Pena di morte e franchismo: una lunga scia di sangue

di Gianni Sartori

   Utili esercizi di memoria mentre si riparla della carogna (in senso stretto) di Francisco Franco e l’italiana Forza Nuova rilancia il motto della Guardia Civil

La Valle de los Caídos (Valle dei caduti) è un enorme monumento vicino a Madrid con le spoglie del dittatore Franco. Ora il governo spagnolo ne ha deciso la rimozione. «La Valle non si tocca» dice un adesivo con sopra la faccia del Caudillo ma una mano ha cancellato quel “non”… (la foto è ripresa dalla rete dove è iindicata come fonte: OSCAR DEL POZO/AFP/Getty Images)

Doveroso ricordare i cumuli di cadaveri con cui le destre nazi-fascio-falangiste al potere hanno ricoperto il pianeta. Proprio mentre in Germania l’estrema destra nazista – ritornata in Parlamento – sfila impunemente per Berlino; i neofascisti italici promuovono il razzismo nelle periferie travestendosi da antagonisti; Forza Nuova rilancia il motto della Guardia Civil “Tutto per la patria” (proprio l’anno scorso mentre la GC spagnola manganellava brutalmente i catalani); i falangisti spagnoli protestano – sempre impuniti – per la ventilata riesumazione della carogna di Franco (con riconsegna alla famiglia); e mentre – si parva licet – «L’espresso» (15 luglio 2018) pubblica articoli di Fabio Polese (una firma del nuovo «Rinascita», il foglio diretto da un provocatore ex “nazi-maoista” che riprende il nome del vecchio settimanale del Pci). Mentre questo accade occorre ritrovare la memoria delle stragi delle destre europee e magari anche dei tentativi di strumentalizzare certe lotte di liberazione.

Emblematico quanto venne compiuto dal regime franchista in Catalogna.

Premessa. Mi segnalano che la garbata polemica da me involontariamente sollevata ponendo la questione della “croce cerchiata delle SS francesi impropriamente denominata celtica” (in “bottega” vedi anche Che c’entra Bobby Sands con Casa Pound?) è proseguita in altre sedi. A mio avviso, un inutile dispendio di energie per dimostrare l’indimostrabile ossia che quel simbolo non sarebbe un richiamo al collaborazionismo filonazista.

Spiego per i non addetti: si parlava della mostrina di una compagnia Flack (contraerea) formata da collaborazionisti francesi e destinata, per decreto, a diventare emblema della Charlemagne (Waffen-SS) se la guerra non fosse finita in tempo. Andrebbe spiegato, da parte di questi presunti sostenitori (da destra) dell’autodeterminazione dei popoli, come mai il legame con la mostrina di riconoscimento di quella Flack venisse rivendicato nel dopoguerra da alcuni reduci delle Waffen-SS. Personaggi che parteciparono alla fondazione del Parti republicain d’union populaire (poi Mouvement socialiste d’unité francaise) e riesumarono la “croce cerchiata delle SS francesi impropriamente chiamata celtica”: consultare “Le combattant europeèn” (*)

Come capita sovente «quando il saggio indica con il dito la luna, lo stolto vede soltanto il dito».

Il ruolo di saggio sicuramente non mi compete ma è comunque da stolti non vedere (o non voler vedere) quale fosse il vero problema posto dal mio intervento. Non ho ancora registrato commenti da parte del “settore destro” sul ruolo svolto dai loro fratelli maggiori, certi soidisant “antimperialisti” di estrema destra che finirono per integrarsi nelle squadre della morte spagnole (ATE, BVE, GAL, quelle che assassinavano i rifugiati baschi in Iparralde e i carlisti dissidenti a Montejurra-Jurramendi). O magari con l’esercito sudafricano contro le lotte di liberazione nazionale in Angola e Namibia. Per non parlare della collaborazione con i regimi fascisti in America Latina e con le milizie maronite di destra in Libano. Nessun chiarimento poi sui rapporti intercorsi tra i fascisti nostrani e quelli inglesi del NF e quindi, magari indirettamente, con le destre protestanti, i lealisti di UDA, UVF, UFF…(**)

Alimentare ulteriori polemiche non mi pare di grande utilità. Penso sia di maggior interesse proporre qualche intervento sul come e perché le variegate destre europee abbiano, di volta in volta, represso o cercato di strumentalizzare alcune lotte di liberazione nazionale. In particolare quelle che ho conosciuto maggiormente di persona: Euskal Herria, Irlanda e Paisos Catalans. Inizio dalla “Catalogna” visto e considerato che al momento, per il referendum indipendentista, se ne parla assai (***).

La pena di morte era stata abolita in Spagna per la prima volta nel 1932, ma venne ben presto ripresa per i delitti definiti di “terrorismo”, in risposta all’insurrezione dei minatori asturiani nell’ottobre 1934. Nel 1938 venne pienamente ristabilita e quindi applicata a livello di massa fra il 1939 e il 1945. La legge marziale rimase in vigore dal 28 luglio 1936 al 7 aprile 1948. Con la definitiva vittoria franchista (1939) si assiste a una serie impressionante di sacas. Così venivano chiamate le operazioni con cui si prelevavano dalle prigioni gruppi di detenuti per fucilarli direttamente, senza alcuna parvenza di processo. In seguito queste “esecuzioni selvagge” (come le ha definite uno storico catalano) vennero sostituite da processi-farsa, con un’apparenza solo formale di legalità. 70/80 persone venivano giudicate contemporaneamente sulla base di una serie di presunti reati commessi e inevitabilmente con la sentenza si decretava la pena di morte collettiva.

Ricordo che stiamo parlando di fucilazioni o impiccagioni sistematiche, operate dall’apparato statale, non di episodi di vendetta o di ritorsioni di qualche gruppo incontrollato.

Non sono pochi gli studi finalizzati a quantificare il numero delle vittime della repressione franchista nel cosiddetto “dopoguerra” cioè accettando per comodità come riferimento per la fine della Guerra Civile quello ufficiale e convenzionale dell’aprile 1939: “La guerra ha terminado” (****).

Studi e ricerche che non sono esenti da critiche, confutazioni e revisioni. E naturalmente la macabra contabilità non è immune dall’ideologia. Questa non risulterà come il fattore determinante nell’emettere giudizi o valutazioni storiche ma non è nemmeno fine a se stessa.

G. Jackson in La Republica espanola y la guerra civil, Barcelona 1976, parlava di circa 580mila morti complessivi, o per cause belliche o per violenza politica, fra il 1936 e il 1943. Di questi circa un terzo (200mila) sarebbero stati prigionieri repubblicani morti per esecuzioni dal ’39 al ’43.

Studi successivi, sorti sull’onda delle polemiche, avevano portato a un ribasso della cifra.

S. Larrazabal arrivava addirittura a parlare di “soltanto 22.716 esecuzioni fra il 1939 e il 1943”.

Fino agli anni Ottanta la maggior parte degli storici si era attestato su una cifra di circa centomila. Ramon Tamares riportava il numero di 103.129 giustiziati (sempre riferendosi al “dopoguerra”, naturalmente). In anni più recenti lo storico triestino Claudio Venza parlava di una cifra compresa fra 90mila e 150mila, dal 1939 al 1945. Studi più recenti (sia Jorge M. Reverte che Santos Julià, Victimas de la guerra civil, Madrid 1999) hanno calcolato che fra il 1936 e il 1943 il nuovo ordine fascista fece giustiziare oltre150mila persone. Più di quelle che l’esercito di Franco avevano ucciso in tre anni di guerra. E senza dimenticare che numerosi combattenti repubblicani, ormai circondati, preferirono suicidarsi con l’ultimo colpo in canna piuttosto che cadere nelle mani dei carnefici fascisti. Come nel porto di Alicante.

Dato che le diverse metodologie applicate influenzano i risultati, è lecito pensare che alcuni dei lavori in questione pecchino quanto meno di approssimazione. Sembra infatti che quasi nessuno degli storici citati avesse ritenuto di dover consultare anche i Registri Civili, forse considerandolo un lavoro troppo lungo e comunque scarsamente prestigioso. Se ne occupò invece, sempre negli anni Ottanta, qualche ricercatore catalano, in particolare Josep M. Solé i Sabaté, sobbarcandosi il gravoso compito di dedicarsi sistematicamente a questo genere di ricerca.

Per quanto riguarda i Paisos Catalans era giunto alla conclusione che le vittime del franchismo sono state molte più del previsto. Nel solo Principat i catalani assassinati dalle forze di occupazione dopo il ’39 sarebbero stati 3.385 (almeno quelli accertati ancora negli anni Ottanta) metà dei quali a Barcellona, gli altri distribuiti tra Tarragona, Lleida, Girona e una serie di località minori. Un analogo lavoro di ricerca svolto nel Pais Valencià aveva quantificato in circa 10mila i catalani giustiziati dopo il 1939 (complessivamente in una decina di località considerate). Come si può intuire il maggior numero di fucilati nel Pais Valencià rispetto al Principat era dovuto anche alla maggiore distanza da una frontiera internazionale come quella con la Francia. Anche se non tutti gli antifranchisti che si rifugiarono in Francia sfuggirono poi alla vendetta del dittatore (*****).

Primo fra tutti quel Lluis Companys (fondatore nel 1931 dell’Esquerra Republicana de Catalunya) che ancora nel 1934 aveva proclamato «lo Stato Catalano integrato nella Repubblica Federale Spagnola» gesto che gli costò arresto e imprigionamento nel carcere di Santa Maria.

Dopo la sconfitta della Repubblica nel 1939, Companys cercò scampo in Francia ma con l’invasione delle truppe naziste venne riconsegnato ai franchisti. Dopo un processo sommario venne fucilato a Montjuic nel 1940. Seppe morire con molta dignità, lasciando sconcertati gli stessi membri del plotone di esecuzione. Prima che questi aprissero il fuoco si levò e depose gli occhiali, poi si tolse le scarpe per posare i piedi nudi sulla sua terra e cantò l’inno nazionale catalano (“Els Segadors”). L’eroica morte di Companys venne prepotentemente riportata alla memoria dei catalani nel settembre 1975 quando un giovane basco, Juan Paredes Manot (Txiki), venne fucilato al cimitero di Sardenyola non lontano da Barcellona. Davanti al plotone di esecuzione Txiki gridò «Gora Euskadi Askatuta, Iraultza Ala Hill» e poi intonò l’Eusko Gudariak, il canto dei gudaris, i combattenti baschi antifranchisti. Il 27 settembre (giorno della sua fucilazione e di quella di un altro etarra, Otaegi, oltre che di tre militanti del Frap) divenne la data in cui si celebra il Gudari Eguna cioè il giorno del combattente basco.

Estendendo le modalità di ricerca adottate da Josep M. Solé i Sabaté a tutta la penisola iberica (soprattutto nel centro e nel Sud da dove era difficile espatriare) si arriverebbe con ogni probabilità a una revisione delle cifre precedentemente riportate. Quanti sono stati, per esempio, i casi in cui l’esecuzione venne classificata come “traumatismo”, evidente eufemismo quando viene applicata a gruppi di decine di persone morte contemporaneamente? In altri casi si riporta “asfixia” oppure “herida penetrante de craneo”. I Registri Civili, riportando la data e il numero delle vittime, permettono quindi di ricostruire con minor approssimazione la portata del massacro operato dal franchismo a guerra finita.

Altro dato interessante emerso da queste ricerche in Catalunya è che la maggior parte delle vittime, nelle località prese in considerazione, erano militanti o simpatizzanti anarcosindacalisti (CNT, FAI). Cosa del resto quasi scontata se si tiene conto che i Paisos Catalans sono stati presumibilmente il maggior vivaio libertario della Storia. Sempre grazie ai Registri Civili si ha conferma di quale fosse la condizione sociale della maggior parte delle vittime. Quasi tutti appartenevano alle “classi subalterne”, le stesse che maggiormente si erano rese protagoniste del tentativo di stroncare il fascismo e contemporaneamente di rovesciare l’ingiusto ordine sociale esistente. Questo particolare può far comprendere anche quali siano stati i costi umani complessivi. Basti pensare alla miseria in cui precipitarono migliaia di famiglie proletarie la cui stessa sopravvivenza dipendeva per lo più dal lavoro degli assassinati. L’impiego di misure repressive contemplanti la pena di morte non si esaurì comunque con la fine degli anni Quaranta. Le esecuzioni continuarono a essere adottate sistematicamente anche negli anni successivi. Sotto certi aspetti addirittura si perfezionarono a scopo preventivo e come deterrente nei confronti di una guerriglia che andava diffondendosi: avviata nei PPCC da militanti anarchici come Francisco Sabatè Llopart (El Quico, già integrato nella Colonna Durruti), Facerias e Capdevilla (Caraquemada) seppe mantenersi fino al MIL, il gruppo Puig Antich (giustiziato con il garrote nel 1974) e di Oriol Solé (ucciso dalla Guardia Civil durante un tentativo di evasione nel 1976).

Era del 1959 la “Legge di Ordine Pubblico” con cui la pena di morte veniva estesa a tutti i «delitti contro lo Stato». Nel 1963 veniva poi creato il famigerato Tribunale di Ordine Pubblico, lo stesso che condannerà a morte Puig Antich e il Txiki. Sempre nel 1963 suscitarono sdegno a livello internazionale le esecuzioni del comunista Juan Grimau (20 aprile) e degli anarchici Joaquin Delgado e Francisco Granados (17 agosto). Infine, nel 1964, il famoso Decreto-Legge “contro il banditismo”, responsabile della morte di tanti oppositori. Ovviamente il maggior numero delle vittime era costituito da militanti (anarchici, indipendentisti, comunisti, sindacalisti…) ammazzati lungo le strade, in maniera alquanto informale, da vere e proprie squadre della morte di Stato. Altri, anche solamente sospetti, morivano nelle carceri, nelle caserme della GC e nei commissariati a causa di percosse e torture o grazie allo stratagemma della “ley de fuga”.

Per restare in Catalunya, rimane emblematico il caso dell’operaio di origine andalusa Cipriano Martos, aderente al Fronte rivoluzionario antifascista patriottico (il Frap, operante in tutta la penisola, sosteneva l’autodeterminazione di PPCC, Euskal Herria e Galizia). Cipriano venne ammazzato nella caserma della Guardia Civil di Tarragona il 17 settembre 1973. Nel corso dell’anno sia la GC che la BPS (Brigata politico-sociale) praticarono la tortura in maniera indiscriminata. Come mi raccontava un ex esponente del Frap «timpani e costole rotte non si contarono e i muri delle celle rimasero letteralmente ricoperti di sangue». Ricordava anche di essere stato «arrestato in maggio a Barcellona insieme a decine di altri militanti. E tutti, chi più chi meno, subimmo la tortura».

Quanto a Cipriano, nonostante maltrattamenti e percosse, non aveva dato nessuna informazione ai suoi aguzzini. Questi allora lo costrinsero a ingerire acido solforico. Trasportato in ospedale gli venne praticata la lavanda gastrica. Ricondotto in caserma venne nuovamente torturato e ancora costretto a ingerire altro acido solforico. Una seconda lavanda gastrica risultò del tutto inutile. Sul suo martirio lo scrittore Miguel Bunuel ha scritto il breve ma toccante testo «El desaparecido».

Nei confronti del franchismo era prevalso un atteggiamento sostanzialmente benevolo, sia da parte del Vaticano che di Washington. Una sorta di “revisionismo storico” meno sfacciato di chi pretende di stabilire che in fondo Hitler avrebbe sterminato “soltanto” tre o quattro milioni di ebrei (invece di sei, ovviamente senza contare slavi, sinti, rom, oppositori e “antisociali” vari) ma non meno infido. Una rivisitazione della Guerra Civile che tende a riabilitare Franco come “fascista buono” (dal volto umano?) anzi un difensore degli ebrei perseguitati, contrapposto al “fascista cattivo” Hitler. Almeno 30mila ebrei sarebbero stati salvati dall’intervento del generalissimo “Caudillo de Espana por gracia de Dios” che avrebbe agito per un senso di carità cristiana.

Pesanti tentativi di riabilitare Franco erano apparsi sul settimanale «Il sabato» all’epoca della gestione di Paolo Liguori (un ex di Lotta continua) e da qui – siamo nei primi anni Novanta – erano poi filtrati in ambienti pidiessini. Elemento comune, l’apprezzamento incondizionato (sia da parte del “Sabato” che del Pds) per la politica economica-sociale dell’allora capo del governo spagnolo, il «modernizzatore Gonzalez» considerato «il miglior interprete dell’ultima fase del franchismo», uno dei garanti della transizione ma anche della continuità. Soprattutto della continuità dei profitti delle banche. Per maggiori dettagli rimando ad un libro di Ricardo de la Cerva (ex ministro della Cultura e funzionario dell’apparato franchista). Nella sua «Storia del franchismo» il ruolo fondamentale poi assunto da Gonzales e dal PSOE nella “riforma” appare già definito e programmato almeno dal 1974 quando venne individuato dal regime come “personaggio affidabile”.

A questa tesi potrebbe aver contribuito involontariamente anche Enrico Deaglio (altro ex di Lc) con il suo libro su Perlasca. Effettivamente il Perlasca che si prodigò coraggiosamente – a suo rischio e pericolo, va comunque detto – per salvare migliaia di ebrei ungheresi, in qualità di “console” (fittizio) di Madrid presso l’ambasciata spagnola di Budapest, era stato un ammiratore più di Franco che di Hitler. In tale veste era stato volontario nella Guerra Civile a fianco dei falangisti contro i repubblicani. Pensando forse che massacrare braccianti e operai in odore di anarchismo e comunismo (o indipendentisti baschi e catalani) non era poi cosa tanto riprovevole.

