataat (Diaspora Palestinese).

In lotta

Il Collettivo Femminista Palestinese

[Questa lettera è stata originariamente pubblicata sulla pagina Facebook del Collettivo femminista palestinese il 14 maggio 2021.]

Trad: Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org

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MUNA È LA PALESTINA, YAKUB È ISRAELE: LA STORIA NON DETTA DI SHEIKH JARRAH – Ramzy Baroud

 

Ci sono due storie distinte di Sheikh Jarrah: una letta e guardata sui notiziari e un’altra che riceve poca copertura mediatica o debita analisi.

La storia ovvia è quella delle incursioni notturne e delle violenze perpetrate dalla polizia israeliana e dagli estremisti ebrei contro i palestinesi nel devastato quartiere di Gerusalemme Est.

Per settimane migliaia di estremisti ebrei hanno preso di mira le comunità palestinesi nella Città Vecchia di Gerusalemme. Il loro obiettivo è l’allontanamento delle famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah. Non agiscono da soli. Le loro rivolte e furie sono dirette da una leadership ben coordinata composta da gruppi estremisti sionisti ed ebrei, come il partito Otzma Yehudit e il movimento Lehava. Le loro affermazioni infondate, le azioni violente e il canto ripugnante “Morte agli arabi” sono convalidati da politici israeliani, come il deputato della Knesset Itamar Ben-Gvir e il vice sindaco di Gerusalemme, Arieh King.

Ecco una piccola introduzione al discorso politico di Ben-Gvir e King, che sono stati ripresi in video mentre urlavano e insultavano un manifestante palestinese ferito. Il video inizia con il deputato Ben-Gvir che urla in tono sprezzante a un palestinese che è stato visibilmente ferito dalla polizia israeliana, ma è tornato per protestare contro gli sfratti previsti per Sheikh Jarrah.

Si sente Ben-Gvir gridare: “Abu Hummus, come sta il tuo culo?”

“Il proiettile è ancora lì, ecco perché zoppica”, risponde il vicesindaco, King, a Ben-Gvir. King continua: “Ti hanno tolto la pallottola dal culo? L’hanno già tolto? È un peccato che non sia entrato qui “, continua King, indicando la sua testa.

Compiaciuti di quello che percepiscono come un commento “estroso” sul ferimento del palestinese, Ben-Gvir e l’entourage di estremisti ebrei di King ridono.

Mentre “Abu Hummus”, ferito ma ancora protestando, è una testimonianza della tenacia del popolo palestinese, King, Ben-Gvir, i coloni e la polizia sono una rappresentazione del fronte israeliano unito volto a ripulire etnicamente i palestinesi e garantire la maggioranza ebraica a Gerusalemme.

Un altro importante partecipante alla campagna di pulizia etnica israeliana in corso a Gerusalemme è il sistema giudiziario israeliano che ha fornito una copertura legale per prendere di mira gli abitanti palestinesi di Gerusalemme.

Il fondamento giuridico dei continui tentativi dei coloni ebrei di acquisire più proprietà palestinesi può essere fatto risalire a una legge specifica del 1970, nota come Legge sulle questioni legali e amministrative, che consentiva agli ebrei di citare in giudizio i palestinesi per le proprietà di cui affermano di essere proprietari prima della istituzione di Israele sulle rovine della Palestina storica nel 1948. Mentre i palestinesi sono esclusi dal fare simili rivendicazioni, i tribunali israeliani hanno generosamente consegnato case, terre e altri beni palestinesi a richiedenti ebrei. A loro volta, queste case, come nel caso di Sheikh Jarrah e di altri quartieri palestinesi a Gerusalemme est, sono spesso vendute a organizzazioni di coloni ebrei per costruire ancora più colonie sulla terra palestinese occupata.

Lo scorso febbraio, la Corte Suprema israeliana ha concesso ai coloni ebrei il diritto a molte case palestinesi a Sheikh Jarrah. A seguito di un contraccolpo palestinese e internazionale, ha offerto ai palestinesi un “compromesso ”, in base al quale le famiglie palestinesi rinunciavano ai diritti di proprietà sulle loro case e accettavano di continuare a viverci come inquilini, pagando gli affitti ai coloni ebrei illegali che hanno rubato le loro case prima, ma che ora sono armati di una decisione del tribunale.

Tuttavia, la “logica” per la quale gli ebrei rivendicano le proprietà palestinesi come proprie non dovrebbe essere associata a poche organizzazioni estremiste. Dopo tutto, la pulizia etnica della Palestina nel 1948 non è stata opera di pochi sionisti estremisti. Allo stesso modo, l’occupazione illegale di Gerusalemme Est, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967 e la massiccia impresa coloniale di insediamenti che ne è seguita non sono state il frutto dell’ingegno di pochi individui estremi. Il colonialismo in Israele era, e rimane, un progetto gestito dallo stato, che alla fine mira a raggiungere lo stesso obiettivo che viene portato avanti a Sheikh Jarrah: la pulizia etnica dei palestinesi per garantire la maggioranza demografica ebraica.

Questa è la storia non raccontata di Sheikh Jarrah, una storia che non può essere espressa da pochi byte di notizie o post sui social media. Tuttavia, questa narrativa più rilevante è in gran parte nascosta. È più facile incolpare alcuni estremisti ebrei che ritenere responsabile l’intero governo israeliano. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, manipola costantemente l’argomento demografico per promuovere gli interessi del suo collegio elettorale ebraico. Crede fermamente in uno stato ebraico esclusivo e anche pienamente consapevole dell’influenza politica dei coloni ebrei. Ad esempio, poco prima delle elezioni del 23 marzo, Netanyahu ha preso la decisione di dare il via libera alla costruzione di 540 unità di insediamento illegale nella cosiddetta Har-Homa E Area (Abu Ghneim Mountain) nella Cisgiordania occupata, nella speranza di acquisire più voti possibili.

Mentre la storia di Sheikh Jarrah sta raccogliendo una certa attenzione anche nei principali media statunitensi, c’è una quasi completa assenza di profondità in quella copertura, vale a dire il fatto che Sheikh Jarrah non è l’eccezione ma la norma. Purtroppo, mentre i palestinesi e i loro sostenitori cercano di aggirare la diffusa censura dei media raggiungendo direttamente le società civili di tutto il mondo utilizzando le piattaforme dei social media, spesso vengono censurati anche lì.

Uno dei video inizialmente censurati da Instagram è quello di Muna al-Kurd, una donna palestinese che aveva perso la sua casa a Sheikh Jarrah a causa di un colono ebreo di nome Yakub.

“Yakub, sai che questa non è casa tua”, si vede Muna fuori casa mentre parla con Yakub.

Yakub risponde: “Sì, ma se vado, tu non ritorni indietro. Allora, qual’è il problema? Perché mi stai urlando? Non l’ho fatto. Non l’ho fatto. È facile sgridarmi, ma non l’ho fatto.

Muna: “Mi stai rubando la casa.”

Yakub: “E se non la rubo, qualcun altro lo ruberà.”

Muna: “No. Nessuno è autorizzato a rubarla. “

La storia non raccontata di Sheikh Jarrah, di Gerusalemme – anzi, di tutta la Palestina – è quella di Muna e Yakub, la prima che rappresenta la Palestina, il secondo, Israele. Perché la giustizia possa mai essere raggiunta, a Muna deve essere consentito di reclamare la sua casa rubata e Yakub deve essere ritenuto responsabile del suo crimine.

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Israele, l’odio per l’informazione – Enrico Campofreda

 

Nessuna vita vale un edificio, per quanto simbolico, per quanto utilissimo. Dunque l’angoscia per le vittime, centoquaranta con trentanove bambini, che i palestinesi contano fra le macerie della Striscia rappresentano l’inaccettabile in questi giorni di morte dal cielo. E anche per chi, senza responsabilità diretta, muore dentro i confini d’Israele. Ma la polverizzazione, minacciata e poi eseguita, dell’edificio presente a Gaza City, dove operavano l’emittente Al Jazeera e l’Agenzia giornalistica Associated Press è l’ennesimo tassello che Israele pone alla sua strategia d’oscuramento dei propri crimini. Evitare di mostrare, parlare, scrivere è sempre più difficile nel sistema globalizzato dell’informazione. Eppure si cerca di farlo. Lo fa soprattutto chi sa di stare nel torto, chi considera i reporter nemici di cui sbarazzarsi, impedendo loro di lavorare in ogni modo, con qualsiasi mezzo. Così dopo l’ultimatum dell’Idf, che ha evitato di aggiungere altre morti innocenti a quelle già mietute fra i civili di Gaza intimando di sgomberare l’edificio che sarebbe stato raso al suolo, il proprietario dello stabile (indicato anche come un membro della Sicurezza nell’area) chiedeva qualche altra manciata di minuti per salvare parte della strumentazione abbandonata all’interno dopo l’intimazione di sgombero e la fuga del personale lì impegnato. Nessuna proroga è stata concessa. E computer, telecamere, video, macchinari professionali sono stati seppelliti sotto le lastre di cemento della torre implosa su se stessa e sbriciolata. Così i teorici dell’informazione corretta, sempre e tanto invocata, trattano l’informazione. Chiaramente quella dell’edificio la considerano nemica, faziosa, propagandistica perché appartenente all’holding che gestisce e finanzia l’emittente qatarina dall’epoca della fondazione (1996). In realtà Israele, non solo l’attuale governo d’Israele e il suo leader che ne indirizza la politica da oltre un ventennio, etichettano in questo modo chiunque (giornalista, opinionista o cittadini del mondo) la pensi diversamente da sé. Tanto da aver marginalizzato anche altre voci ebraiche, neppure tanto dissidenti come intellettuali democratici defunti e in vita. Impedire, poi, alla stessa Associated Press, storica agenzia internazionale con oltre centosettant’anni di cronaca narrata, di continuare a farlo in quel palazzone di Gaza City, è sintomatico della grande falsità che Israele racconta di se stessa: essere una democrazia. I fatti dal 1948 dicono altro.

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Contro l’orrore, ancora una volta i Palestinesi si sollevano – Amjad Iraqi

 

Il caos scoppiato in Palestina-Israele è reale, brutale e terrificante. Negli ultimi quattro giorni, jet da combattimento, razzi, poliziotti e linciaggi hanno inghiottito i cieli e le strade. L’esercito israeliano e i militanti di Hamas continuano senza sosta a colpirsi a vicenda, uccidendo decine di persone e ferendone innumerevoli altre, in modo schiacciante nella Striscia di Gaza assediata. In tutto Israele, folle di gruppi armati, molti dei quali criminali ebrei scortati dalla polizia, vagano per città e quartieri distruggendo automobili, invadendo case e negozi e cercando spargimenti di sangue in quelli che molti, giustamente, definiscono pogrom.

Questa escalation sfrenata di violenza della folla sta tragicamente soffocando uno dei momenti più incredibili della recente storia palestinese. Per settimane, le comunità palestinesi, con Gerusalemme come epicentro, hanno organizzato manifestazioni di massa che si sono diffuse a macchia d’olio su entrambi i lati della Linea Verde. A causa degli eventi alla Porta di Damasco e al quartiere adiacente di Sheikh Jarrah, sono scoppiate proteste dal campo profughi di Jabaliya a Gaza, alla città di Nazareth in Israele fino al centro di Ramallah in Cisgiordania. E finora, mostrano pochi segni di voler diminuire.

Anche se gli eventi attuali hanno preso una svolta orribile, queste mobilitazioni non possono essere trascurate. Mentre i palestinesi sono profondamente consapevoli della loro identità condivisa, molti hanno a lungo temuto che la violenta frammentazione israeliana del loro popolo – favorita dai leader nazionali che hanno imposto quelle divisioni – avesse danneggiato la loro unità in modo irreparabile. Il fatto che i palestinesi siano scesi in piazza all’unisono è un promemoria provocatorio del fatto che, nonostante l’incommensurabile bilancio delle sue vittime, la politica coloniale israeliana non ha ancora avuto successo. Questa perseveranza è più di una semplice fonte di conforto per i palestinesi; li ha galvanizzati a cogliere questo momento per forgiare un cambiamento radicale e decisivo.

Non è certo la prima volta che si verificano manifestazioni di questo tipo: il Piano Prawer del 2013 per spostare i cittadini beduini nel Naqab / Negev, la guerra a Gaza del 2014 e la Grande Marcia del Ritorno del 2018 hanno generato simili azioni congiunte solo negli ultimi dieci anni. Eppure qualsiasi palestinese che abbia assistito alle attuali proteste o seguito le notizie dall’estero non può fare a meno di sentire che questa ondata è diversa dalle altre. Qualcosa sembra diverso. Nessuno è abbastanza sicuro di cosa sia o quanto durerà – e dopo la follia di ieri sera, forse non ha più importanza. Ma è snervante da guardare ed elettrizzante da vedere.

Non solo uno slogan

La centralità di Gerusalemme in questo risveglio nazionale è una componente vitale della storia. Sono passati anni da quando la capitale storica è stata nelle menti di così tanti palestinesi – e nelle menti di milioni di persone in tutto il mondo – nel modo in cui è stata nelle ultime settimane. L’ultima volta che ciò si è verificato è stato nel luglio 2017 quando, a seguito di un attacco di militanti palestinesi alla polizia di frontiera vicino alla moschea di Al-Aqsa, le autorità israeliane installarono metal detector intorno al complesso e si rifiutarono di consentire ai fedeli musulmani di entrare senza controllarli.

Rifiutando questa imposizione da parte del loro potere occupante, i palestinesi misero in atto un boicottaggio di massa dei rilevatori e protestarono contro qualsiasi tentativo di alterare lo “status quo” di Haram al-Sharif. La loro disobbedienza civile costrinse gli attori regionali a intervenire e alla fine Israele fu costretto a rimuovere le installazioni. Sebbene di portata limitata, fu una vittoria stimolante che offrì un assaggio del potenziale organizzativo palestinese nella città, che molti temevano fosse stato decimato dalla repressione israeliana durante e dopo la Seconda Intifada.

Questa volta la mobilitazione a Gerusalemme è molto più significativa. A differenza del 2017, i manifestanti palestinesi non si sono accontentati di revocare semplicemente le restrizioni arbitrarie della polizia sulle festività del Ramadan alla Porta di Damasco. In quello che si è rivelato essere un momento fatale, le autorità israeliane e i gruppi di coloni hanno intensificato la loro spinta per espellere le famiglie palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah, i cui sfratti dovevano essere sigillati dalla Corte Suprema questo mese, nello stesso momento in cui la polizia stava aumentando la violenza repressiva nella Città Vecchia. Il destino di Sheikh Jarrah, insieme ad altre aree minacciate come Silwan, si è intrecciato con il cuore della Gerusalemme palestinese – non solo come uno stanco slogan, ma come un movimento che intraprende un’azione di massa per difenderli.

In tal modo, i palestinesi hanno aperto un terreno straordinario nel contrastare i tentativi di Israele di dividere i quartieri di Gerusalemme gli uni dagli altri e di tagliarli fuori dai loro fratelli fuori città. Spinti dal risveglio della capitale, i palestinesi di altri villaggi e città hanno organizzato le proteste a sostegno di Sheikh Jarrah e Al-Aqsa, indifferenti alle minacce e agli atti di repressione israeliani. Sabato scorso, migliaia di cittadini palestinesi di Israele hanno sfidato gli ostacoli frapposti della polizia e hanno viaggiato in autobus e a piedi per pregare nel luogo sacro e pregare per Sheikh Jarrah. Fino a quando i pogrom di questa settimana non hanno permeato il paese, tutti gli occhi erano fissi su Gerusalemme, colma di un’energia che non era stata avvertita dai palestinesi da secoli.

Una caratteristica straordinaria delle manifestazioni è che sono organizzate principalmente non da partiti o personaggi politici, ma da giovani attivisti palestinesi, comitati di quartiere e collettivi di base. In effetti, alcuni di questi attivisti rifiutano esplicitamente il coinvolgimento nelle loro proteste delle élite politiche, vedendo le loro idee e istituzioni – dall’Autorità Palestinese alla Lista Congiunta – come addomesticate e obsolete. Si stanno affermando per le strade e soprattutto sui social, incoraggiando altri giovani che non avevano mai partecipato alle proteste politiche ad aderire per la prima volta. In molti modi, questa generazione sta sfidando la sua leadership tradizionale tanto quanto sta combattendo lo stato israeliano.

Resilienza in mezzo al caos

Non c’è da meravigliarsi che Hamas abbia deciso di entrare in scena lanciando migliaia di razzi contro Israele nel nome della difesa di Gerusalemme. Per alcuni palestinesi, questo è un intervento militare giustificato per sostenere il movimento sul terreno; per altri, è un palese tentativo di dirottare le proteste a proprio favore, come ha fatto con la Grande Marcia del Ritorno di Gaza. Tuttavia, con il presidente Mahmoud Abbas che rinvia indefinitamente le elezioni palestinesi di questa estate, i leader politici di entrambe le parti dei territori occupati hanno dimostrato di avere poco da offrire se non vecchie strategie e un governo più autoritario.

La cooptazione non è l’unica minaccia che il fiorente movimento deve affrontare. Nelle cosiddette “città miste” come Lydd, Jaffa e Haifa – città storicamente palestinesi che furono trasformate con la forza in località a maggioranza ebraica attraverso l’espulsione e la gentrificazione – folle ebraiche di destra, molte sorvegliate e aiutate dalla polizia, stanno linciando palestinesi e terrorizzando i loro quartieri. Bande armate ebraiche provenienti dagli insediamenti in Cisgiordania, dove dilagano violenti assalti ai palestinesi, stanno convergendo su queste città per unirsi alla mischia. Alcuni palestinesi stanno anche attaccando gli ebrei israeliani e incendiando i loro veicoli e le loro proprietà, compresi attacchi incendiari alle sinagoghe. Solo uno di questi schieramenti, tuttavia, ha poche ragioni per temere le autorità e, semmai, può tranquillamente contare sulla protezione della polizia.

Questi sviluppi strazianti probabilmente peggioreranno nei prossimi giorni mentre Israele e Hamas intensificano la loro guerra asimmetrica, con i palestinesi nella Gaza bloccata che pagano il prezzo più alto. Il governo israeliano sta ora valutando di schierare l’esercito per aiutare la polizia a stabilire “l’ordine” nel paese, una mossa che imporrà un’ulteriore tirannia sui cittadini palestinesi dello stato. Nel frattempo, molti palestinesi che sostengono le proteste hanno iniziato a temere di scendere in piazza per il rischio di lesioni, arresti o peggio. Altri si sono rassegnati a credere che – dopo decenni di rivolte, inazione internazionale e impunità israeliana – ci sono poche speranze che questo episodio determini un cambiamento significativo.

FOTO Sinagoghe e auto incendiate e negozi vandalizzati nel centro città di Lod, a seguito di una notte di scontri in città, 12 maggio 2021. (Avshalom Sassoni / Flash90)

Eppure, anche se la violenza sembra sfuggire al controllo, non dovrebbe essere consentito di cancellare le correnti di orgoglio, solidarietà e gioia che hanno alimentato l’ondata di resistenza palestinese di questo mese. In un’immagine simbolica, domenica a Lydd un palestinese si è arrampicato su un lampione per sostituire una bandiera israeliana con una palestinese – una scena provocatoria quasi 73 anni dopo che nella Nakba  le forze sioniste  ripulirono etnicamente la città. Quando la polizia ha bloccato l’ingresso degli autobus a Gerusalemme per la notte santa di Laylat al-Qadr, gli automobilisti che passavano offrivano passaggi ai palestinesi, pronti a percorrere chilometri a piedi per raggiungere Al-Aqsa. Questa settimana nel quartiere di Haifa di Wadi Nisnas, i residenti palestinesi si sono riuniti per allontanare la folla ebraica, sapendo che la polizia era più propensa ad aiutare gli aggressori che a fermarli.

Sui social media, un video virale mostra cittadini palestinesi che ridono e applaudono mentre un’auto della polizia israeliana guida, ignara che una bandiera palestinese sia stata fissata nella sua portiera sul retro. Un altro video popolare mostra un ragazzo palestinese, spinto fuori da Al-Aqsa da una folla di poliziotti, che lancia la sua scarpa dritta contro la testa di un ufficiale con l’elmetto. Un altro mostra un palestinese che sorride quando sua figlia, ignara del fatto che suo padre era stato arrestato dalla polizia a casa sua, gli chiede con impazienza della sua bambola. Anche in mezzo al caos, questi momenti di bellezza e resilienza non dovrebbero essere dimenticati.

Una rivolta nazionale

Non c’è dubbio che questo sia un momento pericoloso per tutti coloro che vivono in Palestina-Israele. L’incertezza per le strade è pietrificante e i pericoli sembrano quasi senza precedenti. Questa follia avrebbe dovuto essere evitabile, ma i poteri  la governano l’hanno resa quasi inevitabile. La comunità internazionale, compresi gli stati arabi, ha effettivamente abbandonato la causa palestinese; la destra israeliana ha consolidato il suo dominio di apartheid tra il fiume e il mare; e le leadership palestinesi si sono rifiutate di dare voce al loro popolo nel loro futuro politico.

È proprio questo ambiente isolante e opprimente che il nascente movimento palestinese sta cercando di infrangere. Molti dei giovani attivisti che hanno messo in pericolo la propria incolumità nelle ultime settimane hanno passato la vita a cercare di ottenere le loro libertà. Più assertivi e più preparati rispetto alle generazioni precedenti, si sono cimentati nei social media, nella difesa pubblica, nei programmi di “coesistenza”, nella pratica legale, persino nelle amicizie con colleghi ebrei – solo per scoprire che rimangono intrappolati nelle stesse catene dei loro genitori e nonni prima di loro. Privata di opzioni, la disobbedienza civile è ora una delle poche strategie che i palestinesi hanno a disposizione per tenere a bada l’inesorabile oppressione di Israele, non ultimo nel combattere lo sfollamento, da Sheikh Jarrah a Jaffa e oltre.

Questi disordini di massa non possono essere semplicemente classificati sotto il falso binario di resistenza “violenta” o “nonviolenta”. È, per dirlo senza mezzi termini, una rivolta nazionale. Sebbene sia una parola profondamente stigmatizzata e usata per demonizzare e giustificare la brutalità contro i manifestanti, le rivolte sono una caratteristica familiare della resistenza popolare contro l’ingiustizia; le proteste di Black Lives in seguito all’omicidio di George Floyd lo scorso anno ne sono stati esempi evidenti. E per molti palestinesi scesi in strada, qualunque sia la violenza derivante da queste proteste – per quanto ripugnante e condannabile possa essere – rimane incomparabile rispetto alla brutalità quotidiana, diretta e strutturale inflitta dallo Stato che le governa.

In effetti, insieme alle guerre del 1948 e del 1967, il successo del sionismo come progetto colonialista deriva in gran parte dal suo approccio strisciante all’espropriazione. Ruba il territorio pezzo per pezzo, sfratta le famiglie casa per casa e mette a tacere l’opposizione  persona per persona. “Silenzio” è la chiave per minare la resistenza collettiva, dando ai critici l’illusione di avere il tempo di invertire la tendenza. E come hanno dimostrato gli eventi a Gerusalemme questo mese, più sfacciatamente Israele persegue le sue politiche, più intensamente aumenterà la resistenza.

I palestinesi che sono scesi in piazza nelle ultime settimane lo sanno molto bene – ed è per questo che non sono interessati a lasciare che Israele torni alla “normalità”. Normalità significa permettere al colonialismo e all’apartheid di continuare a funzionare senza intoppi, senza ostacoli a controlli locali o internazionali. Questa condizione violenta e disumana forma l’esperienza comune vissuta da milioni di palestinesi, indipendentemente dal fatto che vivano sotto il blocco, il governo militare, la discriminazione razzista o l’esilio. Tutti capiscono che stanno affrontando una singola forza che sta cercando di sopprimerli, pacificarli e cancellarli, semplicemente a causa della loro identità nativa.

Anche sull’orlo di una spaventosa fase di guerra, molti palestinesi non possono permettersi di aspettare la prossima crisi per liberarsi da quella forza oppressiva. C’è una rivolta in corso ora – e anche se non libera i palestinesi dalle loro catene, per lo meno, può allentare la presa di Israele sulla loro coscienza.

 

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”  -Invictapalestina.org

 

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Sulla Palestina, i media sono allergici alla verità- Branko Marcetic

 

Ci sono due modi in cui si potrebbe riferire sul sanguinoso conflitto in corso in questo momento in Israele e Palestina.

Uno sarebbe quello di mettere ogni nuovo titolo e storia, sia che si tratti di attacchi missilistici di Hamas o degli attacchi aerei esageratamente sproporzionati di Israele, nel contesto.

Ciò significherebbe spiegare che i razzi sono arrivati sulla scia di una serie di scandalose e criminali provocazioni israeliane nella Gerusalemme Est occupata: una serie di violente incursioni della polizia nel complesso della moschea di Al-Aqsa, il terzo sito più sacro dell’Islam, durante il suo mese più sacro, che hanno danneggiato la struttura e ferito centinaia di persone, compresi i fedeli; che le forze israeliane stavano attaccando i palestinesi che si trovavano nella Moschea di Aqsa sia per pregare che per proteggerla dalle bande di fanatici israeliani di estrema destra che hanno marciato attraverso Gerusalemme Est, attaccando i palestinesi e cercando di entrare nel complesso; e che tutto questo accade all’ombra delle proteste contro il più recente tentativo di Israele di rubare la terra ai palestinesi nella città, e il dilagare del furto di terra palestinese da parte di Israele, cresciuto più in generale durante la presidenza Trump.

Già che ci sono, potrebbero almeno chiarire che gli attacchi israeliani a Gaza sono stati molto più feroci e mortali dei razzi contro i quali presumibilmente si “vendicano”, avendo finora  ucciso quarantatré persone , compresi tredici bambini (alla data dell’articolo), e raso al suolo un intero edificio residenziale. Potrebbero chiarire che i razzi di Hamas sono, a causa della loro economicità e del sistema di difesa dell’Iron Dome di Israele,  molto vicini allo stato d’animo della frustrazione e dell’impotenza (che, ovviamente, non significa che non fanno danni o occasionalmente prendono vite, finora hanno ucciso sei israeliani). Tutto ciò aiuterebbe le persone a capire perché ciò che vedono svolgersi sui loro schermi sta accadendo e cosa si potrebbe fare per fermarlo.

Oppure c’è il modo più tradizionale di riferire sul conflitto israelo-palestinese nei media occidentali. In questo modo si riduce l’ingiustizia sistemica a “crescenti tensioni”, descrivendo la violenza dello Stato e la resistenza ad essa come “indefiniti scontri”, presentando sottilmente la violenza israeliana e palestinese come più o meno equivalente in misura e condotta, e rendendo generalmente impossibile per i consumatori occasionali di notizie fare altro che alzare le mani per la frustrazione e chiedere: “Quando impareranno a vivere insieme in pace?”

Al momento della stesura di questo articolo, la seconda opzione è, ancora una volta, l’approccio adottato dalla maggior parte dei principali media statunitensi per riferire sulle ultime serie di crimini del governo israeliano e sulla risposta palestinese ad essi. Dietro c’è l’onnipresente e molto deriso eccessivo  uso della definizione”scontro” per descrivere la violenza, offuscando utilmente alcuni di quei dettagli fondamentali che i giornalisti dovrebbero, in teoria, documentare per i lettori: chi ha fatto cosa a chi, per esempio, e come tutto è iniziato.

Come i critici dei media hanno sottolineato per anni, se si fosse arrivati con poca o nessuna idea di cosa stava succedendo e affidandosi semplicemente ai titoli degli ultimi giorni sugli “scontri” tra le forze israeliane e palestinesi, non si saprebbe mai che i palestinesi stanno protestando contro il furto di terra israeliano. Né si saprebbe che gli “scontri” stavano accadendo perché la polizia israeliana aveva deciso di attaccare i fedeli palestinesi in uno dei luoghi più sacri dell’Islam. Infatti, in un caso particolarmente eclatante, si potrebbe essere stati completamente fuorviati nella direzione opposta, con il New York Post che attribuisce ad Hamas le uccisioni che Israele aveva compiuto contro i palestinesi, a loro volta  indicati  come israeliani (il Post ha successivamente corretto il titolo).

Mentre l’errore del Post è stato davvero il fondo,  in nessun caso i titoli delle notizie sono riusciti a fornire ai lettori un contesto per ciò che stava accadendo, anzi addirittura lo hanno omesso di proposito. “Hamas lancia razzi su Israele mentre le tensioni a Gerusalemme aumentano“, è stato  un titolo tipico della NBC. “La violenza di Gerusalemme porta a lanci di razzi e attacchi aerei”, ha riportato un titolo di Reuters. Tali titoli non solo spogliano gli eventi dell’agire umano e presentano la repressione dello stato israeliano come qualcosa di più simile a un disastro naturale: “Violenza di chi”? “Tensioni” da cosa?, ma presentano anche gli attacchi enormemente sbilanciati delle forze israeliane e di Hamas come uguali e proporzionati.

Quest’ultimo punto è stato un tema di numerosi titoli, per molte persone l’unica parte di queste storie che leggeranno e assimileranno effettivamente. “Israele colpisce Gaza con un attacco aereo dopo il lancio di razzi di Hamas”, recitava un titolo di Yahoo! “Militanti di Gaza, Israele risponde ai nuovi lanci di razzi con attacchi aerei”, riportava un altro titolo di Associated Press, usando una costruzione ampiamente adottata. “Israele e Hamas intensificano i pesanti combattimenti senza una fine in vista”, ha detto la ABC ai suoi ascoltatori. “Israele intensifica gli attacchi aerei letali su Gaza mentre i razzi piovono e le morti aumentano su entrambi i lati“, è stato quello della CBS.

È impossibile incolpare una qualsiasi delle parti : dopo tutto, questi sembrano essere semplicemente due nemici alla pari che si scambiano colpi, anche se per quale motivo nessuno può dirlo. A volte, non è nemmeno possibile capire chi sia responsabile di quali morti o quante, come in questo titolo di Axios: “Dozzine di morti mentre Israele e Hamas intensificano i bombardamenti aerei”,  o questo di NBC: “33 morti in attacchi aerei israeliani, Hamas lancia razzi mentre i disordini si diffondono oltre Gerusalemme”.

Come potrebbe essere un buon titolo? Potrebbe essere peggiore di questo esempio tratto dall’Havana Times, una rivista online scritta da collaboratori cubani e curata dal Nicaragua: “Le forze israeliane attaccano i palestinesi che protestano contro le espulsioni”, sei parole che riassumono accuratamente e contestualizzano gli eventi che i rapporti dei principali media tendono vagamente a  descrivere come “scontri” e “tensioni”, anche se al prezzo di abbandonare il tentativo di ignorare la neutralità che le notizie dei media d’informazione stanno attuando.

A volte un titolo deplorevole è stato bilanciato dalla sostanza stessa della notizia. Questo è stato il caso de “attacchi missilistici di Hamas che provocano la rappresaglia israeliana a Gaza” del Financial Times, che, alla lettura dell’articolo, ha comunque svolto un lavoro decente nel contestualizzare i combattimenti e spiegarne le cause senza equivocare. Ma spesso, i difetti dei titoli sono stati riportati nella cronaca vera e propria.

Nel suo rapporto, ad esempio, la ABC menziona i trentacinque palestinesi che Israele ha ucciso nella sua incursione su Gaza solo alla fine, ben dopo aver continuato con l’affermazione israeliana di “aver ucciso almeno tre militanti”, e dopo aver prima fornito il bilancio delle cinque vittime israeliane. Non si capisce la causa dell’attuale conflitto fino a metà, quando si viene informati che “i critici dicono che le pesanti misure della polizia israeliana dentro e intorno alla Città Vecchia di Gerusalemme hanno contribuito ad alimentare i disordini notturni”, così come del tentativo di sfrattare i palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est.

Alla NBC, il racconto inteso a riassumere il rapporto per il lettore sintetizzandolo nei suoi punti più salienti, ci dice che “i militanti di Hamas nella Striscia di Gaza hanno lanciato razzi verso Gerusalemme lunedì in un aumento delle violenze dopo che centinaia di palestinesi sono stati  feriti durante i precedenti scontri con le forze israeliane”. In altre parole, i militanti di Hamas hanno lanciato razzi in quella che è stata una recrudescenza degli eventi; ma i palestinesi sono rimasti feriti negli scontri (come e da chi? Forse sono tutti inciampati), in un atto che presumibilmente non si può definire una grande intensificazione delle violenze, nonostante abbia coinvolto sacrileghi attacchi di polizia che probabilmente costituiscono un crimine di guerra.

Particolarmente comico è stato il finale in questo pezzo della CNN: “Le tensioni tra israeliani e palestinesi sono aumentate ulteriormente martedì mentre i militanti palestinesi a Gaza lanciavano centinaia di razzi contro Israele, che a sua volta ha intensificato gli attacchi aerei sull’enclave costiera”. Oltre al vago riferimento alle “tensioni”, da notare che gli attacchi missilistici sono entrambi attribuiti a qualcuno (Hamas) e quantificati (centinaia), mentre gli attacchi aerei di Israele non sono né l’uno né l’altro. Si noti inoltre che gli attacchi aerei di Israele sono considerati fenomeni quasi naturali, “intensificati”, o in altre parole, causati, dagli stessi palestinesi.

Una menzione speciale deve essere fatta al giornale dei record. Un articolo del New York Times sulle incursioni della polizia nel complesso di al-Aqsa è stato modificato ripetutamente, tanto che a un certo punto si è trasformato da:

“La polizia è entrata nel complesso e ha sparato proiettili di gomma. La rabbia stava già crescendo in risposta all’incombente espulsione di diversi palestinesi dalle loro case in città…

Al sostanzialmente peggiore e fuorviante:

I militanti di Gaza hanno lanciato razzi verso Gerusalemme e la polizia israeliana ha affrontato i manifestanti palestinesi in una recrudescenza della violenza dopo una settimana di crescenti tensioni”.

Un pezzo successivo e separato sugli attacchi aerei israeliani su Gaza è stato sostanzialmente modificato dopo il fatto, alcuni cambiamenti positivi, altri meno. (La versione originale non sembra essere stata archiviata da nessuna parte, ma è stata copiata e incollata qui).

I due paragrafi terminano osservando che il “fattore scatenante immediato” per i combattimenti è stata l’irruzione della polizia nel complesso di al-Aqsa, ma è stato aggiunto un riferimento al tentativo di sfrattare le famiglie palestinesi da Gerusalemme Est. Insensatamente, il paragrafo così chiarisce che “gli attacchi aerei israeliani mirano a obiettivi strategici” in contrasto con il deliberato attacco di Hamas ai centri abitati, un’affermazione altamente dubbia. E mentre un paragrafo che descrive le incursioni della polizia israeliana è scomparso, tre paragrafi che descrivono come “i palestinesi si sono scatenati” nelle città israeliane sono stati lasciati.

Questo è solo un piccolo campione. Si potrebbero spendere decine di ore e migliaia di parole a ripercorrere i vari rapporti prodotti su questi stessi eventi e trovare innumerevoli altri esempi simili.

Distorte per apparire leali e neutrali, o almeno non troppo critiche nei confronti di Israele, le principali notizie sono costrette a violare in serie alcuni dei più elementari No-No della scrittura e della struttura giornalistica. (No-No: usato dai giornalisti che non hanno il tempo / talento per trovare parole più specifiche, descrittive o originali). Il risultato è che il pubblico riceve una rappresentazione confusa e persino fuorviante del conflitto israelo-palestinese che rafforza ciò che molti di loro già pensano dopo essere stati bombardati per anni da rapporti tradizionali strutturati in modo simile: È tutto troppo complicato per una persona normale da comprendere, quindi perché preoccuparsi?

Ma la realtà non è poi così complicata. I razzi di Hamas e i palestinesi che protestano, lanciano pietre, o addirittura si rivoltano: queste sono tutte risposte disperate alla repressione continua, sistematica e brutale e al furto di terre da parte di Israele che vanno avanti da decenni e che sono aumentati drasticamente in particolare nell’ultimo decennio. È il “linguaggio dell’inaudito”, come Martin Luther King chiamava le rivolte afroamericane degli anni ’60, che, come le loro controparti, lo scorso anno e nei decenni scorsi sono un simile grido di frustrazione da parte di coloro che sono stati inesorabilmente espropriati e brutalizzati apparentemente senza alcun appello.

Ci sono modi per porre fine a questo, che si tratti di attacchi missilistici o distruzione di proprietà da parte dei rivoltosi. Ma per farlo è necessario prima descrivere accuratamente le ingiustizie che li spingono.

 

Branko Marcetic è uno scrittore di  Jacobin e l’autore di “Yesterday’s Man: The Case Against Joe Biden”. Vive a Toronto, in Canada.

 

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Il diritto di difendere il popolo palestinese – Moni Ovadia

 

La prima istanza che mi pare importante sollecitare parlando della questione israelo-palestinese è quella di chiedere ad alta voce all’informazione mainstream di accogliere tutte le opinioni sul tema anche quelle considerate «estremiste» e opposte al pensiero dominante e, nel caso che qualcuno ravvisi reati di opinione lo si inviti a rivolgersi ai tribunali invece di imporre censure preventive, opzioni discriminatorie o auto censure.

Personalmente solo per avere esercitato il diritto costituzionale ad esprimere le mie opinioni a titolo personale sono diventato obiettivo di calunnie feroci e di minacce.

Ogni volta che mi sono rivolto ai principali ambiti dell’informazione televisiva per parlare della questione ho trovato un muro di gomma. Detto questo non mi lamento per la mia persona, ma per il vergognoso silenzio sulla immane tragedia del popolo palestinese. Molte sono le domande inevase nel mondo occidentale o che trovano solo risposte retoriche, ipocrite o elusive. Il sociologo Adel Jabar, già professore di sociologia dell’emigrazione alla Ca’ Foscari, ne ha poste alcune che ritengo non opponibili.

1) Fino quando deve durare la colonizzazione e l’occupazione della terra di Palestina?

2) Perché Israele non vuole la soluzione dei due stati?

3) Perché Israele non vuole la soluzione di uno stato unico binazionale?

4) Qual è l’alternativa che si dà ai palestinesi?

5) Perché per il dissidente russo Navalny si fanno boicottaggi, sanzioni economiche e campagne mediatiche ma per le sistematiche violazioni israeliane della legalità internazionale non si fa nulla?

6) L’orientamento di Hamas può anche essere condannato ma ciò è sufficiente per negare ai palestinesi il diritto alla propria terra?

A queste domande del professor Jabar vorrei aggiungerne una mia: come mai all’annuncio dato dalla Santa Sede di voler riconoscere lo Stato di Palestina il governo israeliano ha protestato? Sulla base di quale legittimità se non quella della prepotenza dell’occupante?

I fatti sono chiari. Il governo israeliano di Netanyahu non vuole nessuno Stato palestinese, in nessuna forma se non forse quella di un simulacro di autorità priva di qualsiasi sovranità su piccoli bantustan, aggregati magari alla Giordania. Le intenzioni del premier israeliano si sono bene espresse nell’avere promosso il varo della legge dello Stato-Nazione, una legge segregazionista che esclude i palestinesi israeliani dalla piena cittadinanza la quale è riservata solo agli ebrei.

