Per la procura di Torino le Ypg non hanno sconfitto l’Isis

In occasione dell’udienza sulla sorveglianza speciale contro cinque ex combattenti italiani, la pm Pedrotta ha ribadito che sono andati in Siria solo per imparare a usare le armi e, di conseguenza, per fare la rivoluzione in Italia.

di Chiara Cruciati (*)

«Rivoluzionari pericolosi». Così ieri la pm Manuela Pedrotta ha pensato di motivare di fronte ai giudici del tribunale di Torino la richiesta della procura di imporre la sorveglianza speciale a cinque torinesi, ex combattenti delle Ypg, le unità di difesa curde siriane.

«Non credo – ha detto – che siano andati in Siria per salvare la nostra società da una minaccia terroristica. Uno di loro ha scritto che “dopo l’Isis il nemico numero uno è la società capitalista”. Loro vogliono continuare la lotta in Italia». Siamo oltre quanto immaginato: la procura torinese – come annunciato da fatti e dichiarazioni – compie un passo politico, giudicare le idee dei cinque, Paolo Andolina, Jacopo Bindi, Davide Grasso, Fabrizio Maniero e Maria Edgarda Marcucci, sulla base delle loro stesse parole, dei loro scritti.

E arriva a dire che la lotta di Ypg e Ypj, che sabato celebravano la cacciata dell’Isis da ogni enclave occupata in Siria, non sia una lotta al terrorismo. Il tutto a una settimana dall’uccisione, per mano dell’Isis, del combattente Lorenzo Orsetti, commemorato ovunque in Italia: un partigiano che ha dato la vita per la libertà, così viene chiamato Orso non solo dai compagni ma anche da membri delle istituzioni.

«La pm ha insinuato che il ruolo delle Ypg non sia stato determinante nella sconfitta dell’Isis, in particolare quello degli internazionalisti – ci dice Davide Grasso – Secondo lei volevamo solo apprendere l’uso delle armi per utilizzarle in Italia. Cose che ha “dedotto” dai nostri scritti».

«(I cinque) si sono resi responsabili di condotte violente contro le forze dell’ordine in occasione di manifestazioni contro il Tav, le politiche contro l’immigrazione, gli avversari politici all’università», dice Pedrotta in aula. I giudici ascoltano e dopo sei ore di dibattimento fanno sapere che la decisione sull’eventuale applicazione della sorveglianza speciale arriverà entro 90 giorni, molto più delle tempistiche solite: «Di solito la decisione arriva in 15 giorni – continua Davide – ma in via eccezionale entro 90. C’è l’evidente volontà del collegio di evitare di decidere in un periodo di cordoglio della società per Lorenzo e a fronte di prese di posizione della società civile in merito. Vogliono decidere in un periodo in cui sia calato il silenzio ma il silenzio non cadrà».

I cinque ex combattenti hanno di fronte fino a tre mesi di attesa, prima di sapere se saranno privati della libertà in assenza di reato. La misura, introdotta in epoca fascista dal Codice Rocco, prevede il ritiro di patente e passaporto, il divieto di dimora, di assemblea e di partecipazione a eventi pubblici senza che sia stato commesso un crimine, ma solo sulla base di una presunta (dalla Digos che indaga e dalla Procura che accusa) «pericolosità sociale».

Pedrotta ritiene che la pericolosità sia insita nelle idee politiche degli accusati che, fatto il paio con l’addestramento militare ricevuto in Siria, li rendono «socialmente pericolosi». «Il nostro legale, Novaro, in un intervento di due ore – conclude Grasso – ha citato sentenze sia italiane che della Corte europea dei diritti dell’uomo che invitano i giudici a usare tali misure restrittive con molta ponderatezza».

Fuori dal tribunale un presidio protestava contro la Procura e nel pomeriggio un corteo ha espresso solidarietà ai cinque torinesi e commemorato Orso.

(*) articolo tratto da quotidiano il manifesto

 

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