Pellerossa, ritorno al futuro-1

Science fiction e amerindi

di Erremme Dibbì (*)

PRIMA PARTE

In un libro del 1771 Sébastien Mercier immagina un «singolare monumento» con cui alcuni popoli in futuro domanderanno perdono all’umanità delle crudeltà commesse. Mercier colloca questo riscatto nel 2440 (nota 1). Fra i colpevoli la Spagna che «ha coperto il nuovo continente di 35 milioni di cadaveri, perseguitato i miseri resti di mille popoli fin nel fondo delle foreste e negli anfratti rocciosi, abituando gli animali, meno feroci di loro, a bere il sangue umano».

Il massacro delle popolazioni originarie d’America continuò, come si sa, ben oltre il 1771: inglesi, francesi e via via gli europei che prendevano dimora nel «nuovo mondo» continuarono la strage dei «selvaggi». Alcuni di questi «selvaggi» avevano costruito città, possedevano alfabeti, coltivano tabacco, si davano leggi… insomma tutto ciò che – a detta del «bianco» – rappresentava la «civiltà» ma che fu temporaneamente ignorato.

L’entità della strage, in particolare dei «pellerossa», fu tale che quando in tempi recenti (alcuni documenti “militari” erano in archivi inaccessibili fino alla presidenza Roosevelt) se ne conobbero le cifre, moltissimi rifiutarono di credervi. Nell’ immaginario collettivo degli Usa però quel genocidio aveva già lasciato traccia. Da un lato con la demonizzazione (nella storia, nella letteratura, nel cinema) dei «selvaggi»; dall’altra rendendoli «invisibili». Come spiega Leslie Fiedler in uno splendido libro (nota 2) i pellerossa divennero «senza nome» e «senz’anima» (pag 22), «senza luogo» (pag 29), «cannibali» e «stupratori» (pag 41), «pazzi» (pagg 168-169) e così via.

Naturalmente – osserva Fiedler – questi «invisibili» sono spesso tornati a ossessionare il vincitore, a tener desto il suo senso di colpa, fors’anche a rivendicare i territori (e le vite) così barbaramente strappati.

Sappiamo del «senso di colpa» (o talora della consapevolezza) che affiora in film come «Piccolo grande uomo» di Penn o come «Buffalo Bill e gli indiani» di Altman (la versione originale, cioè non tagliata da De Laurentis, il produttore, in tutte le parti che ledevano la “onorabilità” del presunto eroe bianco).

Fiedler ha esaminato la permanenza di questi «invisibili» nel mito e nella letteratura americana. Ma le loro ombre si proiettano anche sul domani, cioè sulla letteratura avveniristica, quella che abitualmente si usa definire science fiction, fantascienza.

Anzitutto. Esistono amerindi fra scrittori/scrittrici statunitensi di fantascienza? A quel che si sa soltanto due (relativamente conosciuti) hanno “sangue” indiano: Russell Bates e il più prolifico Craig Streete.

Nei suoi pochi racconti conosciuti in Italia, Streete – che è di origini cherokee – non sembra particolarmente legato all’ombra degli antenati. Certo, nel racconto «Un cavallo di diverso technicolor» si possono anche leggere, in un contesto particolarmente ironico, frasi simili (il maiuscolo è dell’autore) sul futuro degli Stati Uniti.

«Cavallo Pazzo, le sue parole di moribondo, 1876: “Non posso aiutarvi più, dite alla mia gente che non posso aiutarla più”. COME REGISTA HO DECISO CHE LA PARTE DI CAVALLO PAZZO DOVRA’ ESSERE RISCRITTA. NELLA VERSIONE CINEMATOGRAFICA GLI FAREMO DIRE: “SOLO CON LA MIA MORTE POSSO AIUTARE IL MIO POPOLO, UN PICCOLO PASSO PER L’UOMO, UN SALTO GIGANTESCO VERSO IL BOTTEGHINO”. INVECE DI FARLO UCCIDERE DA UFFICIALI DI CAVALLERIA CHE LO PUGNALANO ALLE SPALLE, AGGIUNGIAMO UNA SCENA IN CUI FUGGE DI PRIGIONE, STUPRA E UCCIDE UNA RAGAZZINA DI 12 ANNI E INFINE, OPPRESSO DAL RIMORSO, SI UCCIDE. IL PRODUTTORE SI E’ DETTO D’ACCORDO PONENDO COME UNICA CONDIZIONE CHE LA PARTE DELLA RAGAZZINA DODICENNE SIA AFFIDATA A JOHN WAYNE (…) La verità sui mali della felicità è sul canale 13».

Tutto qui (o quasi) per mano dei pellerossa nella fantascienza di oggi.

Però l’ammonimento, più volte ripetuto, «noi siamo il popolo che può essere» (nota 4) e l’ombra degli invisibili continuano a gravare su scrittori-scrittrici “bianchi” di science fiction.

Naturalmente per qualche autore/autrice questa presenza si limita al (quasi) folclore, sia pure talvolta con… un che di inquietante. Per altre/i il senso di colpa è incancellabile (e di solito «esplode» nell’incontro con altri «alieni»). Per un consistente gruppo di autori/autrici di primo piano i pellerossa sono e saranno a un tempo ingenui e saggi, affascinanti e incomprensibili. Ma in qualche caso il futuro è decisamente loro. Saranno gli uomini “rossi” i nuovi eredi della Terra e/o i «superstiti». Infine in alcuni scrittori (anzi, soprattutto scrittrici come vedremo) scatta una specie di solidarietà fra emarginati, una complicità fra ribelli che viene confessata apertamente.

Per il primo caso faremo solo brevi esempi. Gli altri quattro scenari ci sembrano più interessanti e ci dilungheremo (naturalmente citando solo testi tradotti in italiano e dunque reperibili).

Non è un uccello, non è un aereo, è … un pellerossa. Il folclore riverniciato.

L’indiano silenzioso compare sin dalla prima pagina di «Il regno delle ombre» di J. Hunter Holly (nota 5) ma non assume il rango di protagonista nello scontro-incontro fra uomini, Ombre e Spiriti.

Nel lieto fine il bianco Kirk si rivolge a Redhorse (!) per dirgli:

« – E anche tu vedrai avverarsi il tuo sogno, amico. Potrai parlare finalmente ai tuoi animali:

Redhorse lo fissò con i suoi profondi occhi scuri e gli sorrise.

– Dunque non l’avete capito? Io ho sempre parlato con loro. Sempre».

Hunter Holly, spesso presente su Urania, è una scrittrice inglese: si è però formata nella cultura statunitense, come si può verificare anche nello stereotipo dell’indiano con cui si chiude questo suo (non eccelso) romanzo.

Arsen Darnay invece ebbe una certa fama con «La fisica del Karma» (nota 6) dove mescolava il sacerdozio delle «scorie nucleari», l’arrivo a Dio attraverso il neutrino, l’immortalità, un po’ di sesso hard e gli indiani. C’è un (banale) vecchissimo stregone con strani poteri («Capo Cammina-in-aria») e vi sono improbabili pellerossa che accettano volentieri le scorie radioattive mentre un premuroso (!) ministero Affari Indiani si oppone.

Nel (troppo) lirico «Il canto del ponte» di Joel Richards (nota 7) c’è «Bembow Nuvamsa, giunto lì per una serie di conferenze sulla medicina e la cultura hopi». Lo spunto poteva essere interessante, anche perché in realtà la «medicina» degli hopi ha il compito principale di «conciliare» vita e morte (sulla complessità di questa visione hopi si è, di recente, molto indagato e discusso). Richards invece si ferma al magico, all’inspiegabile, al poetico: «Le due piume […] rappresentano la capacità di usare il sesto senso per controllare gli altri cinque» oppure «Il Grande Arco cantò ed egli si crogiolò nella ricchezza dei motivi, nel fulgore delle armonie».

In qualche caso gli stereotipi più ovvi possono servire a trattazioni ironico-brillanti. E’ il caso del racconto «George Washington ha dormito qui» di Charles Harness (nota 8): gli indiani algonchini sono davvero dotati di strani poteri ma è per via di un accordo con gli abitanti di Dhora, il secondo pianeta di Alpha Centauri…

Il senso di colpa ha un grande futuro

Uno dei più gettonati autori della “età dell’oro” della science fiction è Fitgerald Jenkins, più noto con lo pseudonimo Murray Leinster. Scrisse ininterrottamente dagli anni ’20 al decennio ’60: sempre nei canoni «avventurosi» ma senza troppe banalità (o ripetizioni). E’ certo curioso che, in due suoi romanzi fra loro diversissimi, si mostri angosciato dallo sterminio degli amerindi.

Nel 1958 in «Questo è un Gizmo» (nota 9) ci offre questo dialogo.

« – Se sbarcassimo su un altro pianeta, abitato da esseri civili, cercheremmo di fare amicizia.

– Sì? disse Burke con ironia: E’ così che hanno fatto con gli indiani 400 anni fa? E in Africa e in Australia? C’erano indigeni in quei Paesi e noi, popoli civili, abbiamo fatto amicizia?».

E’ da notare che, nel romanzo di Leinster, siamo al centro di una invasione aliena e che all’epoca – anni Cinquanta – non era frequente sentire qualcuno che mostrasse comprensione per i «selvaggi» o gli alieni. Burke parla da «traditore» (ma non lo è, questo è il bello).

Leinster ribatte lo stesso chiodo nel divertente «I Greks portano doni» (nota 10)

« – Non mi sembri molto entusiasta dei Greks.

– E lo sono ancora meno degli uomini, disse lui arcigno. Noi siamo pressappoco nella stessa situazione degli indiani d’America quando sbarcarono i bianchi. I Greks sono molto più progrediti di quanto non lo fossero i nostri antenati, ma gli indiani non litigarono fra loro per avere il privilegio di farsi distruggere…».

Nel mondo oppressivo in cui W. F. Nolan e G. C. Johnson collocano «La fuga di Logan» (nota 11) il senso di colpa sarà mascherato da un palo metallico che avvisa: «assolutamente vietato oltrepassare questo limite! Pericolo di morte! Governo Usa»; nella montagna di Cavallo Pazzo è nascosto infatti il super-calcolatore. Ma quello che qui ci interessa è il brano all’inizio del capitolo.

«Quando a Cavallo Pazzo fu dedicata una montagna, la grande massa di granito divenne il luogo di un progetto colossale che doveva consumare mezzo secolo. Un guerriero indiano a cavallo, alto 179 metri e lungo 193, avrebbe sovrastato la distesa delle foreste nere, cavato d 6 milioni di tonnellate di pietra nel Dakota. Una montagna sarebbe diventata uomo, facendo apparire nane le gigantesche teste di Rushmore […] Dopo 10 anni, più di un milione di tonnellate di granito vivo erano sparse in frantumi ai piedi dell’enorme montagna, e la piuma del grande Capo Guerriero dei Sioux Oglala cominciava a spuntare […] Nazioni intere gettarono fondi, eccitate dalla drammatica immagine del grande condottiero in groppa allo stallone scarmigliato […] E, con infinita lentezza, la mastodontica figura prese posto sullo sfondo del cielo del Dakota. Tasunca-Uitco. Cavallo Pazzo. Lo spietato genio indiano che aveva congegnato il massacro del Settimo di Custer sul Little Big Horne».

Sembrerebbe quasi quel «monumento» di riparazione preconizzato, nel 1771, da Sébastien Mercier. Il senso di colpa statunitense sembra imponente: 179 metri per 193. Ma nel brano troviamo una parola – «spietato» – riferita a Cavallo Pazzo che offre l’ennesima giustificazione/difesa del “povero” Custer.

Cosa accadrà nel «Giorno del Giudizio» secondo il saggio Isaac Asimov? Leggete queste righe nel racconto «L’ultima tromba». (nota 12)

« – Indiani. […] A milioni. Prima verranno le tribù che abbiamo combattuto e liquidato a suo tempo. Poi tutte quelle che non hanno mai visto un bianco. Torneranno tutte in vita e io avrò bisogno dei vecchi compari».

Così, mentre la gente comincia a resuscitare, ci si prepara a una «nuova guerra indiana» discutendo fra le lapidi di un cimitero. Fortunatamente il giudizio è rimandato (con un trucco alla Asimov: la riforma del calendario). I visi pallidi non dovranno di nuovo ri-sterminare gli indiani “risorti”.

Ingenui, saggi, affascinanti e incomprensibili. Anche domani.

«Clyde Piuma-Leggera salì i gradini della cattedrale di San Patrizio. […] Era vestito proprio come gli indiani di un’antica mostra. […] Era un giovane indiano Mohawk, di razza pura, aitante e simpatico. Subito gli si raccolse vicino una piccola folla (non ci vuol molto a richiamare folla a New York) e padre Michael O’ Conner uscì dalla cattedrale. […] Gli indiani Mohawk un tempo erano stati grandi, la forza organizzatrice delle potenti 6 nazioni della Confederazione degli Irochesi. La pace delle foreste era stata la pace Mohawk e la legge Mohawk (codificata in tempi antichi da un uomo saggio e gentile, Hiawatha) era stata la legge di tutti. Dal St. Lawence fino all’Hudson, la pce e la legge Mohawk avevano dominato incontrastate prima dell’arrivo dell’uomo bianco».

Cosa va a fare Clyde Piuma-Leggera sui gradini di san Patrizio? Lo spiega lui stesso all’incerto padre ‘O Conner: vuole pregare, meditare («perché le vib, vibrazioni, sono buone qui») sul tempo:

«Aveva lasciato che il pensiero abbandonasse la sua mente e ora fissava con distacco l’alito che entrava e usciva dalla propria bocca: era diventat una specie di universo in se stesso».

In questo breve «Il Mohawk» di Howard Fast – sì, proprio il Fast di «Spartacus», di «La via della libertà» e di «L’ultima vittoria dei Cheyenne» (nota 14) – c’è quasi totale incomprensibilità fra pellerossa e bianchi ma c’è anche saggezza: non solo perché Clyde Piuma-Leggera meditando vedrà «invece del Rockfeller Center un bosco di alberi antichi» (e capirà cos’è il tempo e cosa lui dovrà fare) ma anche perché quando lo smarrito padre ‘O Conner chiederà consiglio al cardinale si svolgerà questo dialogo conclusivo.

« – Che cos’è il tempo di Dio, eminenza?

Il cardinale sorrise ma non sembrava divertito. […]

– Era quello che cercava?

Padre O’ Conner annuì, imbarazzato.

– E… glie l’avete domandato? [a Clyde – Ndr]

– No, non gliel’ho domandato.

– Allora quando tornerà, disse il cardinale, vi consiglio di farlo».

Anche Theodore Sturgeon, nel suo bellissimo romanzo «Venere più X», attribuisce (sia pure di sfuggita) agli indiani la stessa sapienza incomprensibile. Lo fa – ed è significativo – parlando di un popolo tanto alieno quanto progreditissimo, i Ledom.

« – Ma che gli è successo?

– Nulla, ti dico. E’… ecco una pausa. Non era rarissimo nel tuo tempo. I vostri Indiani d’America, gli indiani delle pianure, potevano farlo. E anche certi nomadi delle montagne d’Atlante. Non è sonno. E’ qualche cosa che fai, senza dubbio, quando dormi».

E’ interessante notare che due scrittori di fantascienza piuttosto celebri, Robert Silverberg e R. A. Lafferty, usano continuamente il riferimento agli amerindi (di ieri e/o di oggi) come contrappunto agli orrori della civiltà wasp.

Silverberg a esempio in «Il pianeta di Regan» (nota 16) – il titolo non inganni, il romanzo è degli anni ‘ 60 e dunque Ronald Reagan, l’attore che fu presidente proprio non c’entra – immagina che Claude Regan, potente e spietato statunitense, per rilanciare lo “stellone” degli Usa in declino organizzi la Grande Fiera Mondiale (quella che si aprirà il 12 ottobre 1992, «anniversario della scoperta» nello spazio, su un apposito satellite. Per richiamare il pubblico e convincerlo a un lungo e costoso viaggio, il satellite/fiera deve offrire un’attrazione super. Regan, in modo del tutto illegale, trascina fuori dal loro ambiente naturale qualcuno dei pochi, poveri e abulici marziani superstiti. E’ quasi una deportazione, così alla fine Regan viene colto da qualche scrupolo.

«Aveva letto da qualche parte che quando gli Indiani d’America erano stati portati in Europa, nel 16° e 17° secolo, avevano risvegliato la curiosità e l’interesse di tutti. Sfortunatamente la maggior parte degli indiani portati a contatto con la civiltà europea ne aveva spiacevolmente risentito cedendo alle malattie, all’alcolismo o semplicemente soccombendo a un diverso sistema di vita. Sarebbe accaduto lo stesso per i marziani?».

Nell’oppressiva società del 2490, immaginata da Silverberg nell’interessantissimo romanzo «Quellen, guarda il passato!» (nota 17) c’è un finale emblematico. Quellen riesce a diventare un «saltatore nel tempo» e così arriva «in una terra ancora vergine»; siamo alle ultimissime righe del libro.

«Il mondo è mio, pensò Quellen.

Un uomo alto, dalla pelle rossa, uscì dalla foresta e si appoggiò a un albero guardando gravemente Quellen. Portava una cintura di pelle, un paio di sandali e niente altro. L’uomo dalla pelle rossa esaminò Quellen per un momento, poi sollevò un braccio in un gesto il cui significato non poteva sfuggire a Quellen. Un caldo senso di amicizia si accese nel suo cuore. L’uomo gli dava il benvenuto. Non aveva paura di lui.

Sollevando una mano, sorridente, alla fine Quellen si mosse e gli andò incontro».

Ancor più di Silverberg, è Lafferty a rimandarci di continuo ad amerindi saggi e incomprensibili, metafore (non sempre trasparenti) di un mondo distrutto e mai cancellato del tutto. Questo tipo di visione del pellerossa sconfitto ma “migliore” del bianco vincitore, può far tornare in mente i versi finali della poesia di un autentico indiano d’oggi (nota 18).

«[…] o america sono il tuo

nemico

e la mia anima e il mio

spirito che desiderano salvarti da te stessa

[…] o america o sogno

americano

non c’è nessun sogno

americano

è solo un incubo

[…] sì america

ho versato le stesse

lacrime

quando i vostri astronauti

versavano lacrime nello

spazio

ma non ho pianto per ciò

che è

ma per ciò che potrebbe

essere stato».

Anche Lafferty, autore contraddittorio (politicamente conservatore ma capace di vivisezioni al vetriolo dei mali degli Usa) sembra volere a volte – come il poeta citato – liberare l’America dall’Amerika (quella con la kappa appunto). E’ dunque significativo, nel senso in cui Fiedler impostava il suo saggio citato all’inizio, che il suo riferimento ai pellerossa sia costante. Vediamone quattro esempi.

Il racconto «Valle stretta» (nota 19) parte dal 1983 con «una distribuzione individuale di lotti di terreno agli 891 indiani Pawne sopravvissuti». Ma 160 acri sono pochi per vivere e Clarence Sella Grossa formula (con successo) una preghiera: «Che questa mia valle sia sempre larga, fiorita e verde… ma stretta per gli intrusi». Così, ai giorni nostri, la valle rimane inaccessibile ai bianchi. Quando un giovane Pawnee – che, guarda un po’, si chiama Clarence Sella Piccola – incontra sulla sua terra (momentaneamente accessibile) una ragazzina bianca c’è il tipico dialogo fra due mondi che non si conoscono.

« – Se lei è veramente un indiano, dov’è il suo casco di guerra? Non ha addosso nemmeno una penna. […]

– Come mai non hai in testa la corona di ferro della Lombardia dal momento che sei una ragazza bianca? Come pretendi di farmi credere che sei una ragazzina bianca e che la tua gente è venuta dall’Europa un paio di secoli fa se non porti la corona? C’erano 600 tribù indiane e solo una di loro, i Sioux Oglala, usavano i caschi piumati e anche fra loro li portavano solo i grandi capi e non ce n’erano mai più di due o tre in vita nello stesso tempo».

Anche nel bel racconto di Lafferty «I fiumi di Damasco» (nota 20) la presenza indiana è un fattore inquietante se pure si limita a «un indiano Shawne e gli Shawne sono rabdomanti migliori di qualsiasi altro indiano del mondo».

In «Giorni d’erba, giorni di paglia» (nota 21) – ancora di Lafferty – la cultura accademica noiosa e ignorante dei bianchi (c’è un convegno intitolato nientemeno che «Sostrati spaziali e temporali del mondo integrato con riferimento alla loro possibile esistenza e al loro rapporto con il mondo inconscio e con l’amnesia terapeutica; in connessione alla necessità di postulare mondi stratificati e all’esplorazione del motivo orologico in collegamento con l’apparente verificarsi di giorni simultanei») si contrappone alla semplicità «magica» dell’Estate Indiana e all’abilità di Piccola Volpe nell’usare il telefono, componendo il numero da chiamare con i dadi sull’erba (la cornetta è una semplice borsa di pelle di dano).

In «Le scogliere della terra» (nota 22) sempre Lafferty intitola un capitolo «Un monte pieno di indiani assassinati». Leggiamone qualche passaggio.

« – Com’è strana quella montagnola laggiù.

– A noi piace moltissimo. […] E’ piena di indiani assassinati.

– Come sarebbe a dire piena?

– Piena zeppa, stipata. […] Stimo che ce ne siano dentro 30mila, tenendo conto della capacità cubica e dell’assestamento della massa nel corso dei secoli. […] Credo che gli ultimi indiani sepolti lì siano stati i Caddo, più o meno al tempo in cui si disgregò la loro confederazione. Jane dice che gli ultimi a venir sepolti lì furono gli Shawne ma è impossibile. Uno dei vecchi indiani morti con cui ho parlato nel tumulo ha confermato che è impossibile. […] Sapevi che oggi gli indiani purtroppo ignorano scandalosamente la storia indiana?».

CONTINUA E FINISCE NEL PROSSIMO POST

Note prima parte

1 – Sébastien Mercier, «L’an 2440», Londra 1771. La citazione è tratta dal capitolo XXII nella traduzione di Sergio Moravia. Noi l’abbiamo ripresa da Michèle Duchet, «Le origini dell’antropologia: l’ideologia coloniale del Settecento», Laterza 1976.

2 – Leslie Fiedler, «Il ritorno del pellerossa (Mito e letteratura in America)» Rizzoli 1976. E’ stato ristampato l’anno scorso da Guanda sempre nella traduzione di Luigi Brioschi ma con la nuova introduzione di Claudio Gorlier; ed è recensito qui in blog.

3 – E’ nell’antologia «Il meglio di “Galaxy”» (volume VI), Mursia, 1980.

4 – E’ il verso di una poesia («I Am») indiana anonima nell’antologia «Dice nonna luna», a cura della rivista «Tepee», ciclostilato, 1985. «Tepee» è un bollettino italiano che segue con continuità le questioni storiche e le vicende attuali dei popoli amerindi.

5 – J. Hunter Holly, «Il regno delle ombre», I romanzi del cosmo (numero 155), Ponzoni, 1964.

6 – Arsen Darnay, «La fisica del Karma (prima parte)», Urania 856, Mondadori 1980.

7 – Joel Richards, «Il canto del ponte» in «Asimov, antologia di fantascienza» (numero 5), Siad edizioni, 1985.

8 – Charles Harness, «George Washington ha dormito qui» nell’antologia (di vari autori) «Millemondi estate 1986»,Urania, 1986.

9 – Murray Leinster, «Questo è un Gizmo», Urania 703 (ristampa), 1976.

10 – Murray Leinster, «I Greks portano doni», Urania (numerose ristampe).

11 – W. F. Nolan e G. C. Johnson, «La fuga di Logan», Oscar 729 (più volte ristampato).

12 – Isaac Asimov, «L’ultima tromba», varie edizioni (anche in Asimov, Greenberg, Waugh, «Catastrofi», Oscar 1767, 1984).

13 – «Il Mohawk» in «Il generale abbatte un angelo» di Howard Fast, Urania 549, 1970.

14 – Howard Fast, «L’ultima vittoria dei Cheyenne», Longanesi, 1968. (Con il titolo «L’ultima frontiera», Edizioni di cultura sociale, 1953).

15 – Theodore Sturgeon, «Venere più X»: varie edizioni, le più recenti da Urania.

16 – Robert Silverberg, «Il pianeta di Regan», I romanzi del cosmo (numero 163), Ponzoni editore, 1965.

17 – Robert Silverberg, «Quellen, guarda il passato», varie edizioni Urania.

18 – Confronta nota 4.

19 – R. A. Lafferty, «Valle stretta» in varie antologie (fra cui «Il giardino del tempo», a cura di Sergio Solmi, Einaudi, 1983).

20 – R. A. Lafferty, «I fiumi di Damasco» in «La banda di Barnaby Sheen», Urania 1008, 1985.

21 – R. A. Lafferty, «Giorni d’erba, giorni di paglia» in «Dieci storie dell’altro mondo», Urania 995, 1985.

22 – R. A. Lafferty, «Le scogliere della terra», Galassia 22, Celt, 1976.

(*) da «I giorni cantati» (n 3-4 del 1987) rivista trimestrale sulle «culture popolari e culture di massa», diretta da Sandro Portelli. Erremme Dibbì è l’abituale sigla con la quale all’epoca si firmavano Riccardo Mancini e Daniele Barbieri. Il testo non è stato aggiornato: ho solo corretto i refusi e segnalato nelle note qualche ristampa. (db)

 

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