Per eliminare a Roma la vergogna dell’apartheid

di Nino Lisi

Si perché, anche se sono pochi/e ad esserne consapevoli, a Roma – e non soltanto a Roma – c’ è dell’apartheid. Ad affermarlo è il Tribunale di Roma che il 30 maggio del 2015 ha sentenziato che <il carattere discriminatorio di natura indiretta della complessiva condotta di Roma Capitale … si concretizza nell’assegnazione degli alloggi del villaggio attrezzato La Barbuta>. Due anni prima, nel 2013, lo stesso Tribunale aveva riconosciuto ad un cittadino rom di essere stato vittima di discriminazione su base etnica, ordinando al Ministero degli Interni di distruggere tutti i dati sensibili di quel cittadino che erano stati raccolti cdurante il foto segnalamento. Poiché il metodo di assegnazione degli alloggi è lo stesso per tutti i “villaggi della solidarietà” ed è difficile che le modalità del foto segnalamento di quel caso differissero dagli altri simili, si può fondatamente affermare che il carattere discriminatorio non è limitato al soli casi sui quali ha sentenziato il Tribunale di Roma. Se poi si analizza con cura come sono stati istituiti, organizzati e vengono gestiti i villaggi della solidarietà, comunemente chiamati “campi nomadi”, il cui ingresso da almeno due anni è stabilmente presidiato di notte e di giorno da drappelli delle forze dell’ordine che controllano chi vi entra e chi vi esce e non a tutti consentono l’ingresso, se si considerano le modalità con le quali sono stati chiusi quelli del River, de La Monachina, de La Barbuta e lo stesso Centro di Accoglienza di via Salaria, se infine si tiene conto di quanto sia diffuso il pregiudizio antizigano in ragione del quale un rom o un sinto riesce ad essere regolarmente assunto in una azienda solo se riesce a tener nascosta la propria origine etnica, si può fondatamente affermare che rom e sinti a Roma vivono in una sorta di apartheid. Non è dunque improprio sostenere che è giunto il momento di dire BASTA APARTHEID A ROMA.

Per questo a seguito dei due recenti sgomberi dei campi La Monachine e La Barbuta, l’associazione di promozione sociale Cittadinanza e Minoranze ha deciso di promuovere una “Campagna per la eliminazione dell’apartheid a Roma”. Sarà articolata su tre piani: quello giudiziario quello della comunicazione – per il quale le competenze di lungo corso esistenti in questa materia all’interno dell’associazione stanno provando a coinvolgere alcuni noti opinion leaders – quello dei rapporti negoziali con le Istituzioni – che è un fronte nuovo da aprire.

Per sviluppare un’ azione del genere, che per altro avrà tempi non brevi, le risorse interne non bastano. Occorrono altri cervelli dotati anche di grandi cuori e di buone braccia e gambe. A tal fine Cittadinanza e Minoranze rivolge un appello in particolare ai/alle giovani, ma non solo ad essi/e, che pensino che Roma meriti di venir liberata dalla vergogna dell’apartheid e siano disponibili a collaborare a questa impresa che si svilupperà, come tutta l’attività dell’associazione, a livello del più assoluto volontariato, sicché ciascun@ oltre  al proprio impegno ci metterà anche i soldi per la benzina, andando in macchina o in motorino, o quelli dei biglietti per i mezzi pubblici. Chi fosse attratt@ da questa prospettiva può inviare un’e-mail a cittadinanza.minoranze@gmail.com con un suo breve profilo e lasciando, se vuole, il suo numero di telefono.

C’è anche bisogno di non pochi euro sia per soccorrere nel’immediato chi è stato messo in strada o in appartamenti fatiscenti e spesso senza allaccio alla rete idrica e/o del gas e/o elettrica, sia per gli oneri giudiziari. Chi volesse dar un contributo finanziario può effettuare un bonifico sul c/c bancario di Cittadinanza e Minoranze acceso sulla filiale di Via Nomentana Nuova 71 a Roma della Banca Popolare dell’Emilia Romagna il cui iban è IT50V0538703241000035100781, Nella causale anche ai fini fiscali (detrazione o deduzione sul 730) andrà indicato “donazione pro rom e sinti”. Il resoconto di quanto raccolto sarà pubblicato sul sito dell’Associazione http://www.cittadinanzaeminoranze.it/.

