«Panorama» di Motus-LaMama

recensione di SUSANNA SINIGAGLIA

 

È uno spettacolo frizzante, originale e a tratti scherzoso ma anche commovente, prodotto e presentato dai Motus in collaborazione con il LaMama, famoso teatro dell’East Village di New York. Ideazione e regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò.

Inizia con una serie di audizioni, come a un casting, quando il regista ti pone di fronte alla temibile formula di rito: presentati. Infatti, l’incipit di queste audizioni consiste proprio nella fatidica domanda “who are you, chi sei?” poiché oggetto della performance è il nomadismo, la migrazione in tutte le sue forme e perciò anche delle identità. Con tono a volte incerto o pensieroso, imbarazzato o confuso, emozionato o rotto dal pianto i performer si misurano con il racconto di sé, della propria identità composita, stratificata, sfuggente. Sono tutti arrivati a New York da Paesi anche molto lontani sia per distanza fisica sia per distanza culturale. Di alcuni sono i genitori a essere emigrati, come ci spiega una bionda protagonista che ci dice – dallo schermo sistemato al centro della scena – d’essere nata dall’unione di un’ebrea russa e di un coreano, e mentre lo dice le spuntano le lacrime agli occhi. Lei però non è presente sul palco, come altri che si succedono sullo schermo. Lo sono invece Richard Ebihara, di origine cinese; l’afroamericana Valois Mickens

e la turca Zishan Ugurlu, attrice e regista del La MaMa; Maura Nguyen Donohue, di Saigon, che da bambina aveva seguito la madre, innamorata di un soldato americano, negli Stati Uniti;

il coreano Eugene the Poogene

e John Gutierrez di famiglia dominicana, l’unico newyorkese del gruppo, cresciuto in un ghetto del Bronx (vedi immagini sotto il titolo). Compaiono uno alla volta sul palco e sullo schermo, anzi sugli schermi, perché ce ne sono altri due più piccoli sistemati ai lati del palco: sull’uno si riproduce l’immagine del performer che parla o a volte di quello che l’ha preceduto, sull’altro si alternano invece immagini varie un po’ indecifrabili.

All’inizio la performance ha il ritmo lento dell’introspezione; poi, mano a mano che gli attori si raccontano ed entrano in relazione con lo spazio – con le immagini e fra loro – cresce, si espande. È come se i performer si approprino poco a poco degli elementi che li circondano e si sentano via via più liberi di esprimersi fino a diventare padroni della scena e dello spettacolo stesso, di cui si fanno in qualche modo anche registi riprendendo a turno la performance dei compagni la cui immagine va a riflettersi sugli schermi-specchio. Ma non sempre l’immagine che vi compare è quella ripresa sul palco. In coerenza con la migrazione dell’identità, a volte sullo schermo vediamo i performer presentarsi sotto spoglie diverse come Valois Mickens, che vi si affaccia in parrucca biondo cenere e capelli ricci corti mentre in carne e ossa ha treccine lunghissime color rame.

Ci racconta delle discriminazioni da lei subite nella sua lunga vita (ha 73 anni) ma si esibisce anche come cantante e danzatrice, ci mostra il seno nudo su pantaloni a zampa di elefante carichi di ninnoli e pendagli.

Oppure, come il giovane Eugene the Poogene che mentre ci parla di sé, arrivato a New York da appena un anno spinto dal suo sogno d’artista, compare sullo schermo sdraiato insieme a un suo omologo nella stessa postura ma dalla parte opposta, evocando così una versione ilare delle solenni figure che ammiriamo negli affreschi rinascimentali.

I performer si avvicendano sul palco a volte esibendosi in assoli, a volte a coppie o in gruppo. Assistiamo a una capoeira scatenata di John Gutierrez e al discorso pieno di passione di Zishan Ugurlu sull’arte, un’arte che infonde leggerezza e grazia alla sua mole imponente trasfigurandola, e conferendole una formidabile capacità di presenza scenica. In altri due camei, Maura Nguyen Donohue esegue uno spogliarello giocoso e, sostenendo che ai tempi di Trump ci si può salvare solo facendo l’amore, la divertente e ironica simulazione di un amplesso con un cuscino gonfiabile che, all’apice dell’orgasmo, ploff!, scoppia.

È una girandola di storie, che ci offre lo scorcio “panoramico” di una società difficile ma aperta e imprevedibile come può essere quella newyorkese. Dopo aver visto al cinema tanti film ambientati nella metropoli americana, credo d’aver captato per la prima volta alcune scintille del suo spirito, così diverso e lontano da quello di gran parte degli Stati Uniti.

Lo spettacolo, ideato e diretto da una coppia di italiani cosmopoliti, arriva a proposito nel nostro Paese, in un momento in cui si vorrebbero riproporre e imporre su vasta scala rigide identità di genere, nazionalità, cultura tenendo fuori dalla porta la speranza di chi non vuole arrendersi alle barriere e ai muri.

http://www.triennale.org/teatro/motus-panorama/

https://www.motusonline.com/panorama/

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *