Panopticon digitale

articoli di Piero Cipriano e Alessandro Isidoro Re

Psicopolitica e panottico digitale – Piero Cipriano (ripreso da A-Rivista)

 

Il potere, che riduce tutte e tutti all’obbedienza, è sempre più pervasivo. Ad aiutarlo ci sono le telecamere di sorveglianza, la rete internet, gli smartphone e i social network. E nella società della prestazione e dell’immagine, lo sfruttamento e l’obbedienza non devono più essere imposti, ma sono scelti “liberamente” dagli individui.

“La libertà sarà stata un episodio”, così inizia Byung-Chul Han, Psicopolitica. Han si smarca da Foucault e prova a superarlo.
Foucault racconta un potere che, dal Settecento, non è più “potere di morte” nelle mani di un “sovrano simile a dio”, ma potere disciplinare. Non più potere di morte, ma di vita. Non più potere di morte, cioè di uccidere il corpo, ma potere di disciplinare questo corpo ingaggiandolo in una serie di norme obblighi divieti, riducendo il soggetto all’obbedienza, alla disciplina. La morte precoce impedisce a Foucault di passare dalla biopolitica alla psicopolitica. Di lasciare la biopolitica, ovvero politica dei corpi, per la psicopolitica, ovvero politica delle menti.
Il soggetto moderno non è più il soggetto disciplinare il cui corpo è incastrato in obblighi e in luoghi del sorvegliare e del punire e i cui luoghi della massima punizione sono galere e manicomi. Il soggetto moderno è tenuto a una prestazione, la sua psiche è incastrata in un imperativo performativo, i luoghi della cura, per ottimizzare questa sua necessità prestazionale, sono il lettino dell’analista o lo studio dello psicoterapeuta o la farmacia dello psichiatra.
Il soggetto di prestazione raccontato da Han non ha più bisogno di un padrone perché il suo padrone è lui stesso, lui stesso è padrone e schiavo, sfruttatore e sfruttato. È libero ma libero di sfruttare questo suo eccesso di libertà. Questo suo eccesso di libertà è patologia della libertà. Questa troppa libertà determina eccesso di lavoro autoimposto. Questo eccesso di lavoro senza padrone determina stanchezza. Questa stanchezza, ogni forma di stanchezza, i nuovi codici diagnostici la rubricano ansia o insonnia o tristezza o depressione o bipolarità o anedonia e così via.
Perché il neoliberismo, in quanto evoluzione estrema del capitalismo industriale, sarebbe il modo più efficace per sfruttare la libertà? Perché sfruttare i soggetti, contro la propria libertà, non rende. È lo sfruttamento di soggetti liberi che determina il massimo della resa.
Il neoliberismo è una mutazione del capitalismo, e come tutte le mutazioni è più forte, più resistente agli antidoti, non c’è un vaccino per ora; il neoliberismo è quella cosa per cui ogni lavoratore si appresta a rendersi imprenditore di sé, destinato a sfruttare se stesso finché crepa.
L’esempio del Giappone è paradigmatico. Il Giappone è quintessenza di questa deriva. In nessun posto, come nel Sol levante, i ragazzi vengono allevati, fabbricati, addestrati per essere perfetti imprenditori di sé. Chi non ce la fa, soccombe. Il Giappone è una neo-Sparta. Gli incapaci di essere al passo col proprio autosfruttamento si gettano sotto la metro invece che dal monte Taigeto. I ragazzi, tra scuola del mattino, compiti a casa e scuola serale studiano dalle sette a mezzanotte. Ogni giorno tre adolescenti non reggono questo ritmo e si uccidono. Ogni anno trentamila suicidi. Moltissimi i divorziati. Domina l’astinenza sessuale tra le coppie sposate. Impera la pornografia. Non è praticata la compassione né il perdono. Vige la pena di morte. Non c’è un laureato che non sia sicuro di ottenere un lavoro, ma questo non è un bene, è il contrario, perché non è contemplato il riposo, non parliamo dell’ozio, tale è la competitività, che i lavoratori non prendono le ferie per il timore, al ritorno, di essere demansionati. L’identificazione del lavoratore con l’azienda è totale.
I giapponesi non hanno una parola per la depressione, ma ne hanno una per definire gli adolescenti che per sottrarsi alla società della prestazione si seppelliscono in casa e vivono nella realtà digitale del proprio smartphone: hikikomori; un’altra per definire la morte da eccesso di lavoro: karoshi. Sono diecimila le vittime di karoshi ogni anno – che si aggiungono ai trentamila suicidi – a cui scoppia il cuore (infarto) o il cervello (ictus) per orari lavorativi fino a diciotto ore al giorno. E non basta il conforto religioso, ovvero credere che reincarnandosi, come promette il buddismo, possano prima o poi trovare il meritato nirvana.
Ecco esemplificato un diverso tipo di lavoratore, non colui che si percepisce sfruttato dal padrone, e si incazza, si insubordina, si solleva, magari anela alla rivolta. Il lavoratore – chiamiamolo ancora così – rivoluzionario. No. Questo, il lavoratore di tipo giapponese, è colui che si autosfrutta, e con chi se la può prendere questo lavoratore masochista responsabile della propria stanchezza? Solo con se stesso, se la può prendere. Dunque, non può essere un rivoltoso, ma un depresso. Ecco che se la rivolta era la cifra del lavoratore che viene e si sente sfruttato, e la conseguenza repressiva era la galera o il manicomio, la depressione è la cifra del lavoratore che si autosfrutta, e la conseguenza terapeutica è la psicoterapia, oppure il doping psichico.
Il nuovo manicomio è l’etichetta diagnostica che si appiccica come un tatuaggio indelebile, nuovo manicomio è il farmaco, nuovissimo prossimo manicomio sarà – o già è – il medium digitale. Il panottico di Jeremy Bentham (optikon vedere, pan tutto) rappresentava il carcere perfetto perché consentiva di tenere sott’occhio tutti i prigionieri, rendendo superflua la presenza del sorvegliante. Da questo trae ispirazione il modello di manicomio ottocentesco di Pinel coi suoi padiglioni, con la sua esasperante separazione tra folle e folle, tra normale e anormale, ora il panottico benthamiano sta per essere superato.

Grande fratello? No, il mondo nuovo

Il nuovo panottico è la rete, il medium digitale. Il web 2.0. Quello in cui i servizi sono (per così dire) gratuiti (pagati in realtà a prezzo della propria libertà). Rete in cui entriamo (per rimanere trappolati) senza costrizione. Dove non solo non c’è separazione, non solo è auspicata e incentivata la comunicazione, non solo c’è esibizione spontanea perfino denudamento di sé. I nostri dati sono condivisi, messi a disposizione, senza coercizione. Giorno dopo giorno immettiamo in questo mare digitale parti che ci appartengono, la nostra identità, ottenendo lo scopo di una sorveglianza reciproca. Ognuno è sotto lo sguardo di ogni altro. Questo significa il panottico digitale.
George Orwell prefigurava il grande fratello, la sopraffazione da parte di un dittatore, di uno stato dispotico a immagine dell’URSS. Temeva che nessuno avrebbe più potuto leggere libri, perché sarebbero stati banditi. Invece si è affermato il mondo nuovo dell’altro grande distopista, Aldous Huxley. Dove le persone adorano la tecnologia che libera dal pensiero, le informazioni non sono bandite ma c’è un’orgia di dati per cui è vera ogni cosa e il suo contrario. Le persone non vengono assoggettate con le punizioni ma coi piaceri.
Prendiamo Black Mirror. C’è un episodio (Caduta libera) in cui lo smartphone diventa l’oggetto di controllo sugli altri. Il like è l’indice di gradimento. Sotto una certa soglia di like il punteggio, che rappresenta quanto vali, non ti consente neppure di partecipare al matrimonio della tua migliore amica. Ebbene questo tipo di società già non è più distopia perché si appresta a essere realizzata, per ora soltanto in una città della Cina, dal 2020 in tutta la Cina. Ma ci torno tra poco. Prima voglio dire che non si deve pensare che il manicomio digitale non sia capace di embricarsi con il manicomio chimico e col classico manicomio concentrazionario alla Bentham o alla Pinel. I diversi livelli di manicomio sono in grado di convivere. I reparti bunker con le fasce convivono con diagnosi e farmaci.

Se si semplifica il linguaggio, la coscienza si restringe

Il manicomio concentrazionario si embrica con quello diagnostico/chimico e adesso con quello digitale. Come nel Proteus Digital Health che la Food and Drug Administration sta prendendo in considerazione. I farmaci che devono essere immessi nel corpo di chi ne ha bisogno sono gli antipsicotici di ultima generazione (i più costosi). Proteus inserisce un sensore attaccato alla compressa, sensore ingeribile, che comunica con un altro sensore inserito sottopelle, di modo che il medico prescrittore dal suo tablet possa controllare l’intero percorso del farmaco, dall’ingestione all’assorbimento. Ciò per contrastare la riluttanza delle persone con disturbo psicotico ad assumere gli antipsicotici, o l’assunzione a dosaggi inferiori alla prescrizione. Questo partendo dall’assunto (non provato) che non ingerire (o iniettare) gli antipsicotici porti a ricadute, con aumento dei costi sanitari dettati dai ricoveri in questo modo evitabili.
Torniamo a Black Mirror. Il titolo all’episodio è Arkangel. Arkangel è un microchip impiantato nel cervello dei figli. Per mezzo di un tablet, il genitore può vedere ciò che vede il figlio, e attivare una sorta di filtro per oscurare le immagini violente, spaventanti, stressanti. Il chip Arkangel è ciò che il sistema Proteus (o qualcosa del genere) potrebbe fare tra qualche anno. Un meccanismo per cui tutto accade per via digitale. Lo psichiatra fa la diagnosi. Prescrive il farmaco. Il chip controlla. Il paziente non può più trasgredire. Questo è un mondo futuro, dove il cittadino modello è una sorta di androide, l’androide descritto immaginato narrato da Philip Dick, il cittadino modello dei regimi totalitari.
“Vivremo in una democrazia in cui”, riprendo le parole di Han, “la libertà sarà stata un episodio”. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. Si immagini un collegamento tra il sistema Proteus che monitorizza l’assunzione del farmaco, e il profilo Facebook della persona stessa. Prendere il farmaco premiato dal like, non prenderlo sanzionato dal dislike. Essere puntuali nell’assunzione premiato da decine di love o haha oppure wow, il disattendere l’assunzione farmacologica sanzionato dal sigh o peggio dal grr. Sembra ridicolo a scriverlo, eppure stiamo già facendolo. Una specie di idiot savant si è inventato questo social network, e di anno in anno come un dio-bambino inventa nuovi codici, nuovi lemmi, nuove semplificazioni per narrare le relazioni. Sembriamo avviarci verso una semplificazione lessicale ed emotiva che rassomiglia alla neolingua immaginata da Orwell in 1984, la semplificata neolingua incaricata di sostituire l’archilingua perché l’archilingua è articolata, complicata, la neolingua è semplificata, funzionale a semplificare il pensiero.
Se hai sempre meno parole per dire le cose, immagina Orwell, la coscienza si restringe. E pure i testi scolastici fascisti o nazisti erano dotati di un lessico semplificato, apposta per semplificare il pensiero. D’altro canto, sottolinea Han, in questo panottico digitale a cui ci siamo, nel volgere di pochissimi anni, abituati al punto da non saperne più fare a meno, per un verso sembra incentivata la comunicazione e lo sproloquio lessicale. Però c’è anche un invito alla sintesi e alla semplificazione, scrivere post laconici ed essenziali la cui reazione o gradimento viene semplificata da quattro o cinque stupide emoticon: lovegrr o wow – e non vi sarà sfuggito che nel padroneggiare questa stupida neo-lingua i nuovi governanti sulla scena mondiale sono dei veri talenti.

Facebook è un manicomio digitale che produce psicosi

Ecco perfezionato il dispositivo panottico di Bentham. La sorveglianza, reciproca, che ognuno si fa, in questo panottico, è a 360 gradi. Un panottico gigantesco, oltretutto. Facebook conta oggi più di due miliardi di iscritti che accedono al panottico più volte al giorno, ha seguaci più del Cristianesimo e dell’Islam. È una chiesa tutto sommato più influente di tutte le altre. I cui praticanti sono continuamente connessi o raggiungibili per mezzo dello smartphone. Smartphone che tocchiamo in media 2617 volte ogni giorno. Non c’è rosario bibbia o corano che venga compulsato con questa frequenza.
Facebook è una chiesa che per amen ha un like. Un like come primitivo sistema di gratificazione a breve termine, a base di dopamina. Fatemi semplificare e fare il riduzionista, adesso. Questo è il sillogismo che propongo. La psicosi, secondo la teoria più accreditata, sarebbe biochimicamente causata da un eccesso di dopamina, il neurotrasmettitore edonico (del piacere). I like, si dice, aumentano la dopamina. Gratificazione a breve. I like, dunque, producono psicosi. Come dire che troppo piacere fa impazzire. Ecco. Il manicomio 3.0, il manicomio digitale, produce psicosi. Non è un caso che i due che nel 2009 hanno ideato il bottone del like – Justin Rosenstein e Leah Pearlman – si siano disconnessi.
Non potranno sottrarsi i cinesi, al panottico digitale. Ora apro una parentesi sui cinesi. Innanzitutto, i cinesi sono ormai i proprietari delle terre rare. Guillaume Pitron, ne La guerra dei metalli rari, racconta come, per gli smartphone che ci portiamo tutti dietro, per i computer con cui sto scrivendo questo lungo articolo contro il panottico digitale, stiamo saccheggiando elementi quali gallio selenio tantalio litio germanio antimonio. Batterie di smartphone fatte di cobalto che si estrae in Congo. I componenti elettronici fatti con gallio che si estrae in Cina. Schermi fatti con ittrio indio disprosio. Stiamo (ecco la novità) assistendo a un ennesimo cambiamento di energia. Dal carbone, di cui era dominus l’Inghilterra, al petrolio, dominato dagli Stati Uniti, alle terre rare, dominate adesso dalla Cina (la maggior parte delle terre rare sono estratte in Cina o, soprattutto in Africa, dalla Cina). Anche se il digitale, internet, la rete, prodotta dalle tecnologie possibili con le terre rare, avranno breve vita, perché pure le terre rare, come il petrolio, a un certo punto si esauriranno.
Intanto però che depaupera queste risorse, la Cina sta raccogliendo, meglio di tutti, la lezione di Facebook e del web 2.0. In Cina è iniziato il rating delle persone. Comincia in un aeroporto, Shenzhen, il Sistema di Credito Sociale dei passeggeri. Alcuni passeggeri che accettano di far parte del programma hanno una card che ne quantifica la reputazione. Chi litiga in aereo abbasserà il suo punteggio e farà controlli più indaginosi, chi indica un bagaglio incustodito aumenta il suo punteggio e salta i controlli. Un’intera cittadina vicino Pechino, Rongcheng, 700.000 abitanti, da quasi due anni ha iniziato il rating individuale che si basa sui comportamenti civici. Parcheggi male perdi punti, fai volontariato o doni il sangue ne guadagni. Come in Caduta libera, di Black Mirror. Uguale. Il rating è pubblico. Tutti sapranno il punteggio di ognuno. Vergogna e orgoglio muoveranno le condotte. Chi ha un basso rating, e non si muove a normalizzarlo con beneficienza o lavoro gratuito, non potrà accedere alle migliori scuole o ai migliori hotel, per dire.
I cinesi con la loro fama di copiare, imitare, falsificare, stavolta stanno realizzando le distopie meglio di tutti gli altri. Il Sistema di Credito Sociale applica ciò che la rete, il medium digitale, già realizza da qualche anno. Fatevi un po’ di ego surfing su Google, e avrete lo specchio di ciò che valete. Della vostra reputazione. Il Sistema di Credito Sociale cinese è nient’altro che una patente a punti che attesta quanto tu sia un buono o un cattivo cittadino (secondo i parametri, si capisce, di quello stato). E così i cinesi, i grandi falsificatori, adesso ci stanno regalando (davvero) una falsa esistenza.

Idiotismo e internamento digitale

Dopo aver visto l’episodio di Black Mirror (non sapevo ancora che i cinesi erano già in Caduta libera) ero così di cattivo umore che andai, con mia moglie, a bere una cosa sotto casa, a largo Spartaco (bisogna sempre scegliere luoghi dai nomi evocativi, in questi casi). Al tavolo accanto due si facevano un selfie, e di certo ero venuto pure io nella foto, visto che miravano nella mia direzione. Poi ho visto che lo postavano su Facebook, avranno indicato il luogo, l’ora. Ero tentato di oppormi, non fatelo, di sicuro sono venuto pure io, volevo dir loro, avrò dei diritti? In un clic la mia uscita era stata messa a protocollo, era stato certificato che alle 22.30 di quel giorno ero in largo Spartaco con mia moglie, c’era la foto e tutto. Vedi? Le dicevo, siamo fregati. Ora tutti sapranno che siamo usciti, che io e te ci vediamo, usciamo insieme, che abbiamo una relazione, ma ti rendi conto? E lei: lo vedi? faccio bene io, che non sono su Facebook, che resisto ai social network tutti: Twitter, Instagram eccetera.
Ma sei un’idiota allora! Ecco perché ti salvi! Davvero, non ti offendere, non sto scherzando. Sai che dice il filosofo Han? Che solo se sei un idiota ti salvi. “Una funzione della filosofia è giocare a fare l’idiota”, dice. Insomma, la filosofia, è fatta da idioti. “Ogni filosofo che realizza un nuovo idioma, un nuovo linguaggio, un nuovo pensiero sarà necessariamente un idiota”. Socrate, che afferma di sapere di non sapere, è un idiota. Oggi – ancora Han – “la figura dell’outsider, del folle o dell’idiota sembra essere scomparsa dalla società”, perché “la connessione digitale”, l’esserci di nostra sponte internati in questo panottico digitale, ha aumentato straordinariamente la “coercizione alla conformità”. L’idiotismo, la riluttanza a questa corsa all’internamento digitale, è forse l’ultima “pratica di libertà” rimastaci. L’idiota è colui che non si connette e, dunque, non si informa al modo dell’informazione totalitaria della rete o dei social. È il non trasparente, colui che non sciama nella rete.
(Adesso mi viene da pensare che forse i più idioti di tutti, i più resistenti alla psicopolitica ovvero all’assoggettamento delle menti, sono gli psiconauti, i Magellano esploratori dei propri oceani psichici, coloro che, con gli psichedelici, si creano una propria rete, senz’altro più ecologica di quella digitale, e più potente perché fatta di stati di coscienza altri, espansi, dove gli psiconauti non saranno mai tracciabili, al contrario degli internauti, mai raggiungibili, mai catalogabili, in nessun Big Data, in nessun panottico digitale. Scrive, a questo proposito, Edoardo Camurri, nella prefazione a Moksha di Aldous Huxley: “Per resistere al mondo algoritmico del deep learning digitale bisogna sapersi rendere irriconoscibili, inclassificabili, imprevedibili. Occorre avere, cioè, un cervello capace di mettere in scacco l’algoritmo che è programmato per diventare noi; serve sviluppare un’intelligenza umana in grado di sopravanzare il passo dell’intelligenza artificiale. Bisogna rendersi unici.”
Unici (direbbe Stirner), indiagnosticabili (suggerisco io), idioti (sostiene Han).

La nuova psicologia delle folle

In questi giorni, mesi, anni, tutti, nei social, come pecore digitali, belano intorno ai soliti argomenti virali. È la nuova psicologia delle folle. Siamo oltre “l’età delle folle” descritta da Gustave Le Bon, siamo nell’epoca del gregge digitale, o per dirla sempre con Han, nell’epoca dello sciame digitale. Ma lo sciame non è folla. I connessi sono soli, pur sentendosi insieme. L’uomo digitale resta solo, hikikomori schizoide, pur sentendosi parte delle cinquemila amicizie contatti (la propria bolla) che il social mondiale ti mette a disposizione. I greggi digitali, gli sciami digitali non sanno marciare, non sanno organizzare rivolte, sanno al massimo indignarsi per la causa del momento – i migranti, il riscaldamento globale, i vaccini, e così via – sanno indignarsi mediante quella scarica emotiva che rapidamente si esaurisce, la shitstorm, la tempesta di merda.
L’idiota disconnesso non conosce shitstorm. Non ne viene contaminato. Non ne subisce gli schizzi. Schizzi tossici, infettivi. Che danno colera. Peste psichica digitale (canta Vinicio Capossela). L’idiota disconnesso, non sa, non bela. L’idiota disconnesso, non comunica, non è raggiungibile. L’idiota a-digitale è apolide. È in una sorta di esilio. Potrebbe perfino non esistere, nonostante l’anagrafe. È in una dimensione pirandelliana. L’idiota non si farà prendere dall’imperativo della prestazione, la sua idiozia è un antidoto alla stanchezza, quindi è immune dalla depressione.

Ma è l’idiota il vero uomo in rivolta

È l’idiota, nell’era della trasparenza e del panottico digitale, il soggetto in salute. L’idiota è il vero uomo in rivolta.

da qui

 

 

BENVENUTI NELLA VERA PANOPTICON REVOLUTION – Alessandro Isidoro Re  (ripreso da http://www.quadernidaltritempi.eu)

 

Ogni disciplina ha il suo tormentone: la filosofia si chiede dall’alba dei tempi se esista davvero un libero arbitrio; la fisica s’interroga sulla nascita dell’universo; la giurisprudenza, spesso, si domanda quale debba essere la funzione del carcere.
Questo dilemma fu uno dei crucci di Jeremy Bentham: filosofo e giurista inglese, campione di originalità (potete osservare tutt’ora il suo cranio imbalsamato presso lo University College di Londra, per suo volere testamentario) vissuto tra diciottesimo e diciannovesimo secolo ed esponente di spicco dell’utilitarismo giuridico: indirizzo che vede la pena come un male (minore) capace di evitare un altro male (peggiore).
Bentham ritenne infatti che fosse necessario punire solo ciò che era utile punire e con il minor sforzo possibile. Per questa ragione, ideò un sistema di sorveglianza penale malignamente perfetto. Il suo nome dice già tutto: Panopticon – che in greco antico significa “Ciò che vede ogni cosa”…L’idea che sta alla base di questa utopia penale è che un solo sorvegliante, all’interno di un carcere, possa controllare tutti i detenuti senza che quest’ultimi possano sapere se in un dato momento siano osservati oppure no. Questo principio, come detto, risponde alle esigenze di quell’utilitarismo giuridico, propiziato proprio da Bentham.

 

Il funzionamento di questo meccanismo teoricamente infallibile, infatti, concentra tutto lo “sforzo coercitivo” in un solo agente dell’ordine (risparmiando cospicue risorse di personale) – il quale occupa la torre centrale della struttura, da cui si dipana, in modo circolare, tutta la struttura carceraria contenente le celle dei detenuti – in una sorta di proto Grande Fratello di stampo penale.
Il concetto di Panopticon – collegamento diretto con la mitologia greca, che richiama il nome del gigante dai cento occhi Argo Panoptes – è divenuto presto il simbolo del controllo invisibile e ubiquo da parte di un’entità esterna.
Michel Foucault e lo stesso George Orwell hanno preso spunto dalla teoria di Jeremy Bentham per costruire le loro dissertazioni filosofiche e narrative: l’uno disquisendo della cosiddetta “Societé panoptique” nella terza parte del preclaro saggio Sorvegliare e punire (1975),l’altro dipingendo l’immortale quadro della più famosa delle società distopiche con il suo romanzo 1984.

Salto nel tempo: marzo 2018. 

Di social e società panottici ne hanno disquisito più o meno tutti.
Da Raffaele Alberto Ventura, noto anche col suo social nom de plum Eschaton, che preconizzò anche il nostro totale disinteresse verso la protezione delle informazioni digitali in cambio di visibilità dopata; al Guardian, più recente (2015), dove si parla di “Societé panoptique” all’ingresso dell’era dei big data; fino a Edward Snowden (che di controllo sociale se ne intende), che ha da poco definito Facebook “una società di sorveglianza”. Perché scriverne ancora, dunque? Una premessa e due semplici risposte.

La premessa
Per chi avesse abitato in una romita spelonca nell’ultimo mese, è giusto ricordare lo scoppio del caso Cambridge Analytica. “Cambridge Analytica” come si legge su Wikipedia “è una società di consulenza britannica che combina il data mining, l’intermediazione dei dati e l’analisi dei dati con la comunicazione strategica per la campagna elettorale”.
Fondata da Steve Bannon, ex capo stratega del presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, Cambridge Analityca è stata accusata di aver inficiato il regolare corso democratico delle ultime elezioni presidenziali americane influenzando il voto del popolo statunitense attraverso i dati di circa 70 milioni di utenti Facebook…

 

Come spiega bene su Linkiesta Andrea Daniele Signorelli, il “cavallo di Troia” è stato un banale test della personalità ideato dal ricercatore dell’Università di Cabridge Aleksandr Kogan, disponibile su Facebook, e che ha improvvidamente attirato l’attenzione di un gigantesco numero di persone. Per accedere al test, infatti, era obbligatoria la spunta su alcune richieste – come l’accesso alle informazioni digitali contenute sul proprio profilo social, spalancando così le porte altresì sui dati dei propri amici. Dati che, in seguito, Kogan ha offerto a Cambridge Analityca. Il grosso problema, naturalmente, è che Mark Zuckerberg (e quindi Facebook, come ha riferito il Guardian) sarebbe stato a conoscenza dell’operato di Cambridge Analityca ma non avrebbe fatto nulla (e non sarebbe l’unica azione ambigua da parte dell’imprenditore di White Plains, come evidenzia Federico Mello nel suo recente Il lato oscuro di Facebook) per impedire questo massiccio utilizzo di dati terzi.
Almeno fino alla fuoriuscita del caso per opera del whistleblower di Cambridge Analityca Christopher Wylie. Ed è soltanto di oggi (5 aprile 2018) la notizia che Facebook avrebbe “tagliato” le informazioni digitali degli utenti forniti dai cosiddetti “data broker”, come ben spiega Carola Frediani in un recentissimo articolo per AGI. Ma in questo caso – come ha sottolineato lo stesso Signorelli – a noi interessa l’atteggiamento del singolo: come sempre più spesso accade, infatti, la fiumana di utenti attratti da quel succoso test della personalità non ha letto le condizioni propedeutiche per il lubrico passatempo virtuale. 
Tutto e subito, pur di condividere; il gioco valeva la candela.

Le risposte
Primo, questo “scandalo” Cambridge Analytica ha portato sotto l’occhio bulimico del pubblico mainstream ciò che prima era diletto e castigo (e pure foraggio) dell’Intellighenzia Social.
Secondo, sempre l’affaire Cambridge Analytica sposta questo filone panottico tecnoparanoico a un altro livello. Non più Panopticon 2.0 o Reloaded ma (come recita la trilogia di Matrix che ha compiuto da poco 19 anni e come suggerisce Ventura/Eschaton): Panopticon Revolution.
Una “rivoluzione panottica” che sta nell’avere restaurato il vetusto e monolitico Panopticon benthamiano in un carcere pieno di specchi; specchi che riflettono la nostra immagine su altri specchi in un Infinite Jest dove tutti guardano tutti e dove anche il guardiano stesso (come suggerisce ancora Ventura) è osservato da un occhio centrale trascendente, un po’ Sauron un po’ Big Brother, che è in realtà la summa di tutti questi occhi. Vi ricordate del gigante Argo Panoptes? Ecco. Noi siamo il gigante, e siamo anche gli occhi. La spaventosa e ancestrale domanda di Giovenale – “Quis custodiet ipsos custodes?” “Chi guarderà i guardiani?” (contenuta nella Satira VI, che a sua volta riprende un pensiero affine del Platone della Repubblica) – trova, insomma, un’icastica risposta: i guardiani stessi (“ipsos custodes”) guarderanno gli altri guardiani.

 

Scriveva Zygmunt Bauman: “In un mondo in cui cose volutamente instabili sono la materia prima per la costruzione di identità necessariamente instabili, occorre stare costantemente in guardia” (Bauman, 2014). Cosicché, infine, non ci saranno più guardiani… Come ben scrive Simone Cosimi in un florilegio pubblicato su Wired dei contributi più significativi del sociologo polacco, (celebre per la sua teoria della società liquida): “La novità è che questo spazio del controllo ha perso i muri. E a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le «vittime» contribuiscono e collaborano al loro stesso controllo”. Se tutti siamo guardiani non esiste più nulla da guardare. Perché, come chiosa il preconizzante articolo di Ventura, “dello spazio privato non c’importa più nulla, perché non ci serve più a nulla, perché non abbiamo più nulla da nascondere”.
Tuttavia, questa fuga dalla criptoesistenza epicurea (sparuti ormai i seguaci del “lathe biosas”, visti ormai come alieni) che Ventura ammanta di malinconia non è la tragedia esistenziale del nuovo millennio, bensì (con spirito più affabile, quasi una sprezzatura à la Baldassarre Castiglione) l’ineluttabile Zeitgeist della nostra epoca.
Un coro di milioni di voci giubilanti o querulanti che grida a sé stesso ciò che non vuole ammettere e ciò che invece sa fin troppo bene. Abbiamo bisogno, come un gregge assuefatto, delle scariche di dopamina rilasciate a ogni like, commento, menzione, post, re/tweet o condivisione social. Come recita un articolo del Financial Times (altra profezia risalente a cinque anni fa), siamo diventati completamente dipendenti dalle nostre appendici digitali. Ne abbiamo “semplicemente” bisogno. Anche a costo di immolare la nostra vita privata, che privata più non è da tempo, sull’altare della Panopticon Revolution.
Siamo noi stessi che cediamo i nostri dati a chicchessia senza preoccuparci del dopo, e lo facciamo tutti, perché ciò che intimamente ci interessa più di tutto è essere visti, letti, osservati, condivisi; qualunque cosa, (anche scrivere questo articolo, granello di sabbia nel deserto), pur di sfuggire all’anonimato. Un anonimato che è la vera povertà dell’Annus Domini 2018 – inizio della Panopticon Revolution.

letture

  • Jeremy Bentham, Panopticon, Marsilio, Venezia, 2002.
  • Zygmunt Bauman-David Lyon, Sesto. potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, Bari, 2014.
  • Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Parte Terza, Einaudi, Torino, 2005.
  • Federico Mello, Il lato oscuro di Facebook, Imprimatur, Reggio Emilia, 2018.
  • George Orwell, 1984, Feltrinelli, Milano, 2002.
  • Giovenale, Saturae, Feltrinelli, Milano, 2013.
  • Baldassare Castiglione, Il libro del cortegiano, Garzanti, Milano, 2007.
  • Zygmunt Bauman-David Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2014.

visioni

  • Lana & Lilly Wachowsky, The Matrix Trilogy, Warner Bros. Pictures, Stati Uniti d’America/Australia, 1999-2003.

da qui

Redazione
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