 

Redazione
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Un commento

  • Francesco Masala

    da il manifesto

    La normalità di una sistematica esclusione

    Roma e i rom. L’appello dell’associazione “Cittadinanza e minoranze”

    Anna Pizzo

    EDIZIONE DEL16.12.2021

    PUBBLICATO15.12.2021, 23:59

    Le femministe della Casa delle donne di Roma e Milano e le suore della Sacra famiglia. La scrittrice Edith Bruch e lo scrittore Domenico Starnone. L’Arci nazionale e Sant’Egidio, Veronica Pivetti, attrice, tutto l’equipaggio di Mediterranea e la Caritas di Latina, e poi Luigi Manconi, Marco Revelli, Luigi Ferrajoli, il direttore del quotidiano Avvenire e il condirettore de il manifesto. E ancora Adriano Sofri, Luigi Ciotti, Goffredo Fofi, Gad Lerner, Alex Zanotelli, Tomaso Montanari. Moltiplicate per duecentocinquanta e otterrete il numero di persone o associazioni che hanno firmato, e stanno continuando a farlo in queste ore, l’appello “Liberiamo Roma dall’apartheid” che l’associazione Cittadinanza e Minoranze ha deciso di lanciare un po’ per disperazione e un po’ di più per sfida.

    La disperazione nasce dalla situazione che, soprattutto a Roma, dopo anni di «ragionevoli» persecuzioni da parte dei variopinti sindaci che si sono succeduti, ha colpito duramente i Rom sgomberati, umiliati, perseguitati, ignorati. La sfida è per opporsi a quello che stanno subendo e che nessuno vede o vuole vedere. Ecco perché la parola non è stata scelta a caso. Avrebbero potuto scrivere che è in atto un tentativo di genocidio, oppure che stiamo assistendo a una tempesta perfetta, quella che in meteorologia descrive un ipotetico uragano che colpisce esattamente l’area più vulnerabile. Invece hanno scelto apartheid perché «è una parola terribile: indica un sistema di esclusione e dominio codificato in leggi – si legge nell’appello – Ma esiste un apartheid non scritto, perciò ancora più terribile. Perché si nega, non si vede». E non voler vedere è come non voler sentire e, invece, le parole sono pietre e le cose, dicono i firmatari dell’appello, vanno nominate per quello che sono.

    «Chi si indigna, nei media, tra gli intellettuali, nella politica, se si pratica un ferreo apartheid nei confronti di Rom, Sinti e Caminanti? – recita l’appello – E quante calunnie, quanti pregiudizi, azioni discriminatorie, sottrazioni di bambini alle loro famiglie saranno necessari perché ci si renda conto che nel nostro paese c’è una minoranza sistematicamente discriminata e perseguitata? Che per andare a scuola i bambini faticano il doppio degli altri? Ma chi li vede come scolari? Chi li ascolta?». Domande senza risposte se non quelle di un bel po’ di gente perbene, non importa se cattolica, ebrea o senza religione che sì, si è indignata, fortunatamente, e del quotidiano della Cei, Avvenire, che domenica scorsa ha dedicato l’apertura del giornale, un’intera pagina interna e la spalla nella home page del sito all’appello e a dare conto della significativa raccolta di firme che prosegue (annapizzo2014@gmail.com).

    Tre storie minime, esempi di una insopportabile «normalità»: in due mesi la ex sindaca di Roma ha fatto sgomberare due campi autorizzati in cui molti di quelli che li abitavano sono nati e cresciuti. Ma a molti di loro non ha «offerto» alcuna alternativa perché colpevoli di non aver voluto firmare un patto fasullo con il Comune. Molti di loro vivono ancora nelle loro scassatissime automobili ai margini dei campi ormai ridotti un cumulo di macerie. E allora la sindaca cosa fa? Manda i vigili a controllare che le auto/case abbiano l’assicurazione pagata, altrimenti c’è il sequestro. Secondo esempio: c’è una giovane donna rom che ha partorito un anno fa un bel bambino che le è stato rubato prima dalle assistenti sociali e poi dai tribunali perché quando era minorenne è andata in prigione per furti di motorini. «Pericolosa per sé e per gli altri». L’adozione resa necessaria «nell’interesse del minore». A nulla vale dire che non è più la ragazzina di allora, lei e il suo compagno, guardia giurata, vogliono il figlio e hanno i mezzi per mantenerlo. Sbagliato: lui viene licenziato perché la guardia giurata ha l’obbligo di portare l’arma ma la sua gli viene requisita perché convive con una persona «borderline».

    Infine: parecchi rom sono riusciti a sopravvivere, in tempi di pandemia, grazie al reddito di cittadinanza. Ma ora arrivano i controlli e se chi ne ha goduto non può dimostrare che vive in Italia da almeno dieci anni, l’appannaggio mensile decade e, dulcis in fundo, deve restituire gli arretrati fino all’ultimo euro. Pochi rom hanno i documenti in regola e, dopo quello che abbiamo raccontato, è purtroppo facile capire perché.

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