PD-PDL, uguali con diverso nome

Separati fuori e uniti in casa, nelle segrete stanze decisionali.

di Mauro Antonio Miglieruolo

Esiste ancora differenza visibile o che abbia un qualche rilievo tra PD e PDL (ora di nuovo Forza Italia)? Per il Movimento 5 Stelle no e da tempo. Personalmente una differenza l’ho sempre colta, o mi sono ostinato a coltivarla, nonostante la evidente convergenza esistente tra i due partiti sui problemi principali e anche, spesso, su quelli secondari, che gravavano la politica italiana. Ambedue partiti liberisti, di un liberismo a oltranza, mi sembrava si differenziassero su questioni che definivo di “galateo istituzionale”. Anche dopo l’avvento del finto Rottamatore Matteo Renzi, rottamatore dei soli suoi avversari politici, finché rimangono tali, copia conferme del pregiudicato di Arcore, ho mantenuto ferma quest’idea, l’idea di una differenza che non riguardava solo base e elettorato, ma anche i dirigenti.
Dall’altro ieri non più. Dall’altro ieri l’ultima barriera che divideva PD e Berlusconi sembra definitivamente abbattuta.
I fatti: il nuovo capo del governo Signor Matteo Renzi nomina sottosegretario alle infrastrutture il senatore Tonino Gentile, su indicazione di Alfano, Nuovo Centro Destra, nonostante la conferenza stampa rilasciato dal direttore dell’Ora (testata calabrese) che denunciava le indebite pressioni ricevute affinché non venisse pubblicata la notizia sull’inchiesta aperta a carico del figlio Andrea Gentile. La nomina suscita un vespaio di critiche e proteste che vedono coinvolti persino personaggi alieni alle rimostranze quali Ferruccio Bortoli (Corriere della Sera) e Mario Calabresi (La Stampa). L’autorevolezza, anzi la quasi istituzionalità delle proteste porta a una soluzione positiva del problema, il Senatore Gentile è costretto a dimettersi, ma quel che importa, quel che appare altamente significativo è la reazione di Matteo Renzi. Una reazione quantomeno sconcertante. Sembra infatti abbia dichiarato che il governo verrà giudicato per ciò che farà per gli italiani…
Il che ci riporta alle tesi berlusconiane che chi “prende i voti” non è soggetto alle norme che regolano i comportamenti di tutti gli altri cittadini; che non sono importanti i principi costituzionali sulla libertà di stampa e di parola, sull’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, ma che alcuni, coloro che godono del consenso popolare, sono più uguali degli altri, quindi da sottrarre alla giurisdizione della magistratura e, si deduce, anche alla sanzione etica della comunità. Anche qui il principio che vale non è quello tradizionale delle società che si formano attorno a principi e regole condivise (sintetizzate dalle norme costituzionali), ma da un unico principio: dal successo. Quasi si trattasse di una arena gladiatoria, non della tenuta d’un paese che vive della sua capacità di produrre beni materiali, di produrli e distribuirli, ma anche dei sogni, delle aspirazioni, degli ideali, delle aspettative e delle speranze di milioni di persone.
È proprio da questa concezione, che ormai sembra far parte del tessuto connettivo anche del PD, che agli occhi di Berlusconi risultava inaccettabile la pretesa dei magistrati di sottoporlo ai rigori della legge, quasi si trattasse di un cittadino qualsiasi e non il capo del governo (o capo dell’opposizione) che aveva l’approvazione di milioni di cittadini, mentre loro, i magistrati, in quanto funzionari dello stato, non erano eletti da nessuno (erano solo, SOLO! Esperti di diritto, chiamati a applicarlo con lo stesso rigore nei riguardi di chiunque).
Questa singolare posizione, che dimostra la sostanziale identità tra le due forze che da oltre vent’anni hanno monopolizzato il governo del paese, con risultati disastrosi, ha reso più comprensibile l’apparentemente innaturale accordo sulle riforme con Berlusconi. In particolare la leggere elettorale, una riedizione peggiorativa del “porcellum”. Una legge che ha al proprio centro il concetto di “alternanza”, una alternanza però non tra diversi, anche se solo un pochino diversi, ma l’alternanza tra uguali, garantiti dal sostegno reciproco che, di fronte a nemici esterni, possono assicurare l’uno all’altro. Un’alleanza nei fatti che sta diventando anche nel diritto, alleanza palese. Da questa alleanza è logico che scaturisca la proposta attuale, una legge elettorale formulata in modo tale destinata a realizzare i fini che le sono assegnati (il perpetuarsi dell’attuale oligarchia) anche in assenza dell’assenso dei cittadini. E sufficiente abbia quello dei poteri forti, ai quali si rifanno ambedue i partiti che, a patto di garantirne gli interessi, avranno via libera per spartirsi il potere nei prossimi decenni.
Su questo punto Marco Travaglio, sul fatto quotidiano, formula l’ipotesi che, essendo questo il quadro politico, il ridursi del renzismo a una mera questione di giovanilismo e di velocità nelle decisioni; e questa la legge elettorale, è probabile che nel 2015, quando è credibile che Berlusconi imporrà di andare al voto, sarà proprio quest’ultimo a vincerle. Le vincerà in quanto ispiratore delle attuali tendenze, riassunte nella generica denominazione di “renzismo”. Dal che deriva la conclusione, che gioiosamente Travaglio non esita a trarre, che i dirigenti del PD siano preda di una sorta di virus del suicidio che li porta incontro a periodici atti di autodistruzione. Ipotesi questa che mi avrebbe agghiacciato non fosse che non condivido le premesse con cui la giustifica.
Renzi non è il solito sprovveduto del PD, preso nei lacci delle sue stesse manovre, incapaci di vedere di là dal naso dei rituali di partito, bloccato, come tutti i suoi sodali, dalla contraddizione tra posizioni padronali e elettorato popolare che paralizza il partito: Renzi si rivolge a un elettorato più ampio di quello a cui tradizionalmente attinge il partito; ed è disponibile pure a perdere qualcosa di questo elettorato. A differenza dei vecchi funzionari del PD non ha il terrore del possibile formarsi di una formazione in grado di guadagnare consensi nei settori popolari (la legge elettorale che ha in mente esclude possano diventare concorrenti a livello di gestione del potere). Se, inoltre, ha accettato di assumersi la responsabilità di governo senza una precisa maggioranza di governo e senza essere passato attraverso il vaglio elettorale (come aveva promesso), ritengo una ragione debba esserci. Una ragione o più d’una ragione. In queste circostanze è molto probabile che il suicidio paventato (o auspicato) da Travaglio non debba verificarsi. Renzi e lì ed ha accettato di essere lì per completare il lavoro sporco iniziato da Berlusconi, continuato da Monti e lasciato inconcluso da Letta (a una politica del genere le maggioranze non mancheranno). Lo deve fare prima che il sopravvenire della “ripresa”, una ripresa che non produrrà occupazione, possa fornire alimento al crescere e consolidarsi di una opposizione europea alle disastrose e dominanti politiche liberiste.
In altri termini quel che Renzi deve ottenere è la pelle dei lavoratori. Che dovrà conciare per bene e consegnare nelle mani dei padroni. Ciò gli costerà molto, ma guadagnerà molta gratitudine da parte di chi ha in pugno il paese (banche). Oltre a guadagnare la possibilità di essere arbitro delle nomine dei manager di stato in scadenza. Il che vuol dire porre le basi del potere di domani, mentre viene rafforzato quello di oggi. Alcuni sostengono che sia questo il vero obiettivo dell’accelerazione imposto agli avvenimenti politici. Io ne dubito, perché temo tutt’altro. Temo in effetti non si aspetti nulla, o ben poco. Non più della soddisfazione di vedersi osannato dai media e assistere al trionfo del sistema in cui crede. Nel quale si è ritagliato lo spazio vitale e nel quale può fare progetti dare continuità al proprio avvenire. Che cioè egli lavori per il dominio essendo ormai entrato a far parte del dominio e avendo sufficiente intelligenza per non ragionare nei termini di quel re francese che pensava solo al suo interesse immediato, dopo poteva anche essere il diluvio. Un ragionare che ha molti seguaci nei due partiti principali che governano il paese. Quei partiti (PD-PDL) che rimproverano quelli minori di fare ricatti nel momento stesso che li obbligano a fare da stampelle alle loro nefande iniziative, pena l’esclusione dal privilegio di entrare in parlamento (le leggi elettorali sono costruite apposta per dar modo ai grandi partiti di operare ricatti: loro ricattano sulle questioni essenziali; i piccoli partiti – non tutti, per fortuna – su quelle delle poltrone).
Un sistema quello nel quale si riconosce Renzi, nel quale le persone non contano, non contano i morti e il dolore che il loro trionfo comporta. Morti e dolore fanno parte del gioco.
Un gioco però che, prima o poi, i lavoratori si stancheranno di giocare.

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