Paradisi perduti di Ursula Le Guin
Squillino le galassie e cantino i neutrini: finalmente tradotto un (breve) romanzo di fantascienza dell’anarco-femminista-narratrice che sconvolse tutti i territori del fantastico. Evviva, evviva, evviva. Ma occhio anche ai due“post scriptum”. (db)
Giunge in ritardo di 11 anni (però arriva e dunque alleluja) «Paradisi perduti» di Ursula Le Guin. La più arzilla vecchietta del fantastico non finisce di stupire: premiata, spiazzante, poliedrica, infaticabile. Di lei si potrebbe dire che ci rivela mondi certamente già esistenti ma invisibili finché la sua “lente” non ci si posa sopra: come un microscopio, un macroscopio (non esiste ma sarebbe necessario di questi tempi) o un telescopio, Le Guin ci permette «una percezione su scala differente», ci consente di viaggiare nello spazio ma anche di penetrare in una «tenerezza dolorante», di veder nascere nuovi angeli (ma saranno degni di quel nome?), di decidere se esplorare un pianeta ignoto, di dare nuovi nomi alle cose.
Dopo fantasy e altro, con «Paradisi perduti» (Delosbooks: 144 pagine per 11,80 euri nella traduzione di Salvatore Proietti che cura anche la eccellente post-fazione) Le Guin torna alla fantascienza classica. Ma in definitiva che importanza hanno le etichette quando il cibo è ammaliante, ricco di sali nutrienti per il corpo e la mente?
Una gigantesca astronave terrestre. Autosufficiente. Perfetta, nei limiti del possibile. Da 120 anni in viaggio verso un pianeta che gli scienziati ritengono “probabilmente” adatto a noi umani. A bordo della Discovery migliaia di passeggeri che all’inizio sono spinti da sete di conoscenza e d’avventura ma anche dal desiderio o dall’urgenza di lasciare il pianeta originario sempre più mal messo. Ma i loro figli e nipoti – cresciuti in un mondo chiuso – crederanno all’origine e alla meta del viaggio? O si tratta solo di leggende magari pericolose?
Dall’astronave escono solo in pochi per «eva» (Extra Vehicular Activity) mentre la stragrande maggioranza degli abitanti – circa 4 mila, il numero considerato ottimale dai pianificatori – non ha alcuna percezione dell’esterno. In questo scenario, che l’autrice cesella di persone, amori e conflitti credibilissimi, si inseriscono due novità. La prima – annunciata dal titolo e ancor più dall’immagine in copertina – è l’arrivo degli Angeli: una religione (o una filosofia?) che si sviluppa sulla Discovery e in breve diventa maggioritaria. Fra l’altro gli Angeli considerano il viaggio più importante della destinazione. Dunque quando, dopo 200 anni, la Discovery arriverà alla meta… quante persone (e preparate come) vorranno scendere sul nuovo, ignoto mondo? Gli Angeli non sembrano interessati. La seconda novità riguarda il viaggio – non è corretto svelarla – e rende appassionante il finale o per meglio dire i molti sentieri nei quali il romanzo si dipana.
L’anno scorso da «Paradisi perduti» il compositore Stephen Andrew Taylor e la librettista Marcia Johnson hanno tratto un’opera di cui si dice un gran bene, chissà se la vedremo in Italia.
Intanto godiamoci questo breve romanzo che rinnova alcuni temi della migliore fantascienza e ci consente di assistere, con punte di realismo sorprendente, a un grande esperimento. Cosa accade a 4mila persone nutrite e curate da una mamma-astronave? Quanta libertà c’è nel far sesso e nel procreare all’interno di un gigantesco “numero chiuso”? Dove sta il potere? Chi controlla chi? E soprattutto le generazioni di mezzo (mai vista la Terra e troppo lontane dal pianeta-destinazione) che identità assumeranno? Quale ruolo giocheranno la scienza onnipresente e la religione che sembra, all’inizio, marginale?
La trama è ottima ma importante è chi la tesse. Ursula Le Guin si conferma qui all’altezza dei suoi momenti migliori.
SOLITA NOTA
Questa mia recensione è uscita (al solito: parola più, parola meno) pochi giorni fa sulle pagine culturali del quotidiano «L’unione sarda». (db)
POST SCRIPTUM 1
Cosa offre l’edicola in questi giorni? Urania rilancia in pompa magna («per il primo dei suoi Capolavori») «La compagnia del tempo» di Kage Baker – del 1997, titolo originale «In the Garden of Iden», traduzione di Cecilia Scerbanenco – che sarà per un mese nelle edicole (276 pagine per 4.90 euri). Secondo la scheda questo romanzo «ha cambiato la nozione di viaggio del tempo». L’ho riletto e la seconda impressione è come la prima: trama scorrevole, ben congegnati dialoghi e personaggi ma nell’insieme tutto deja vu, con punte di banale. Spiacente, i capolavori, anche recenti, sono altri. (db)
POST SCRIPTUM 2
Vedo che in rete c’è un rilancio per «Il presidente nero» (Controluce edizione) di Monteiro Lobato del 1926. Ne avevo accennato in blog – per la precisione qui Philip Dick al capezzale di Obama, il 25 gennaio 2011 – ma volevo che uno scrittore brasiliano ne riparlasse: dei suoi meriti, delle profezie azzeccate (tele-lavoro e voto telematico per dirne due) ma anche di quelli che a me sono sembrati «orrendi contenuti razzisti». Così ho chiesto a Julio Monteiro Martins che mi ha risposto gentilmente “non ce la faccio a mandarti un articolo ma una puntualizzazione mi sembra utile”. Eccola.
«Caro Daniele, Monteiro Lobato era un grande scrittore brasiliano del suo tempo, i primi decenni del Novecento. Questo “del suo tempo” è fondamentale per leggerlo consapevolmente, senza voler trapiantare nel Duemila, e giudicare ideologicamente, i testi scritti nella stessa epoca in cui Lombroso era incensato come genio in Italia, l’epoca di Spencer, di Churchill, di Kipling, tutti grandi uomini che avevano delle “razze” diverse un’idea distorta e superficiale, ma che arrivava (nel lontano Brasile, poi) con il sigillo e le benedizioni della scienza ufficiale dell’epoca – la frenologia, le teorie razziali, ecc – insomma il frutto dei pensatori considerati più “avanzati” nel passaggio del secolo.
Con intelligenza, Monteiro Lobato giocava con questo pensiero, ironizzandolo, e questo va in suo favore: non si troverà mai nella sua opera una dichiarazione razzista seria, rabbiosa. Ma per il lettore di oggi, sì, probabilmente alcuni suoi testi possono sembrare razzisti.
Mi domando: come esigere da Santo Agostino o da Svetonio che considerassero il giro della Terra intorno al sole e non il contrario, se al loro tempo non erano ancora nati Copernico, né Galileo, né Kepler? Diceva Ortega y Gasset: “L’uomo è l’uomo e le sue circostanze”. E io aggiungerei: l’uomo è l’uomo e i valori dominanti del suo tempo.
Vorrei ricordare anche che uno dei grandi personaggi di Monteiro Lobato, una signora buona come il pane e amata dai bambini, che viveva e cucinava nella fattoria Sítio do Picapau Amarelo, Tia Nastácia, nel romanzo per ragazzi “Reinações de Narizinho”, era una donna nera. Quindi, razzista convinto Lobato sicuramente non era. E poi, diciamolo pure, come può un brasiliano essere razzista? Abbiamo tutti “un piede in cucina” come diceva Fernando Henrique Cardoso (compreso lui stesso, chiaramente). Ciao, Julio».
Molto interessante e senz’altro giusto, perciò grazie Julio. La discussione resta aperta anche perchè in ogni tempo ci sono, per fortuna, uomini e donne che vivono controcorrente, cioè si oppongono alle idee dominanti del loro tenpo. Ed è grazie a loro che poi, in ogni campo, cambiano i paradigmi. (db)
Bell’articolo. Decisamente invogliante all’aquisto.
refuso: acquisto.