Dunque i non ebrei diventano cittadini di serie b, per non parlare poi dei palestinesi dei Territori occupati che diventano paria su cui esercitare ogni tipo di arbitrio. Se qualcuno avesse dubbi al riguardo si informi sulla gestione da parte dell’autorità israeliana della pandemia da COVID 19 nei confronti dei palestinesi dei territori di cui l’occupante è responsabile per definizione secondo le più elementari convenzioni del diritto internazionale: più del 60% degli israeliani risulta vaccinato, solo il 3% i palestinesi dei Territori – senza dimenticare che in questi giorni arrivano pure a distruggere con i bombardamenti le strutture sanitarie palestinesi vitali in pandemia.

Oggi nell’infuriare dei venti di guerra prevalgono le interpretazioni più schematiche ed emotive. Questa non è una guerra anche se ne ha certe apparenze. Ma la sproporzione fra le forze è talmente soverchia che alla fine Gaza ne uscirà ulteriormente devastata ammesso che si possa parlare di più devastazione in una terra già così martoriata, gli israeliani se la caveranno con danni limitati, le vittime palestinesi si conteranno a centinaia, quelle israeliane a unità. Sia chiaro: l’uccisione di ogni essere umano è una grande tragedia ma oramai da decenni il numero delle vittime palestinesi è smisurato. I sostenitori acritici delle ragioni di Israele sempre e comunque non vedono neppure le sofferenze dei palestinesi e se qualcuno gliele indica ne attribuiscono le responsabilità a loro stessi. In questa circostanza sostengono che l’attacco dei missili di Hamas era preparato da tempo e reiterano come un mantra l’articolo dello statuto di Hamas che parla della distruzione di Israele.

Con questo vogliono chiudere la bocca alle voci severamente critiche delle scellerate politiche di Netanyahu, voci fra le quali si annoverano in questi giorni quelle di esponenti del Partito democratico degli Stati Uniti per fare qualche nome, la deputata Ocasio Cortes e Bernie Sanders, il quale per la cronaca è ebreo. Queste personalità oneste e coraggiose dovrebbero essere in particolare uno stimolo per i politici dell’Unione europea per rompere la cortina di ipocrisia e di pavida retorica che li porta ad appiattirsi sulla propaganda menzognera dell’establishment israeliano che pretende uno statuto di impunità nei confronti di una politica fondata sull’illegalità brutale di un’oppressione che non può avere alcuna giustificazione.

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#NOTINOURNAMES

(Il Manifesto 15.05.2021)

Siamo un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani.

In questo momento drammatico e di escalation della violenza sentiamo il bisogno di prendere la parola e dire #NotInOurNames, unendoci ai nostri compagni e compagne attivisti in Israele e Palestina e al resto delle comunità ebraiche della diaspora che stanno facendo lo stesso.

Abbiamo già preso posizione come gruppo quest’estate condannando il piano di annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo israeliano (https://www.joimag.it/contro-lannessione-una-voce…/) e il nostro percorso prosegue nella sua formazione e autodefinizione.

Diciamo #NotInOurNames:

-gli sfratti a Sheikh Jarrah e la conseguente repressione della polizia

-gli ultimi episodi repressivi sulla Spianata delle Moschee

-il governo israeliano che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, in Israele e nella diaspora

-i giochi di potere (di Netanyahu, Hamas, Abu Mazen) che non tengono conto delle vite umane

-i linciaggi e gli atti violenti che si stanno verificando in molte città israeliane

-il bombardamento su Gaza

-il lancio di razzi indiscriminato da parte di Hamas

-la riduzione del dibattito a tifo da stadio

-l’utilizzo strumentale della Shoah sia per criticare che per sostenere Israele

-le posizioni unilaterali e acritiche degli organi comunitari ebraici italiani

-gli eventi di piazza organizzati dalle comunità ebraiche con il sostegno della classe politica italiana, compresi personaggi di estrema destra e razzisti

-la narrazione mediatica degli eventi in Medio Oriente che non tiene conto di una dinamica tra oppressi e oppressori

-qualunque iniziativa e discorso che veicoli rappresentazioni islamofobe e antisemite

La situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi.

All’interno delle nostre società riteniamo necessaria ogni forma di solidarietà e mobilitazione, ma ci troviamo spesso in difficoltà. Pur coscienti che antisionismo non sia sinonimo di antisemitismo, osserviamo come un antisemitismo non elaborato, che si riversa più o meno consciamente in alcune delle giuste e legittime critiche alle politiche di Israele, rende alcuni spazi di solidarietà difficili da attraversare. Si tratta di una impasse dalla quale vogliamo uscire, per combattere efficacemente ogni tipo di oppressione.

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“Quello che stiamo vivendo a Gaza è terrificante”: le voci di medici e bambini – Daniele Nalbone

 

“Ho vissuto le offensive israeliane del 2008 e del 2014, ma l’operazione militare che stiamo vivendo oggi è molto più dura e più terrificante di qualsiasi altra avvenuta in precedenza”. Inizia così il racconto di Aymen al-Djaroucha, coordinatore di Medici Senza Frontiere a Gaza. Un racconto affidato al sito di Msf e postato sui social che punta a spiegare cosa sta accadendo nell’inferno della Striscia. Nessuna analisi geopolitica, ma un semplice “diario” volto ad accendere i riflettori sulla situazione e a mostrare gli effetti del conflitto in corso. Di fatto, le ong stanno riuscendo dove i giornalisti non possono arrivare, sopperendo a un vuoto informativo dovuto all’assenza di cronisti internazionali nei luoghi del bombardamento.

“I bombardamenti sono costanti, notte e giorno, non si fermano mai. Tutto è preso di mira: strade, case, palazziGaza è lunga solo 40 chilometri, e ovunque cadano le bombe, l’esplosione si sente sempre” racconta. “Il condominio di Gaza City in cui vivevo con mia moglie, mia madre e i miei figli è stato danneggiato da un attacco aereo venerdì scorso. Il custode dell’edificio ha ricevuto una chiamata dagli israeliani che gli dicevano che tutti i residenti dell’edificio dovevano evacuare il palazzo perché sarebbe stato colpito. Sappiamo che questa chiamata arriva a pochi minuti o a un’ora prima dell’arrivo delle bombe. Siamo scesi dall’ottavo piano lungo le scale in meno di un minuto. Ho cercato di portare tutti in un posto sicuro il più lontano possibile”.

Il racconto del bombardamento

“Ricordo che mia moglie mi ha detto di non voler vedere il posto dove era cresciuta, un posto pieno di suoi ricordi, andare distrutto. Subito dopo ho sentito l’esplosione e ho visto la polvere, era tutto in fiamme. L’edificio è danneggiato, molti appartamenti sono stati distrutti e non so cosa sia rimasto del nostro. Non so nemmeno se potremo tornare a vivere lì. Da quel giorno la mia famiglia vive con mia suocera e io dormo in ufficio. Lavoro quasi tutto il tempo. Sembra un incubo a occhi aperti”.

Molte famiglie che abitano nella parte est di Gaza sono scappate verso quella occidentale perché temono un’invasione di Israele via terra. Stanno cercando rifugio vicino ad Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza, e nelle scuole gestite dall’UNRWA. Ma anche quella zona, come mostrato dalla foto qui sotto, non è stata risparmiata dai bombardamenti.

Danneggiata anche la clinica di Medici Senza Frontiere

Tra il 15 e il 16 maggio i bombardamenti hanno interessato la zona dove sorgono gli uffici e la clinica della ong: “Ricordo le urla degli uomini e delle donne nel cuore della notte, è stato terrificante” racconta Aymen al-Djaroucha. I feriti hanno fratture e lesioni causate da schegge di bombe e proiettili. “I bisogni sono molti, soprattutto in chirurgia e terapia intensiva. I pazienti sono donne, uomini, bambini: nessuno viene risparmiato. È il destino degli abitanti di Gaza. In pochi anni abbiamo vissuto diverse guerre e non sappiamo quando finirà, quando finalmente potremo vivere una vita normale”.

“La situazione è orribile da una settimana, il numero di vittime civili aumenta ogni giorno. Quando ho visto i danni nell’area e alla nostra clinica la mattina dopo l’attacco, sono rimasto senza parole. Ogni cosa è stata colpita: case, strade, alberi. Nella clinica, dove vediamo oltre mille bambini all’anno con ustioni e ferite da trauma, mancava un muro e i detriti erano ovunque. La clinica ora è chiusa non solo per i danni subiti, ma anche perché la strada per accedervi è stata totalmente distrutta e la zona è ancora pericolosa” racconta Mohammed Abu Mughaiseeb, vicecoordinatore medico di Medici Senza Frontiere a Gaza.

“La situazione è critica” denuncia Ely Sok, capomissione della ong nei Territori palestinesi: “I feriti aumentano e personale e forniture non possono entrare. In 24 ore si esaurirà la disponibilità di sacche di sangue e non si potranno più effettuare trasfusioni. Abbiamo urgente bisogno di predisporre un accesso sicuro per lo staff e per le forniture mediche”. Nel mirino, ovviamente, il blocco imposto da Israele con la chiusura dei confini della Striscia.

Le voci dei bambini di Gaza

Ed è proprio contro il blocco della Striscia che si scaglia un’altra ong, Save The Children, “a Gaza i servizi elettrici sono stati gravemente danneggiati dalle bombe e i servizi salvavita non ci sono più. I rifornimenti di carburante verso la striscia di Gaza sono bloccati perché Israele ha chiuso i confini che ne permetterebbero l’entrata. La situazione è drammatica perché molti dei servizi erano già sull’orlo del baratro a causa del COVID-19 e con scorte mediche limitate per via del blocco in vigore. Chiediamo quindi che il blocco su Gaza venga revocato urgentemente perché le vite dei bambini sono in serio pericolo. Il governo di Israele e tutte le parti devono consentire agli operatori umanitari di raggiungere i minori con aiuti salvavita e l’ingresso senza ostacoli di rifornimenti essenziali e carburante”.

Ma è ai bambini che Save The Children ha consegnato il racconto di Gaza sotto le bombe: “Ogni volta che c’è un attacco aereo ci spaventiamo, ogni volta che proviamo a scappare quando arriviamo alla porta c’è un altro attacco”.

“La situazione è terrificante. I bambini stanno morendo, siamo bombardati da ogni parte” denuncia Yasmine, una bambina di 11 anni.

L’appello di Emergency: “Cessate il fuoco”

“Cambiano i pretesti della guerra, ma non cambia mai la sostanza: i bombardamenti aerei sulla Striscia di Gaza, i razzi sparati su Israele si traducono in paura, vite perse, persone ferite” denuncia Emergency con una nota pubblicata sui social il 18 maggio. “Il conflitto israelo-palestinese è ormai la storia angosciante di un circolo vizioso di violenza e negazione di diritti: l’embargo e la segregazione in cui vivono da anni i palestinesi e la militarizzazione estrema di Israele si autoalimentano a vicenda senza fine. È un circolo che produce morti, sfollati, feriti, persone che non vedono futuro fuori dalla violenza. La popolazione civile è sempre la prima vittima: inerme, inascoltata, impotente, a volte strumentalizzata. Vediamo accadere lo stesso in altre parti del mondo: neanche questa crisi sanitaria mondiale è riuscita a fermare la violenza delle armi e invertire la rotta”. Per questo Emergency “si unisce agli appelli internazionali per il cessate il fuoco e l’avvio di un processo di pace per il rispetto dei diritti umani e della vita dei civili”.

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Israele semina morte a Gaza cancellando deliberatamente intere famiglie – Amira Hass

Quindici numerose famiglie palestinesi hanno perso almeno tre, o più, dei loro membri, nei bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza durante la settimana dal 10 al 17 maggio. Genitori e figli, bambini, nonni, fratelli, nipoti e pronipoti sono morti insieme sotto le macerie quando Israele ha bombardato le loro case. Per quanto è noto, non è stato dato alcun preavviso in modo che potessero evacuare le case prese di mira.

Sabato, un rappresentante del Ministero della Salute palestinese ha riportato l’elenco dei nomi di 12 famiglie colpite, ognuna dentro casa, ognuna in un singolo bombardamento. Da allora, in un attacco aereo prima dell’alba di domenica, durato 70 minuti e diretto a tre case in Al Wehda Street nel quartiere Rimal di Gaza, tre famiglie per un totale di 38 persone sono state sterminate. Alcuni dei corpi sono stati trovati domenica mattina. Solo domenica sera le forze di soccorso palestinesi sono riuscite a trovare i rimanenti corpi e ad estrarli dalle macerie.

Spazzare via intere famiglie nei bombardamenti israeliani è stata una delle caratteristiche della guerra del 2014. Nei circa 50 giorni di guerra di allora, i dati delle Nazioni Unite dicono che 142 famiglie palestinesi furono cancellate (742 persone in totale). I numerosi episodi di ieri e di oggi attestano che non si trattava di errori, e che il bombardamento delle abitazioni con le famiglie all’interno segue una decisione dall’alto, sostenuta dall’esame e dall’approvazione di giuristi militari.

Un’indagine del gruppo per i diritti umani B’Tselem che si è concentrata su circa 70 delle famiglie che sono state cancellate nel 2014, ha fornito tre spiegazioni per le intere famiglie sterminate, tutte in una volta, in un singolo bombardamento israeliano. Una spiegazione è stata che l’esercito israeliano non ha fornito nessun preavviso ai proprietari di casa o ai loro inquilini; o che l’avviso non ha raggiunto, affatto o in tempo l’indirizzo corretto.

In ogni caso, ciò che spicca è la differenza tra il destino degli edifici bombardati con i loro residenti all’interno e le “torri”, gli alti edifici che sono stati bombardati a partire dal secondo giorno di questo ultimo conflitto, durante il giorno o verso sera.

Secondo quanto riferito, i proprietari o il portiere nelle torri hanno ricevuto un preavviso di un’ora per evacuare, di solito tramite telefonata dall’esercito o dal Servizio di Sicurezza Shin Bet, seguito da “missili di avvertimento” sparati dai droni. Questi proprietari o portieri avrebbero dovuto avvertire tutti i residenti nel breve tempo rimanente.

Non erano coinvolte solo le Torri. La sera di giovedì la casa di Omar Shurabji a ovest di Khan Yunis è stata bombardata. Un cratere si è formato sulla strada e una stanza dell’edificio a due piani è stata distrutta. Due famiglie, per un totale di sette persone, vivono in quell’edificio.

Circa 20 minuti prima dell’esplosione, l’esercito ha chiamato  Khaled Shurabji e gli ha detto di dire a suo zio Omar di lasciare la casa, secondo un rapporto del centro palestinese per i diritti umani. Non si sa se Omar fosse presente, ma tutti gli abitanti della casa si  sono affrettati a uscire, quindi non ci sono state vittime.

Il fatto stesso che l’esercito israeliano e lo Shin Bet si preoccupino di chiamare e ordinare l’evacuazione delle case mostra che le autorità israeliane sono in possesso dei numeri di telefono aggiornati delle persone che vivono in ogni struttura destinata ad essere colpita. Hanno i numeri di telefono dei parenti delle persone sospettate o note per essere attiviste di Hamas o della Jihad islamica.

Il registro della popolazione palestinese, compreso quello di Gaza, è nelle mani del Ministero dell’Interno israeliano. Include dettagli come nomi, età, parenti e indirizzi.

Come richiesto dagli accordi di Oslo, il Ministero degli Interni palestinese, attraverso il Ministero degli Affari Civili, trasferisce regolarmente le informazioni aggiornate alla parte israeliana, in particolare per quanto riguarda le nascite e i neonati: I dati di registro devono ricevere l’approvazione israeliana, perché senza di essa, i palestinesi non possono ricevere una carta d’identità quando sarà il momento, o nel caso dei minori, non potranno viaggiare da soli o con i loro genitori attraverso i valichi di frontiera controllati da Israele.

È chiaro, quindi, che l’esercito conosce il numero e i nomi di bambini, donne e anziani che vivono in ogni edificio residenziale che bombarda per qualsiasi motivo.

La seconda spiegazione di B’Tselem per il motivo per cui intere famiglie  furono cancellate nel 2014 è che la definizione dell’esercito di “obiettivo militare” attaccabile era molto ampia e includeva le case di Hamas e dei militanti della Jihad islamica. Queste case  furono descritte come infrastrutture operative, o infrastrutture di comando e controllo dell’organizzazione o infrastrutture terroristiche, anche se tutto ciò che avevano era un telefono o semplicemente ospitavano una riunione.

La terza spiegazione nell’analisi di B’Tselem del 2014 era che l’interpretazione dell’esercito del “danno collaterale” è molto flessibile e ampia. L’esercito afferma e sostiene di agire secondo il principio di “proporzionalità” tra il danno ai civili non coinvolti e il raggiungimento del legittimo obiettivo militare, in altre parole, che in ogni caso il “danno collaterale” causato ai palestinesi è valutato e considerato.

Ma una volta che “l’importanza” di un membro di Hamas è considerata di alto livello e la sua residenza è definita come un obiettivo legittimo per i bombardamenti, il danno collaterale “ammissibile”, in altre parole il numero di persone non coinvolte uccise, inclusi bambini e neonati, è molto ampio.

Nell’intenso bombardamento di tre edifici residenziali in Al Wehda Street a Gaza, prima dell’alba di domenica, le famiglie Abu al Ouf, Al-Qolaq e Ashkontana sono state uccise. In tempo reale, quando il numero di morti di una famiglia è così grande, è difficile trovare e incoraggiare un sopravvissuto a raccontare di ogni membro della famiglia e dei loro ultimi giorni.

Quindi bisogna accontentarsi dei loro nomi ed età, come elencato nei rapporti quotidiani delle organizzazioni per i diritti umani che raccolgono le informazioni e persino annotano, quando lo sanno, se qualche membro della famiglia apparteneva a qualche organizzazione militare. Finora non si sa se e chi tra i residenti degli edifici di Al Wehda fosse considerato un obiettivo così importante, da “permettere” l’annientamento di intere famiglie.

I membri della famiglia Abu al Ouf che sono stati uccisi sono: il padre Ayman, un medico di medicina interna dell’ospedale di Shifa, e i suoi due figli: Tawfiq, 17 anni, e Tala, 13. Anche altre due parenti donne sono state uccise, Reem, 41 e Rawan, 19 anni. Questi cinque corpi sonos tati  trovati poco dopo il bombardamento. I corpi di altri otto membri della famiglia Abu al Ouf sono stati estratti dalle macerie solo la sera, e sono: Subhiya, 73, Amin, 90, Tawfiq, 80, sua moglie Majdiya, 82, e la loro parente Raja (sposata con un uomo della famiglia Afranji) con i suoi tre figli: Mira, 12, Yazen, 13 e Mir, 9.

Durante l’incursione aerea su questi edifici, Abir Ashkontana, 30 anni, è stato ucciso assieme ai suoi tre figli: Yahya, 5, Dana, 9, e Zin, 2. La sera sono stati trovati i corpi di altre due bambine: Rula, 6 e Lana, 10. Il rapporto del centro palestinese non dice se queste due bambine sono le figlie di Abir.

Nei due edifici adiacenti sono stati uccisi 19 membri della famiglia Al-Qolaq: ​​Fuaz, 63 anni e i suoi quattro figli; Abd al Hamid, 23, Riham, 33, Bahaa, 49 e Sameh, 28, e sua moglie Iyat, 19 anni. Anche il loro bambino Qusay, di sei mesi, è stato ucciso. Un’altra donna membro della numerosa famiglia, Amal Al-Qolaq, 42 anni, è stata uccisa assieme a tre dei suoi figli: Taher, 23, Ahmad, 16 e Hana’a, 15. Anche i fratelli Mohammed Al-Qolaq, 42 anni, e Izzat, 44 anni, sono stati  uccisi, e i figli di Izzat: Ziad, 8 anni e Adam, 3 anni. Anche le donne Doa’a Al-Qolaq, 39 anni, e Sa’adia Al-Qolaq, 83 anni, sono state uccise. In serata, i corpi di Hala Al-Qolaq, 13 anni, e sua sorella Yara, 10 anni, sono stati estratti da sotto le macerie. Il rapporto del centro palestinese non menziona chi fossero i loro genitori e se anche loro siano stati uccisi nel bombardamento.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Israele: è l’inizio della fine dell’apartheid? – Richard Falk

 

L’attuale crisi Palestina-Israele si aggrava e si allarga: le vittime aumentano, il fumo degli edifici distrutti annerisce il cielo sopra Gaza, ci sono disordini per le strade di molte città israeliane e della Cisgiordania; la polizia israeliana aggredisce i fedeli nella moschea di Al-Aqsa mentre protegge i coloni ebrei estremisti che gridano slogan genocidi, “morte agli arabi”, in marce infiammate attraverso i quartieri palestinesi.

Alla base di tutto questo scoppio di tensioni tra oppressore e oppressi sono stati gli ingiusti sfratti legalizzati di sei famiglie palestinesi residenti da tempo nel quartiere di Sheikh Jarrah nella Gerusalemme Est occupata. Questi sfratti incarnano il lungo calvario palestinese della persecuzione e dell’esilio in quella che rimane la loro patria.

Mentre questo caos continua, l’ONU rimane scandalosamente in silenzio. I leader occidentali chiedono pateticamente la calma da entrambe le parti come se entrambe le parti condividessero la stessa colpa, mentre affermano perversamente l’unilateralità del “diritto di Israele a difendersi”, il che presuppone che Israele sia stato improvvisamente attaccato.

Questo è solo un altro ciclo di violenza che mostra lo scontro irrisolvibile tra un popolo nativo sopraffatto da un intruso coloniale incoraggiato da un solo religiosamente radicato senso del diritto colonizzatore?

O stiamo assistendo all’inizio della fine della lotta secolare del popolo palestinese per difendere la propria patria contro il progetto sionista in corso che ha rubato la loro terra, calpestato la loro dignità e reso i palestinesi vittime di stranieri in quella che era stata la loro patria nazionale per secoli?

Solo il futuro può svelare completamente questa inquietante incertezza. Nel frattempo, possiamo aspettarci altri spargimenti di sangue, morte, indignazione, dolore, ingiustizia, e continue interferenze geopolitiche.

Lo spirito di resistenza

Gli eventi della scorsa settimana hanno chiarito che i palestinesi resistono a una prolungata oppressione con il loro spirito di resistenza intatto e rifiutano di essere pacificati, indipendentemente dalla gravità delle difficoltà imposte.

Ci viene anche fatto capire che la leadership israeliana e la maggior parte del suo popolo non sono più disposti  nemmeno a fingere di essere ricettivi a un’alternativa pacifica al completamento della loro impresa coloniale di occupazione, ciò nonostante la sua dipendenza da una versione militarizzata del governo dell’apartheid.

Per gli israeliani e gran parte dell’Occidente, la narrazione centrale continua ad essere la violenza di un’organizzazione “terrorista”, Hamas, che sfida il pacifico stato di Israele con intenti distruttivi, facendo sembrare ragionevole la risposta israeliana. Si tratta quindi non solo di una risposta ai razzi di Hamas, ma anche di una dura lezione punitiva per il popolo di Gaza, progettata per scoraggiare futuri attacchi.

I missili e i droni israeliani sono considerati “difensivi” mentre i razzi sono atti di “terrorismo”, anche se vengono raramente colpiti obiettivi umani israeliani, e nonostante il fatto che siano le armi israeliane a causare il 95% della morte e della distruzione tra gli oltre due milioni di civili palestinesi a Gaza. Sono oltretutto vittime di un devastante blocco illegale che dal 2007 ha portato gravi sofferenze all’enclave impoverita, affollata e traumatizzata, con livelli di disoccupazione superiori al 50%.

Nell’attuale confronto, il controllo israeliano del dibattito internazionale è riuscito a decontestualizzare la sequenza temporale della violenza, portando così coloro che hanno poca conoscenza di ciò che ha indotto la raffica di razzi di Hamas verso Israele, a credere falsamente che la distruzione a Gaza sia stata una reazione di rappresaglia israeliana alle centinaia di razzi lanciati da gruppi armati di Hamas e Gaza.

Con equilibrismi linguistici che potrebbero persino sorprendere Orwell, il terrorismo di Stato israeliano è stato nascosto al mondo, insieme al rifiuto della diplomazia di pace di Hamas che negli ultimi 15 anni ha ripetutamente cercato un cessate il fuoco permanente e una coesistenza pacifica.

Vittorie simboliche

Per i palestinesi e per coloro che sono solidali con la loro lotta, Israele ha deliberatamente inflitto alla popolazione oppressa della Gerusalemme Est occupata una serie di angosciose umiliazioni durante il periodo sacro delle osservanze religiose musulmane nel Ramadan, spargendo sale sulle ferite recentemente aperte dagli sfratti di Sheikh Jarrar. Ciò ha avuto l’inevitabile effetto di richiamare i ricordi palestinesi delle loro distintive esperienze di pulizia etnica giorni prima della commemorazione annuale della Nakba, il 15 maggio.

Questo ha equivalso a una metaforica rievocazione di quel grave crimine di pulizia etnica seguito da una espulsione di massa che accompagnò la fondazione di Israele nel 1948 e che culminò con la distruzione di diverse centinaia di villaggi palestinesi, fatto indicativo di una ferma intenzione israeliana di rendere permanente l’esilio.

A differenza del Sudafrica, che non ha mai preteso di essere una democrazia, Israele si è legittimato presentandosi come una democrazia costituzionale. Questa decisione di essere una democrazia è costata molto in termini di inganno e autoinganno, rendendo necessario fino ad oggi un impegno costante per far funzionare l’ingranaggio dell’apartheid e garantire la supremazia ebraica nascondendo l’oppressione palestinese.

Per decenni, Israele è riuscito a nascondere al mondo queste caratteristiche razziste, perché l’eredità dell’Olocausto ha dato credito acritico alla narrativa sionista di fornire rifugio ai sopravvissuti del peggior Genocidio noto all’umanità.

Inoltre, la presenza ebraica “stava facendo fiorire il deserto”, mentre allo stesso tempo praticamente cancellava le proteste della Palestina, ulteriormente sminuite dalla rappresentazione di arretratezza palestinese della propaganda Hasbara, in contrasto con l’abilità modernizzante israeliana, e in seguito affiancando una caricatura politica dei due popoli, raffigurante l’adesione ebraica ai valori occidentali in contrapposizione all’abbraccio palestinese al terrorismo.

I recenti sviluppi nei domini simbolici della politica che controllano l’esito di “Guerre di Legittimità” hanno segnato diverse vittorie per la lotta palestinese. La Corte Penale Internazionale ha autorizzato le indagini sui crimini israeliani nella Palestina occupata a partire dal 2015 nonostante la tenace opposizione dei vertici del governo israeliano, pienamente sostenuta dagli Stati Uniti. L’indagine all’Aja, pur procedendo nel diligente rispetto delle legittimità delle parti coinvolte, non è stata chiaramente accolta da Israele, ma bensì immediatamente denunciata dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu come “mero antisemitismo”.

Oltre a ciò, le accuse di apartheid israeliano sono state confermate inequivocabilmente in un rapporto accademico commissionato dall’ONU, concludendo che le politiche e le pratiche israeliane erano progettate per garantire la sottomissione palestinese e la dominazione ebraica. Anche questo è stato rifiutato  in modo simile dai leader israeliani.

Negli ultimi mesi sia B’Tselem, la principale ONG israeliana per i diritti umani, sia Human Rights Watch, hanno pubblicato studi accuratamente documentati che giungono alla stessa sorprendente conclusione: Israele amministra effettivamente un regime di apartheid all’interno dell’intera Palestina storica, cioè i Territori Palestinesi Occupati oltre allo stesso Israele.

Sebbene questi due sviluppi non allevino la sofferenza palestinese o gli effetti comportamentali della continua negazione dei diritti fondamentali, sono vittorie simboliche significative che rafforzano il morale della resistenza palestinese e i legami di solidarietà globale. Dal 1945, l’analisi delle lotte contro il colonialismo  ha portato alla deduzione che la parte che vince una guerra di legittimità alla fine controllerà il risultato politico, nonostante sia più debole militarmente e diplomaticamente.

‘Alla fine la vittoria’

La fine del regime di apartheid sudafricano rafforza questa rivalutazione del mutevole equilibrio delle forze nella lotta palestinese. Nonostante avesse quello che sembrava essere un controllo efficace e stabile della popolazione a maggioranza africana attraverso l’implementazione di brutali strutture segregazioniste, il regime razzista è imploso sotto il peso combinato della resistenza interna e della pressione internazionale.

Le pressioni esterne includevano una campagna BDS ampiamente condivisa che godeva del sostegno delle Nazioni Unite e delle battute d’arresto militari in Angola contro le forze cubane e di liberazione. Israele non è il Sud Africa in una serie di aspetti chiave, ma la combinazione di resistenza e solidarietà è aumentata notevolmente la scorsa settimana.

Israele ha già esaurito da tempo i principali argomenti legali e morali, quasi riconoscendo questa interpretazione con il loro modo provocatorio di deviare la discussione con accuse sconsiderate di antisemitismo, ed è in procinto di perdere l’argomento politico.

Il senso di vulnerabilità di Israele nei confronti di uno scenario sudafricano è stato esposto dalla tendenza crescente a bollare i sostenitori del BDS e i critici severi come “antisemiti”, il che sembra, nel contesto dell’attuale sviluppo, meglio definirsi come “un attacco di panico geopolitico”.

Trovo appropriato ricordare la famosa osservazione di Gandhi in proposito: “Prima ti ignorano, poi ti insultano, poi ti combattono, poi vinci”.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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I giovani palestinesi stanno guidando una rivolta per porre fine all’apartheid israeliano – Dima Khalidi

 

Questa generazione rifiuta l’idea che Israele come entità sionista possa essere riformata, proprio come il movimento BLM rifiuta che istituzioni intrinsecamente e strutturalmente razziste come la polizia possano essere “riformate”.

 

In questi giorni, noi palestinesi di tutto il mondo stiamo vivendo un déjà vu, mentre guardiamo nuovamente il nostro popolo resistere alla cancellazione che Israele chiede con la forza di accettare, e sapendo che molti  di noi moriranno.

Come madre ho pianto, leggendo il tweet di una madre di Gaza che fa dormire i suoi figli con lei “così che  se dovessimo morire, moriremo insieme e nessuno di noi sopravviverebbe per piangere la perdita dell’uno o dell’altro”; o mentre leggevo di un padre che cercava di rassicurare sua figlia  che gli chiedeva se la loro casa potesse essere distrutta durante la notte, dicendole che le bombe ” al buio non ci vedono “; mentre immagino l’indicibile terrore di essere una dei 2 milioni di persone stipate come sardine in una prigione a cielo aperto  mentre le più avanzate armi di distruzione di massa vengono sganciate su di te. Avendo vissuto da bambina l’invasione israeliana e l’assedio di Beirut nel 1982, questo tipo di terrore è radicato nella mia memoria.

Insieme a questo dolore disperato e a questa rabbia impotente, provo anche un’energia familiare, la sensazione che “questo è” . Che non c’è ritorno. La verità è nuda. Il nostro popolo non può più contenere il bisogno di resistere a uno stato colonialista che da generazioni ha esercitato espropriazioni, oppressione e menzogne, ​​vendute per giustificare la nostra disumanizzazione.

È simile ai sentimenti che sono emersi negli Stati Uniti la scorsa estate, quando l’ennesimo nero – George Floyd – è stato ucciso dallo stato in pubblico, in video, per 9 atroci minuti, e le comunità nere si sono alzate per dichiarare la fine della loro oppressione in una società profondamente razzista, una società costruita con il sudore e il sangue dei loro corpi sulla terra rubata ai popoli indigeni.

Questi sono i momenti in cui un popolo oppresso non ce la fa più. I neri e gli indigeni hanno sempre resistito alla loro cancellazione e oppressione. E così anche i palestinesi.

Quest’ultima rivolta palestinese rifiuta fermamente la conquista e la divisione del nostro popolo, legalmente e geograficamente, in appezzamenti di terra separati, assediati e discriminati, simili ai Bantustan dell’Apartheid in Sud Africa. Quest’ultima rivolta dichiara che tutta la Palestina storica è sotto qualche forma di occupazione e che ciò deve finire.

La casa del mio bisnonno a Giaffa giace parzialmente in rovina, recintata e irraggiungibile, nelle mani del “Custode delle proprietà assenti”. Il furto delle case dei nostri nonni a cui è stato impedito di tornare a Giaffa nel 1948, fa parte dello stesso brutale progetto di violenti sfratti di centinaia di palestinesi dalle loro case da parte dei coloni israeliani sostenuti dallo stato a Sheikh Jarrah,  a Silwan, a Gerusalemme.  Appartiene allo stesso progetto la demolizione del villaggio beduino di Khan al-Ahmar o dei villaggi nel Negev e del trasferimento forzato della loro gente. Promuove lo stesso obiettivo dell’espropriazione delle nostre terre per costruire insediamenti fortificati illegali ed esclusivamente ebraici in tutta la Cisgiordania. Hanno tutti lo stesso scopo: rimuovere un popolo per creare uno stato-nazione discriminatorio e di apartheid per un altro, in tutta la terra dal fiume al mare.

Qui negli Stati Uniti i giovani palestinesi affrontano enormi ostacoli nel dire le loro verità.

Il 15 maggio 2021 ha segnato 73 anni dalla Nakba – l’allontanamento forzato di 750.000 palestinesi dalle loro terre e case per far posto a uno stato ebraico, nel 1948. Da allora la Nakba non è mai cessata.

Di questo si tratta: un violento progetto coloniale per sostituire la popolazione nativa con un’altra. Il fatto che il colonizzatore sia stato un popolo oppresso nel corso della storia, i cui sopravvissuti si stavano riprendendo da un indescrivibile genocidio compiuto dal fascismo europeo, non lo rende giusto.

Eppure, anche in questo momento oscuro e terrificante, una nuova alba sembra possibile. Questa sensazione è ciò che alimenta il mio lavoro con “Palestine Legal” per garantire che le persone negli Stati Uniti – il ventre dell’impero coloniale-colonialista che arma e finanzia la pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele per un importo di 3,8 miliardi di dollari all’anno – possano resistere nel continuare ad essere solidali con noi.

Di fronte a una massiccia campagna per sopprimere il nostro movimento attraverso leggi, azioni legali, bugie e intimidazioni, possiamo continuare a dire la verità e, attraverso l’organizzazione di base, creare il tipo di cambiamenti a cui stiamo assistendo quando le rappresentanti Alexandria Ocasio-Cortez, Cori Bush e Rashida Tlaib testimoniano la nostra oppressione nelle stanze del Campidoglio?

Questa generazione rifiuta l’idea che Israele come entità sionista possa essere riformata, proprio come BLM rifiuta che istituzioni intrinsecamente e strutturalmente razziste come la polizia possano essere “riformate”.

Come in Palestina in questo momento, dove i giovani palestinesi stanno rischiando la vita guidando la rivolta popolare, il crescente movimento per i diritti dei palestinesi negli Stati Uniti è stato alimentato da una nuova generazione di palestinesi e da sempre più sostenitori , che aumentano quotidianamente . È una generazione audace, determinata e senza paura, perché vede che non c’è più niente da perdere. Ed è una generazione di attivisti che si connette con paralleli storici e contemporanei di oppressione, resistenza e immaginazione radicale di un altro mondo, fondato sulla liberazione collettiva di neri, indigeni, immigrati, LGBTQ e altre comunità oppresse in tutto il mondo.

Eppure qui negli Stati Uniti i giovani palestinesi affrontano enormi ostacoli per dire le loro verità. Quando Ahmad Daraldik è stato eletto al senato studentesco alla Florida State University, è stato immediatamente e senza pietà attaccato per la sua critica a Israele, formulata in base alla sua esperienza di vita sotto occupazione. Un’app finanziata dallo stato israeliano ha spinto le persone a lamentarsi del fatto che fosse antisemita e a chiederne l’espulsione. I politici della Florida hanno chiesto lo stesso, minacciando di sospendere i finanziamenti universitari. Ha ricevuto dozzine di messaggi minacciosi, razzisti e vili, che chiedevano la sua castrazione e deportazione. Questa è diventata la norma per i palestinesi ei loro sostenitori che sfidano l’egemonia di Israele negli Stati Uniti. La vergognosa censura di Facebook / Instagram è una misura di ciò.

Ciò è in parte dovuto alla minaccia che le giovani voci palestinesi rappresentano per questa egemonia. Questa generazione non ha pazienza o tolleranza per l’ignoranza intenzionale o il razzismo sfacciato, e non ha nemmeno paura di smascherare le banalità dei liberali che si torcono le mani sugli abusi dei diritti dei palestinesi, ma si rifiutano di riconoscere che Israele, così come lo conosciamo, non esisterebbe e non può continuare a esistere senza quegli abusi e senza il sostegno incondizionato del governo degli Stati Uniti. Per definizione, il sionismo richiede la distruzione della Palestina e la cancellazione dei palestinesi per creare uno stato ebraico. Questa generazione rifiuta l’idea che Israele come entità sionista possa essere riformata, proprio come il movimento BLM rifiuta che istituzioni intrinsecamente e strutturalmente razziste come la polizia possano essere “riformate”.

Ascoltiamoli! Questa generazione di palestinesi ci sta indicando la strada. Stanno parlando a ognuno di noi perché tutti noi, insieme, abbiamo il potere. L’unica via d’uscita è porre fine all’occupazione, porre fine all’apartheid, porre fine all’assedio e alla distruzione di Gaza, porre fine alla duratura espropriazione di generazioni di palestinesi, riconoscere le ingiustizie storiche e ripararle – attuando il diritto al ritorno, attraverso compensazioni e altri mezzi riparatori. Perché solo allora potremo parlare di vera pace – non di pace solo per gli ebrei israeliani, una pace a spese dei palestinesi, schiacciati sotto il loro stivale coloniale.

I palestinesi – sotto occupazione e nella diaspora – stanno chiedendo a tutti noi di testimoniare e condividere le loro realtà, di pronunciare i loro nomi, ripetere le loro richieste, porre fine alla nostra complicità e unirci alle loro visioni per un futuro nuovo, decolonizzato e liberato per tutti. Ci state?

Dima Khalidi è una palestinese nata a Beirut e cresciuta negli Stati Uniti. È la fondatrice e direttrice di Palestine Legal, un’organizzazione legale e di difesa senza scopo di lucro che lavora per proteggere le persone che  sostengono la libertà dei palestinesi dagli attacchi ai loro diritti civili e costituzionali.

Trad: Grazia Parolari

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Palestina, una storia con troppi nemici – Enrico Campofreda

 

La politica estera della Casa Bianca che, col verbo dell’amministrazione Biden, s’impegna ad adottare un approccio di difesa dei diritti nelle controversie internazionali mostra un fiato cortissimo nella crisi israelo-palestinese di questi giorni. Sia sulla Spianata delle Moschee, ridotta a un campo di battaglia e ancor più sulla Striscia di Gaza ridiventata bersaglio dei raid aerei dell’Idf. Ci sono anche i razzi lanciati sul territorio israeliano,  finanche su Tel Aviv – alcune fonti dicono un migliaio – che hanno provocato una terza vittima, dopo le due donne colpite ad Ashkelon, mentre cinquantatré risultano finora i cittadini arabi morti nell’escalation militare che ha tutta l’aria di rinverdire le campagne di sangue degli ultimi dodici anni, da Piombo fuso del 2009 al Margine di Protezione del 2014. E mentre Hamas, direttamente colpita nella Striscia sia con l’uccisione mirata di tre responsabili più l’abbattimento d’un grande edificio di sua giurisdizione, e la Jihad islamica si scambiamo col premier Netanyahu accuse e minacce su chi pagherà di più nelle prossime ore, nel dramma e nella morte già fioccano le denominazioni: Guardiani delle mura la chiama Tel Aviv, Spada di Gerusalemme rispondono da Gaza,  da Oltreoceano non giungono segnali di contenimento d’un contrasto che già scivola in aperta offensiva. Israele muove truppe sui confini e richiama oltre cinquemila riservisti. Anche perché in alcuni centri dove la convivenza con gli arabo-israeliani si snodava senza contrasti, la litigiosità è deflagrata in base alla virulenza di questi giorni: a Lod, a sud di Tel Aviv, la cittadinanza palestinese ha dato alle fiamme sinagoghe e auto. Stavolta la popolazione d’Israele non osserva in tivù quel che compie Tsahal alle vite degli altri, vede la propria vita in pericolo, ovviamente non su tutto il suo territorio.

 

A un Biden meditabondo o assai più in attesa di mosse internazionali, soprattutto russe e turche visto che quei due capi di Stato si confrontano su questa crisi, sopperiscono suoi subalterni, ad esempio Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale, che si confronta con l’omologo israeliano. Più che altro per sostenere la linea della difesa degli storici alleati. Nessuna parola sui blandi tentativi dell’Onu di ripristinare la calma, anche perché proprio gli Stati Uniti stanno prendendo tempo e per ora impediscono la formulazione di testi e risoluzioni. L’attuale ambiguità non stupisce di certo, è una posizione adottata da decenni con le più svariate amministrazioni sempre unite nell’avallare l’occupazione illegale di Gerusalemme nel 1967, l’annessione di fatto del 1980, fino ai passi ampiamente provocatori del 2017 col riconoscimento della Città Santa quale capitale d’Israele. Certo, gli ultimissimi voltafaccia delle più occidentali fra le nazioni arabe firmatarie del cosiddetto ‘Accordo di Abramo’, hanno posto una pietra tombale sull’annosa rivendicazione d’uno Stato Palestinese, promesso, concesso per modo di dire a Oslo, e scippato dalla prosecuzione delle occupazioni illegali dei coloni, proseguite ora col parossistico sfratto da Sheikh Jarrah. Think tank democratici che in questi giorni osservano e, magari, commentano col solito buonismo di ritorno le fiammate di violenza nei luoghi, anche quelli di preghiera, dove i palestinesi sono ghettizzati, sostengono che occorre lavorare per isolare e prevenire violenze. Eppure da oltre un decennio le contraddizioni – palesi, stridenti – nella Cisgiordania occupata e nella Striscia martoriata non solo dal fuoco aereo, ma dall’embargo terrestre, sono rimaste inalterate. Quindi hanno incrementato la frustrazione sociale e civile d’un popolo ridotto a servitù dal fanatismo dell’ultradestra israeliana ormai padrona d’uno scenario politico incistato dal non  senso d’un sistema che gode della discriminazione imposta a cittadini piegati dall’apartheid. Egualmente la casta politica palestinese congela presente e futuro (le elezioni rimandate ancora una volta sono l’ennesima prova), davanti ai falsi fratelli del mondo arabo avvelenatori di pozzi e al cinismo geopolitico internazionale. E il cerchio appare tragicamente chiuso.

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BERNIE SANDERS: GLI STATI UNITI DEVONO SMETTERE DI ESSERE APOLOGETI DEL GOVERNO NETANYAHU

 

In oltre un decennio del suo governo di destra in Israele, Netanyahu ha coltivato un nazionalismo razzista di tipo sempre più intollerante e autoritario.

 

“Israele ha il diritto di difendersi”.

Queste sono le parole che sentiamo sia dall’amministrazione democratica che da quella repubblicana ogni volta che il governo di  Israele , con il suo enorme potere militare, risponde agli attacchi missilistici da Gaza.

Siamo chiari. Nessuno sostiene che Israele, o qualsiasi governo, non abbia il diritto all’autodifesa o alla protezione del suo popolo. Allora perché queste parole vengono ripetute anno dopo anno, guerra dopo guerra? E perché c’è una domanda che non viene quasi mai posta: “Quali sono i diritti del popolo palestinese?”

E perché sembra che ci rendiamo conto della violenza in Israele e Palestina solo quando i razzi stanno cadendo su Israele?

In questo momento di crisi, gli Stati Uniti dovrebbero sollecitare un cessate il fuoco immediato. Dovremmo anche capire che, mentre Hamas lancia razzi contro le comunità israeliane ed è assolutamente inaccettabile, il conflitto di oggi non è iniziato con quei razzi.

Le famiglie palestinesi nel quartiere di Gerusalemme di Sheikh Jarrah vivono da molti anni sotto la minaccia di sfratto, navigando in un sistema legale progettato per facilitare il loro spostamento forzato. E nelle ultime settimane, i coloni estremisti hanno intensificato i loro sforzi per cacciarli.

E, tragicamente, quegli sfratti sono solo una parte di un più ampio sistema di oppressione politica ed economica. Per anni abbiamo assistito a un appesantimento dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gerusalemme est e un continuo blocco su Gaza che rendono la vita sempre più intollerabile per i palestinesi. A Gaza, che conta circa due milioni di abitanti, il 70 per cento dei giovani è disoccupato e ha poche speranze per il futuro.

Inoltre, abbiamo visto il governo di Benjamin Netanyahu lavorare per emarginare e demonizzare i cittadini palestinesi di Israele, perseguire politiche di insediamento progettate per precludere la possibilità di una soluzione a due stati e approvare leggi che rafforzano la disuguaglianza sistemica tra cittadini ebrei e palestinesi di Israele.

Niente di tutto ciò scusa gli attacchi di Hamas, che erano un tentativo di sfruttare i disordini a Gerusalemme, o i fallimenti dell’Autorità Palestinese corrotta e inefficace, che di recente ha rinviato elezioni da tempo attese. Ma il nocciolo della questione è che Israele rimane l’unica autorità sovrana nella terra di Israele e Palestina, e invece di prepararsi per la pace e la giustizia, ha rafforzato il suo controllo ineguale e antidemocratico.

In oltre un decennio del suo governo di destra in Israele, Netanyahu ha coltivato un nazionalismo razzista di tipo sempre più intollerante e autoritario. Nel suo frenetico tentativo di rimanere al potere ed evitare procedimenti giudiziari per corruzione, Netanyahu ha legittimato queste forze, incluso Itamar Ben Gvir e il suo partito estremista Jewish Power,  inserendole nel governo . È scioccante e triste che le folle razziste che attaccano i palestinesi per le strade di Gerusalemme ora abbiano una rappresentanza nella sua Knesset.

Queste tendenze pericolose non sono solo per Israele. In tutto il mondo, in Europa, in Asia, in Sud America e qui negli Stati Uniti, abbiamo assistito all’ascesa di simili movimenti nazionalisti autoritari. Questi movimenti sfruttano gli odi etnici e razziali per costruire potere per pochi corrotti piuttosto che prosperità, giustizia e pace per molti. Negli ultimi quattro anni, questi movimenti hanno avuto un amico alla Casa Bianca.

Allo stesso tempo, stiamo assistendo all’ascesa di una nuova generazione di attivisti che vogliono costruire società basate sui bisogni umani e sull’uguaglianza politica. Abbiamo visto questi attivisti nelle strade americane la scorsa estate sulla scia dell’omicidio di George Floyd. Li vediamo in Israele. Li vediamo nei territori palestinesi.

Con un nuovo presidente, gli Stati Uniti hanno ora l’opportunità di sviluppare un nuovo approccio al mondo, basato su giustizia e democrazia. Che si tratti di aiutare i paesi poveri a ottenere i vaccini di cui hanno bisogno, di guidare il mondo nella lotta al cambiamento climatico o di lottare per la democrazia e i diritti umani in tutto il mondo, gli Stati Uniti devono guidare promuovendo la cooperazione invece dei conflitti.

In Medio Oriente, dove forniamo quasi 4 miliardi di dollari all’anno in aiuti a Israele, non possiamo più essere apologeti del governo di destra Netanyahu e del suo comportamento antidemocratico e razzista. Dobbiamo cambiare rotta e adottare un approccio equilibrato, che sostenga e rafforzi il diritto internazionale in materia di protezione dei civili, così come la legislazione statunitense esistente che afferma che la fornitura di aiuti militari statunitensi non deve consentire violazioni dei diritti umani.

Questo approccio deve riconoscere che Israele ha il diritto assoluto di vivere in pace e sicurezza, ma lo hanno anche i palestinesi. Credo fermamente che gli Stati Uniti abbiano un ruolo importante da svolgere nell’aiutare israeliani e palestinesi a costruire quel futuro. Ma se gli Stati Uniti vogliono essere una voce credibile sui diritti umani sulla scena globale, dobbiamo sostenere gli standard internazionali dei diritti umani in modo coerente, anche quando è politicamente difficile. Dobbiamo riconoscere che i diritti dei palestinesi sono importanti. Le vite palestinesi contano.

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Facebook, i giganti dei social media ammettono di censurare la denuncia palestinese online – Jessica Buxbaum

 

In un video pubblicato sull’account Twitter dell’organizzazione attivista Jewish Voice for Peace (Voci Ebraiche per la Pace), Muna El-Kurd ha spiegato perché i social media sono così vitali per la causa palestinese.

“Facciamo affidamento sulla lealtà delle persone che sono solidali con noi, persone che twittano #SaveSheikhJarrah ogni giorno”, ha detto Muna El-Kurd. “Anche un breve tweet o post è prezioso.”

Muna El-Kurd e la sua famiglia sono minacciate di sfollamento forzato da parte dei coloni israeliani e delle forze governative israeliane dalla loro casa a Sheikh Jarrah, un quartiere nella Gerusalemme Est occupata. Nell’ultima settimana, i palestinesi sul campo hanno documentato sia la brutalità della polizia israeliana che la violenza dei coloni.

In risposta, il mondo si è schierato  online con  i difensori palestinesi  condividendo informazioni relative a Sheikh Jarrah, alla Moschea di al-Aqsa e alla pulizia etnica perpetrata da Israele in Palestina. Tuttavia, gli attivisti affermano che i loro contenuti sono stati oggetto di censura dalle stesse piattaforme su cui divulgano i contenuti.

Instagram ha disabilitato l’account di Muna El-Kurd la scorsa settimana e suo fratello, Mohammed El-Kurd, si è visto rimuovere molte delle sue pubblicazioni su Instagram ed è stato minacciato di cancellazione dell’account.

Una raffica di rimozioni di contenuti e di divieti

Gli attivisti hanno riferito che le compagnie di social media hanno rimosso il loro contenuto, affermando che violava le linee guida della comunità o ritenendolo “incitamento all’odio”. I rapporti includevano anche account sospesi e disattivati ​​e contenuti di solo testo etichettati come “sensibili”, una designazione solitamente riservata a foto e video contenenti violenza, sangue o immagini forti. Anche il gruppo Facebook “Save Sheikh Jarrah” è stato disattivato, secondo Mohammed El-Kurd.

I rapporti erano in gran parte incentrati su Instagram e Twitter, con alcuni comportamenti restrittivi  applicati da Facebook e persino da TikTok.

 

Durante il fine settimana, non è stato possibile trovare su Instagram hashtag relativi alla Moschea di al-Aqsa, a Sheikh Jarrah e a Gerusalemme.

Secondo le comunicazioni interne dei dipendenti fornite a Buzzfeed, al-Aqsa, il terzo sito più sacro dell’Islam, è stato contrassegnato da Instagram come associato a “violenza o organizzazioni pericolose”. L’etichetta è solitamente riservata ai gruppi terroristici.

Durante gli ultimi giorni del Ramadan, i fedeli di al-Aqsa sono stati attaccati con granate stordenti e proiettili di gomma dalla polizia israeliana in tenuta antisommossa. Più di 170 palestinesi sono rimasti feriti. Gli utenti dei social media che speravano di denunciare la violenza di Stato si sono visti invece rimuovere i propri contenuti dai risultati di ricerca.

Ventiquattro organizzazioni per i diritti umani hanno firmato una dichiarazione chiedendo che Facebook e Twitter ripristinassero gli account interessati e spiegassero le loro azioni:

I contenuti rimossi e gli account sospesi su Instagram e Twitter sono inerenti alla documentazione e segnalazione di ciò che sta accadendo a Sheikh Jarrah, nonché alla denuncia delle politiche israeliane di pulizia etnica, apartheid e persecuzione. Queste violazioni non sono limitate agli utenti palestinesi, ma colpiscono anche gli attivisti di tutto il mondo che utilizzano i social media per sensibilizzare sulla grave situazione a Sheikh Jarrah.

Nadim Nashif, fondatore e Direttore Generale di 7amleh, uno dei firmatari della lettera, ha affermato che l’organizzazione per i diritti digitali ha ricevuto segnalazione di circa 200 casi di censura sui social media relativi ai recenti eventi in Palestina. Tuttavia, ritiene che il numero effettivo potrebbe essere di migliaia, poiché molti utenti che subiscono la censura potrebbero non segnalarlo.

“In realtà, il 99% dei nostri ricorsi per rimozione di contenuti alle aziende di social media è stato accolto, senza che ci siano state domande. E questo è chiaramente perché questi post non violano realmente i loro standard comunitari”, ha detto Nashif. “Quello che fondamentalmente sta accadendo è che l’Unità Cibernetica israeliana sta abusando del sistema della cosiddetta rimozione volontaria.”

Quando è stato raggiunto per un commento, un portavoce di Twitter ha dichiarato: “I nostri sistemi automatizzati hanno intrapreso un’azione di contrasto su un numero limitato di account per un errore provocato da un filtro antispam automatico”.

“Stiamo rapidamente annullando questa azione per ripristinare l’accesso agli account interessati, alcuni dei quali sono già stati riattivati”, ha comunicato Twitter.

Facebook, che possiede Instagram, ha risposto alle richieste di commento rilasciando una dichiarazione che in parte recita:

“Sappiamo che ci sono stati diversi problemi che hanno influito sulla capacità delle persone di condividere sulle nostre app, tra cui un bug tecnico che ha interessato le pubblicazioni in tutto il mondo e un errore che ha limitato temporaneamente la visualizzazione dei contenuti sulla pagina hashtag della moschea di al-Aqsa. Sebbene entrambi i problemi siano stati risolti, non avrebbero mai dovuto assolutamente accadere. Siamo molto dispiaciuti per tutti coloro che hanno sentito di non poter attirare l’attenzione su eventi importanti o che hanno ritenuto che si trattasse di una deliberata soppressione della loro libertà di espressione. Questa non è mai stata la nostra intenzione”.

Censura collaborativa aziendale e governativa

Come già documentato, la soppressione da parte dei social media dei contenuti palestinesi non è un fenomeno nuovo. La ricerca di 7amleh ha rivelato una significativa cooperazione tra i colossi dei social media e Israele nel prendere di mira i contenuti palestinesi: secondo un rapporto di 7amleh del 2020 sulla cancellazione sistematica dei contenuti palestinesi, l’Unità Informatica del Ministero della Giustizia israeliano è responsabile della presentazione delle richieste di rimozione alle società tecnologiche sulla base di presunte violazioni del diritto interno e delle linee guida comunitarie delle società.

7amleh nel suo rapporto ha scritto:

“Il Ministro della Giustizia israeliano, Ayelet Shaked, ha dichiarato che “Facebook, Google e YouTube stanno rispettando fino al 95% delle richieste israeliane di eliminazione di contenuti che secondo il governo israeliano incitano alla violenza palestinese”. Ciò mostra un’attenzione significativa sui contenuti palestinesi e gli sforzi per etichettare il linguaggio politico palestinese come incitamento alla violenza”.

Il governo israeliano e le organizzazioni non governative incoraggiano anche i cittadini a partecipare a questi sforzi di censura facendo le proprie richieste di rimozione dei contenuti in relazione alle pubblicazioni palestinesi.

“Il grosso problema delle rimozioni volontarie è che non ci sono procedure legali o burocratiche per chiarirle”, ha detto Nashif.

Nel 2019, Adalah – Il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele e l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) hanno presentato una petizione congiunta all’Alta Corte di Giustizia israeliana contro l’Unità Cibernetica sulla base del fatto che i suoi meccanismi violano i diritti costituzionali di libertà di espressione e giusto processo. Il mese scorso, la Corte Suprema di Israele ha respinto la petizione.

“Come al solito, la Corte Suprema ha sostenuto e convalidato le azioni dell’Unità Cibernetica”, ha detto Nashif. “E ora stanno cercando di censurare i contenuti palestinese intensificando queste richieste di rimozione”.

Nashif non ha potuto confermare che l’Unità Cibernetica israeliana sia dietro l’ultima presunta censura. Ma attraverso l’uso di Adalah e ACRI della legge sulla libertà di informazione, 7amleh sa che l’ente governativo ha fatto più di 15.000 richieste lo scorso anno alle piattaforme di social media. Nashif ha spiegato:

“Non abbiamo prove su ciò che è accaduto nell’ultima settimana perché né l’Unità Cibernetica, né Facebook sono trasparenti sulle rimozioni. Ma è chiaro seguendoli, analizzando le loro politiche, parlando con persone che lavorano in Facebook e dai diversi ricorsi in tribunale contro l’Unità Cibernetica, che questo sta ovviamente accadendo”.

Aumento della violenza, crescente azione di base

Le tensioni a Gerusalemme e in tutta la Palestina si sono intensificate negli ultimi giorni. Al momento in cui scrivo, gli attacchi aerei israeliani hanno ucciso 87 palestinesi di Gaza, inclusi 18 bambini, e il lancio di razzi di Hamas, il Movimento di Resistenza che governa Gaza, ha ucciso sei israeliani e un cittadino indiano. Più di 530 palestinesi e 28 israeliani sono rimasti feriti.

Le forze israeliane hanno sparato acqua putrida e granate stordenti contro la folla che manifestava contro le espulsioni dei residenti di Sheikh Jarrah. Gruppi armati di israeliani stanno attualmente invadendo le strade della Palestina, cantando “Morte agli arabi”, distruggendo proprietà palestinesi e attaccando i palestinesi.

La Corte Suprema israeliana ha rinviato un’udienza in tribunale sulla possibile espropriazione delle famiglie di Sheikh Jarrah, compresi gli El-Kurdi. Il tribunale dovrebbe fissare una nuova data tra 30 giorni.

Mentre le autorità israeliane continuano a reprimere il dissenso palestinese sul campo, Nashif ha detto che anche le voci palestinesi vengono represse online.

“La nostra sensazione è che ora la repressione sia diminuita perché stiamo ricevendo meno richieste di aiuto. Ma sta ancora accadendo”, ha detto Nashif, riferendosi a come l’Unità Cibernetica ​​israeliana, l’intelligenza artificiale e le comunità Internet pro-Israele come Act.Il fanno tutti parte della campagna per sminuire la prospettiva palestinese sui social media.

“Si deve capire che questa è una lotta sulla narrativa,” ha detto Nashif. “C’è un forte tentativo di sopprimere la narrativa palestinese”.

Jessica Buxbaum è una giornalista con sede a Gerusalemme per MintPress News che copre Palestina, Israele e Siria. Il suo lavoro è stato pubblicato su Middle East Eye, The New Arab e Gulf News.

 

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

da qui

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

2 commenti

  • Francesco Masala

    https://www.commondreams.org/news/2021/05/19/tlaib-confronts-biden-over-unconditional-support-israel-amid-gaza-atrocities

    Rashida Tlaib (https://www.labottegadelbarbieri.org/le-nostre-parlamentari-al-congresso-di-washington/ , nella foto con la maglietta verde),

    deputata democratica di origine palestinese, è andata a cercare Biden e gli dice, probabilmente:

    “quegli assassini israeliani stanno per l’ennesima volta massacrando i palestinesi e tu non stai facendo una beneamata minchia” (parole mie, naturalmente)

  • Francesco Masala

    una segnalazione di Alessandra Mecozzi:

    Qualche bel film palestinese forse può attutire la frustrazione la rabbia e l’angoscia per quello che succede in Palestina, in modo particolare per il massacro a Gaza. E ci fanno conoscere meglio quella terra e quel popolo. Ce li offre il regista Elia Suleiman dal 21 al 30 maggio.

    Artisti e artiste palestinesi lanciano un appello, che ci arriva dalla Scuola di Al Kamandjati e dal Conservatorio Edward Said, nostri carissimi amici e amiche

    E un appello da noi, dal Centro Vik di Gaza, dalla rete romana di solidarietà con il popolo palestinese per una raccolta fondi per Gaza

    Tra gli articoli sull’attualità, uno sullo sciopero del 18 maggio ben riuscito, che è costato il posto di lavoro ad alcuni lavoratori palestinesi di Israele.
    Poi una intervista alla scrittrice Suad Amiry (da radio wombat, Buongiorno Palestina che potete ascoltare nel podcast, con una rassegna stampa dedicata alla Nakba, la catastrofe che continua da 73 anni!

    Speriamo che troviate qualcosa, o il tutto, di vostro interesse e gradimento!

    Alessandra

    FILM

    Elia Suleiman trasmetterà gratuitamente tutti i suoi film dal 21 al 30 maggio. Scopri di più qui. https://www.esquireme.com/content/52493-10-great-palestinian-films-to-watch-right-now-for-free
    2. Jenin, Jenin (2002) Jenin, Jenin è uno sguardo doloroso e vitale alla tragica e devastante “battaglia di Jenin”, raccontata interamente attraverso interviste al popolo di Jenin in Palestina, senza narratore. Le interviste, a persone di varie età, sono tra le più memorabili nella storia del documentario arabo. Mohammad Bakri, il regista, è anche un attore acclamato e il padre di Saleh Bakri, protagonista del film candidato all’Oscar 2021 The Present diretto da Farah Nabulsi, che può essere trovato su Netflix.

    Regista: Mohammad Bakri

    3. Cronaca di una scomparsa (1996) L’acclamato cineasta palestinese Elia Suleiman ha fatto il suo debutto dietro la macchina da presa qui in questo dramma del 1996 che segue lo stesso Suleiman, noto nel film solo come “ES”, che torna in Palestina dopo una lunga assenza, alle prese con il suo stato personale e con il stato della Palestina stesso in formato diario visivo. Il film ha iniziato lo stile caratteristico di Suleiman, che si trova a cavallo dell’estrema presenza della mente e di un’irrequietezza sardonicamente distaccata, concentrandosi sulla narrazione visiva nello stile di Jacques Tati e Buster Keaton. È stato acclamato enormemente all’uscita in tutto il mondo, è stato distribuito nelle sale negli Stati Uniti ed è stato dichiarato uno dei migliori film di quell’anno.
    Regista: Elia Suleiman

    4. Paradise Now (2006) Hany Abu Assad ha ricevuto la sua prima nomination all’Oscar nel 2006 per questo ritratto vitale e coinvolgente di due uomini palestinesi il giorno in cui stanno per diventare attentatori suicidi. Il film aveva un livello di empatia che pochi film hanno avuto prima o dopo, mostrando compassione e umanità per personaggi che il mondo aveva definito disumani. Il film ha anche lanciato la carriera internazionale di Ali Suliman, che ha continuato a recitare in alcuni dei migliori film arabi degli ultimi 15 anni tra cui 200 Meters (2020), oltre a blockbuster internazionali come Body of Lies di Ridley Scott e Il sopravvissuto solitario di Peter Berg.
    Leggi la nostra intervista completa con Ali Suliman qui.

    Regista: Hany Abu Assad

    5. Non esistono (1974) Uno dei film palestinesi più importanti mai realizzati, questo classico del 1974 di Mustafa Abu Ali, considerato il padre fondatore del cinema palestinese e una voce estremamente importante nello sviluppo della scena cinematografica palestinese che ha permesso a tutti gli altri film di questa lista di esistere, They Do Not Exist fonde fiction e documentari sulle condizioni dei campi profughi libanesi, sugli effetti dei bombardamenti e sulla vita dei guerriglieri nei campi di addestramento è sia uno straordinario documento storico che un’opera d’arte commovente.
    Regista: Mustafa Abu Ali

    6. Il tempo che rimane Il terzo film di Elia Suleiman dopo l’eccellente Divine Intervention del 2002, attualmente non disponibile per lo streaming online gratuitamente, questo dramma semi-autobiografico che include anche Ali Suliman e Saleh Bakri è il racconto di Suleiman sulla creazione di Israele dal 1948 ad oggi. Il film è stato proiettato a Cannes nel 2009 e ancora una volta ha caratterizzato lo stile caratteristico di Suleiman e l’arguzia incisiva.
    Regista: Elia Suleiman

    8. Sindaco (2020) Sebbene non sia diretto da un palestinese, Mayor, il film del 2020 del regista americano David Osit, è un ritratto unico della vita in Palestina, seguendo il sindaco della città palestinese di Ramallah mentre naviga nella realtà della burocrazia in una città sotto occupazione. A volte cattura il tono irriverente di Armando Iannucci, altre volte è straziante. Ad ogni modo, è diverso da qualsiasi film palestinese che hai visto prima.
    Regista: David Osit

    9. Pietra di Salomone Una commedia nera, Solomon’s Stone segue Hussein, un giovane palestinese, che riceve una lettera dall’ufficio postale israeliano per presentarsi di persona per ricevere un pacco. Deve pagare la somma di $ 20.000 dollari per ritirare quel pacchetto. La curiosità di Hussein di scoprire cosa contiene il pacco lo spinge a vendere tutto ciò che possiede, nonostante il netto rifiuto di sua madre, cambiando le loro vite per sempre.
    Regista : Ramzi Maqdisi

    10. Fragola (2017) Samir, 43 anni, è il proprietario di un negozio di scarpe a Ramallah che non ha mai visto il mare. Decide di intrufolarsi oltre il confine israeliano con altri lavoratori edili palestinesi per realizzare il suo sogno di vedere il mare. Invece, finisce in un cantiere dove Anas, 22 anni, gli chiede di lavorare per lui.
    Regista : Aida Kaadan

    11. Roof Knocking (2017) Questo cortometraggio straziante e acclamato a Gaza segue una donna mentre prepara un pasto per la sua famiglia per rompere il digiuno nel mese di Ramadan, quando una telefonata di un soldato israeliano la avverte che il suo edificio sarà bombardato tra 10 minuti.
    Direttore: Sina Salimi

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