Era poi significativo che un andreottiano di ferro – ma ben visto anche in ambienti neosocialdemocratici – come Giancarlo Elia Valori (presidente della Società Meridionale Finanziaria, da sempre in buoni affari con i governi spagnoli, prima con Franco poi con Gonzalez) avesse consacrato i meriti di Franco nel «gettare le basi dell’attuale boom economico» (anni Novanta, beninteso). Secondo Valori, il caudillo avrebbe «affidato molti posti di comando a elementi di primordine. Alcuni appartenevano all’Opus Dei mentre altri erano dei tecnocrati puri. Fu questa classe dirigente – proseguiva G. E. Valori – a promuovere le prime aperture economiche e a far uscire la Spagna dall’isolamento». E con questo trovava ulteriore conferma la continuità ideale tra Franco e Gonzalez sul piano della restaurazione capitalista. Della sostanziale continuità su altri piani (negazione del diritto all’autodeterminazione, strapotere dell’apparato militare, mantenimento di metodi repressivi infami come la tortura e la guerra sporca) si è già parlato ampiamente in altre occasioni e anche nel mio libro «Indiani d’Europa – Euskal Herria» (edizioni Scantabauchi).

NOTE

(*) Fermo restando che il fatto di essere stata in seguito adottata dall’Oas basterebbe e avanzerebbe per screditarne l’uso e l’abuso agli occhi di chi crede nel diritto dei popoli all’autodeterminazione (in questo caso gli algerini).

(**) Quanto alla vicenda del“sidro Bobby Sands” (prodotto da CasaPound-Italia di Bolzano) mi sembra che l’intervento dei Repubblicani irlandesi sia stato chiarificatore. Quelli del Sinn Fein hanno spiegato senza mezzi termini di non aver gradito il tentativo di appropriarsi da destra (oltretutto a scopo commerciale) del nome di un martire della lotta di liberazione.

(***) E se qualche esponente del “settore destro” fosse già ai blocchi di partenza per le solite obiezioni (“…e i popoli oppressi da Stalin? E Pol Pot? E le foibe? E le madonne pellegrine?”)? Magari un’altra volta. Non è che uno deve sempre riscrivere la genesi del mondo. Fosse per me – effetto collaterale dei miei trascorsi giovanili (libertari e consiliari) – starei sempre a occuparmi della Comune di Parigi, di Kronstadt e dell’Ucraina makhnovista, di Rosa Luxemburg e della Repubblica dei consigli in Baviera, del maggio 1937 a Barcellona, di Camillo Berneri e Francesco Ghezzi o della rivolta ungherese del 1956. Quest’ultima avviata, va ricordato, dall’iniziativa di un consiglio operaio in una fabbrica di lampadine di Budapest (e quindi, almeno all’origine “sovietica” o, gramscianamente “soviettista” – rileggersi Umanità Nova e l’Internationale Situationiste dell’epoca).

(****) Raccontano i biografi che quel giorno Franco stava a letto con il raffreddore, ma «si alzò dal letto per correggere il bollettino di guerra che la Radio nazionale trasmetteva quotidianamente». Firmato dal caudillo, alle 22, 30 il bollettino venne letto agli spagnoli dall’attore Fernando Fernandez de Cordoba: «Oggi, catturato e disarmato l’esercito rosso, le truppe nazionali hanno conseguito i loro ultimi obiettivi militari. La guerra e finita. Burgos, 1 aprile 1939, Anno della Vittoria». Un macabro “Pesce d’Aprile” destinato a durare quasi 40 anni.

(*****) A tale proposito riporto quanto mi venne raccontato da un cileno di origine catalana, all’epoca rifugiato in Veneto dopo il golpe di Pinochet. Pablo Neruda ebbe un ruolo significativo nel salvataggio di alcune migliaia di antifranchisti (in maggioranza catalani) rifugiati in Francia e che rischiavano, con l’arrivo imminente delle truppe naziste, l’estradizione nelle mani di Franco. Il poeta aveva organizzato la fuga via mare ma al momento della partenza le autorità francesi non volevano più concedere il permesso dato che sulla nave c’erano almeno il doppio dei passeggeri consentiti (seimila invece di tremila). Allora Neruda estrasse una pistola e, ritto sul molo, se la portò alla tempia, minacciando il suicidio se non fosse salpata con tutti i rifugiati. Alla fine la nave partì. Sempre secondo la mia fonte tra i passeggeri ci sarebbero stati i genitori, catalani, della futura moglie di Salvador Allende e sembra che anche la famiglia di Allende fosse di origini catalane. Singolare coincidenza: il giorno del golpe di Pinochet (appoggiato dagli Stati Uniti) e della morte di Allende fu l’11 settembre 1973. Ma l’11 settembre è anche il giorno della Diada, la festa nazionale catalana in ricordo della caduta di Barcellona nel 1714. Negli ultimi anni della sua vita Neruda fu un sostenitore entusiasta della esperienza del governo di Allende, anche come ambasciatore a Parigi. La sua morte avvenne nei giorni del golpe (non si esclude che sia stato assassinato dalla giunta militare) in pieno clima di feroce repressione e assunse un valore simbolico di resistenza alla dittatura e all’imperialismo statunitense. Altri poi hanno voluto cogliere una qualche “coincidenza sincronica” tra il golpe fascista appoggiato dagli Usa in Cile nel 1973 e l’11 settembre 2011. Significativo poi che nel 2017 un generale dei carabinieri in pensione intendesse compiere una sua marcia su Roma proprio l’11 settembre…

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Volendo, l’11 settembre si può pure ricordare lo sfortunato attentato di Lucetti contro Mussolini del 1926; ma forse è meglio condividere Flaiano:

    “I fascisti amano il calendario. quando non sanno che cosa celebrare si sentono infelici. Una volta celebrarono persino il primo anniversario di un cinquantenario” (Ennio Flaiano, Diario notturno)

  • domenico stimolo

    Un vivo ringraziamento a Gianni Sartori per avere, con il suo lungo e dettagliato scritto, rinvigorito la memoria e la conoscenza sui fatti nefandi che caratterizzarono la dittatura franchista nei decenni che vanno dalla fine della guerra fino alla sua caduta. Dal 1939 al novembre del 1975 erano passati 35 anni, di orrori. Trent’anni , dopo la liberazione italiana dal fascismo, sono tanti.

    Mentre in Italia – con il trapasso del tempo, dei mestatori e dei revisionisti saliti in cattedra – negli atti prevalenti tutto si intreccia e si obnubila, specie per le nuove generazioni, in Spagna per chi considera prioritario coltivare la memoria della libertà e della storia il tempo è ancora più fresco.

    Ho avuto maniera di constatarlo direttamente nelle tre giornate ( 17-19 luglio) che hanno visto protagonisti nelle manifestazioni catanesi i 270 partecipanti iberici ( da 18 a 75 anni) della “Caravana Abriendo Fronteras”, per lo più baschi e catalani.
    Un entusiasmo, una caparbietà, “freschezza partecipativa” con ferrea volontà di denuncia e di lotta, che è difficile ormai trovare in Italia.
    Durante il corteo del 19 luglio – aperto da una autovettura con amplificazione – tra le tante canzoni, ad un certo punto, nel pieno centro storico, è stata inserita “ El quinto Regimento” – che partecipò in prima fila alla difesa di Madrid – Accolta con un boato dagli spagnoli.

    Infine, a proposito della guerra spagnola contro i fascisti, ritengo utile elogiare il recentissimo libro di Helena Janeczek “ La ragazza con la Leika” – vincitrice del Premio Strega 2018”.

    Non è soltanto un omaggio a GERDA TARO Pohorylle, tedesca antifascista e fotografa, morta a 27 anni in Spagna il 27 luglio 1937 nella località di El Escorial, schiacciata da un carro armato durante una offensiva dei fascisti.
    In questa fase storica, caratterizzata in Italia e in Europa da violente forme di razzismo, di odio contro gli umani considerati “diversi”, ritorno di becero nazionalismo, ricordare, come può essere fatto dolcemente in un ” romanzo storico”, le cronistorie degli eventi che si consumarono in Europa dall’ascesa della dittatura hitleriana, la capitale ( Parigi) assoluta dei fuoriusciti antifascisti provenienti dai paesi dove si erano imposte le dittature, e la “meglio gioventù” europea, donne e uomini, che si schierarono a migliaia in armi in difesa della repubblica spagnola, è la risposta letteraria più congrua, sul piano sociale, politico e umano, che può essere data.
    Nelle vendite il libro va molto bene.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *