Per non invocare un’altra «emergenza»

89esima puntata dell’«Angelo custode» ovvero le riflessioni di ANGELO MADDALENA per il lunedì della bottega

Per non invocare un’altra “emergenza” e per uscire da questa…. Il vignettista Natangelo, su Il Fatto quotidiano del 3 novembre disegna un orso polare con un pinguino sulla testa, in alto c’è scritto «Cambiamento climatico: una soluzione c’è»; sul petto ha il cartello “FORZA COVID!”. Un’istigazione al contagio selvaggio? O solo un modo disperato per dire che se non ci muoviamo dal basso, seriamente – non come i movimentini ambientalisti “griffati” e mediatici degli ultimi anni – ci rimane solo il covid per fermare il neoliberismo, ultima maschera del capitalismo.

All’incirca un anno fa GB (teologo e frate dei Servi di Maria) disse scherzando – a me e ad altri tre o quattro durante un pranzo nell’eremo dove abita – «Per fermare il capitalismo occorrerebbero almeno 10 pandemie». E io già pensavo di farmi fare una mascherina con scritto “Le polveri sottili uccidono”.

Il fine settimana scorso sono stato a La Spezia e ho presentato il mio libro A piedi in un mondo sospeso, anzi un firma-copie alla libreria Ricci. Non ho potuto fare una presentazione vera e propria, ma è andata meglio! E’ quello che fanno al livello più “modaiolo” certi presunti big della letteratura: l’autore si aggira in libreria per un’oretta e parla con chi entra indicando il suo libro. Per me è andata “meglio” perché ho venduto più libri (ricordando presentazioni con tanto di conferenza, chitarra e canzoni e due libri venduti su 15 persone) ma è andata “peggio” perché viene sacrificato il momento dell’incontro per scandagliare e discutere.

Io che sono all’antica, mi ero preparato il “discorso”, i passi scelti del libro ecc. Mi ero concentrato su una linea rossa, che voglio riportare qui.

Parto dalla sera prima della partenza per La Spezia: a Perugia con due persone che ho incontrato beviamo qualcosa al bar. Lei lavora al Cern di Ginevra. Quando abbiamo toccato il discorso dei mezzi di trasporto da pagare meno o rivendicare di renderli gratuiti (come da un anno e mezzo in Lussemburgo, tra l’altro) lei ha subito buttato lì la sua teoria: «Sì, sarebbe l’unico modo per salvare il Pianeta, perché poi dobbiamo pagare i mezzi di trasporto? Paghiamo per caso le strade dove camminiamo? Sì, con le nostre tasse, anche i mezzi pubblici paghiamo con le nostre tasse. Come non serve un biglietto per usare le strade, allo stesso modo dovrebbe essere sui mezzi pubblici».

Torniamo al libro A piedi in un mondo sospeso. Mi concentro solo su qualche passaggio, se no dovrei riportare tutta la scaletta della presentazione “immaginata”. A pag. 64 segnalavo l’obiezione di coscienza (di NF) al pagamento della tassa sui rifiuti di Perugia. A pag. 94 incontriamo gli scienziati Mauro Minelli e Antonella Mattei: il titolo del capitolo è “Sono le polveri sottili e non l’inquinamento in generale a influire su contagi e mortalità”. Minelli dice: «Tra marzo e maggio del 2020, in Italia, come in gran parte del mondo, si è fermato tutto. Non c’è stato traffico veicolare. Auto, navi, aerei erano tutti fermi. Si sono fermate [molte] industrie. Il tasso di emissione dei vari inquinanti, tra i quali ovviamente anche il pm2.5 e il biossido di azoto, è crollato come documentato dai Report del programma di ricerca legato al lancio del satellite europeo Copernicus- 5P. E proprio all’inizio dell’estate abbiamo avuto la riduzione importante del numero di casi di Covid. Poi, dopo il lockdown, abbiamo riaperto tutto e, conseguentemente, anche i livelli di inquinamento sono tornati a crescere. Allora, la seconda ondata è davvero stata causata solo dalla riapertura delle discoteche, delle scuole e di altri luoghi? Oppure – ha concluso Minelli – l’incapacità di bloccare la nuova avanzata del virus, che resiste ai colori delle zone e all’uso generalizzato di mascherine e misure di contenimento, potrebbe essere legata alla reale impossibilità di generare un abbattimento significativo dell’inquinamento, pari a quello ottenuto in occasione del primo lockdown».

Tornano in mente le parole “provocatorie” del GB citato all’inizio o quelle di Attilio Del Vinco (nel libro Se canti non muori, uscito a maggio 2020) e la vignetta di Natangelo.

Nelle ultime settimane sono passato dalla Val di Susa, sempre più militarizzata, e ho raccolto, oltre che testimonianze orali, un volantino dal titolo “Disastri in Valle ai tempi del Covid”. Alla fine del volantino questa frase: «Sbaglio o l’OMS ha dichiarato che il Covid colpisce maggiormente organismi esposti al particolato ed alle polveri sottili?».

Ho guardato la puntata di Report (su youtube, non ho il televisore) accusata di posizioni Novax solo perché solleva dubbi, basati su testimonianze anche istituzionali, sull’efficacia di green pass, vaccini e terza dose. A un certo punto quello che viene indicato come «un altissimo dirigente della Sanità» ha dichiarato: «La scelta di prolungare la durata del green pass è meramente politica e burocratica, succederà questo: quando ci si renderà conto che la protezione contro il contagio è quasi zero, aboliranno il green pass e renderanno obbligatorio il vaccino per alcune categorie, e a quel punto liberi tutti». Mi torna in mente quel che un anno fa disse Ilaria (autrice di un contributo nel libro Se canti non muori): «Si salva chi si vuole salvare» ma attenzione! Non è come dire “Si salvi chi può”, ma chi vuole, cioè chi ha voluto e saputo e saprà salvarsi dall’inganno “che si possa vivere in emergenza a vita”, “che la vita sia sopravvivenza”, “che un vaccino vi salverà” (vedi Giò Rutilante in A piedi in un mondo sospeso e nel monologo con chitarra Il canto degli invisibili).

Casualmente sto ascoltando Smisurata preghiera di De Andrè: «La maggioranza sta/come una malattia, come un’anestesia/come un’abitudine» mentre leggo (non casualmente) «L’epoca delle passioni tristi» di Miguel Benasayag e Gérard Schmit, pubblicato nel 2004. Consiglio in particolare il paragrafo L’emergenza come rimozione sociale della minaccia? E aggiungo una riflessione: più si cerca di vivere un’emergenza come minaccia permanente e meno si elabora quindi si rimuove la minaccia, evitando di affrontarla. Benasayag e Schmit fanno un esempio interessante rievocando l’emergenza mediatica del 1999 quando nell’Oceano indiano si era formata una nube tossica grande come gli Stati Uniti! Ebbene, dopo un anno, quando i media non ne parlavano più, gli autori del libro avevano consultato il Centro Nazionale di Ricerca, e avevano fatto queste “sensazionali” (ma rimosse!) scoperte: la nube tossica c’era ancora, continuava ad espandersi provocando danni all’ecosistema della regione. E non era una “notizia” del 1999, perché i ricercatori del CRNS avevano confermato che quella nube esisteva già da anni!


QUESTO APPUNTAMENTO

Mi piace il torrente – di idee, contraddizioni, pensieri, persone, incontri di viaggio, dubbi, autopromozioni, storie, provocazioni – che attraversa gli scritti di Angelo Maddalena. Così gli ho proposto un “lunedì… dell’Angelo” per aprire la settimana bottegarda. Siccome una congiura famiglia-anagrafe-fato gli ha imposto il nome di Angelo mi piace pensare che in qualche modo possa fare l’angelo custode della nuova (laica) settimana. Perciò ci rivediamo qui – scsp: salvo catastrofi sempre possibili – fra 168 ore circa che poi sarebbero 7 giorni. [db]

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Mariano Rampini

    Leggo i due spunti di riflessione proposti dall’amico Daniele e non ne sono felice. Mi spiego: in entrambi i libri (che non ho letto solo per ragioni di tempo) c’è un’analisi attenta di quanto sta accadendo. Una sorta di “unisci i puntini” della storica Settimana enigmistica, da cui dovrebbe emergere una visione della pandemia raffigurata come una sorta di occasione per il padronato (che pure della pandemia è stato vittima in non pochi casi) per rafforzare i vincoli su una coscienza collettiva simile a quella marxista nella quale una classe “il proletariato” attraverso la sua estensione operativa “la classe operaia” doveva contrapporsi, attraverso l’acquisizione di una coscienza di sé, a un padronato che fondava la sua forza proprio sul dominio esercitato sul proletariato. Nulla da dire a questo proposito. Se non che la classe lavoratrice di cui Marx auspicava l’unione quella unione non è mai riuscita a realizzarla completamente. E ai nostri giorni si assiste a una frammentazione estesa della parte “oppressa” della società. Non sono più solo gli operai a essere sfruttati: ogni tipo di forza lavoro subisce in modi più o meno evidenti (molti corrono sottopelle) forme di sfruttamento. A cominciare dalla enorme classe lavoratrice femminile (sicuramente più ampia che in epoca marxista con la crescita della possibilità di acquisire una preparazione culturale allora più o meno negata o concessa solo ad alcune loro esponenti) che più degli uomini soffre per forme di discriminazione ancora non ben codificate (la semplice condizione salariale delle donne che, anche a livelli apicali, si trovano un gradino più in basso dei loro omologhi maschili). La pandemia arriva dunque a rimescolare le carte, a offrire a chi è in grado di pagarsi le cure (e, soprattutto di lucrare su di esse: una battaglia che dovrebbe essere combattuta ogni giorno è quella sull’apertura dei brevetti dei vaccini) strumenti nuovi e del tutto incontrollabili per esercitare forme di oppressione delle classi di popolazione più fragili. Che oggi appaiono a loro volta estremamente frammentate: anziani, abitanti delle periferie, operai, impiegati di un ceto medio che non ha più alcuna capacità di controllo del proprio status lavorativo. E In questo continuo lavoro di “separazione” operato dalle forze padronali (non un vero e proprio “sindacato” ma certamente unite da strategie che si sono diffuse senza che sia stato avviato un “complotto” mondiale)ci ritroviamo ognuno bloccato sulla propria isola ad ascoltare voci che non hanno la forza di riunire sotto un’unica bandiera (meglio, sotto un’unica idea di riscatto sociale) questo arcipelago di “deboli”. L’unico messaggio comune che si può far passare è quello ambientalista ma rischia, senza una sorta di “piano quinquennale” di obiettivi concreti da raggiungere, di restare un messaggio vago e incerto. Basti pensare a quante e quali siano le “mosse” da compiere: modificare comportamenti alimentari, di acquisto, di rispetto delle aree verdi, il tutto condito con l’acquisizione di conoscenze approfondite senza le quali una vera coscienza ambientale non può formarsi. Faccio un esempio, quello dei miliardi (quanti, non ricordo…) di alberi da piantare in tutto il mondo. Se si comincia a piantare alberi che nulla hanno a che vedere con l’ambiente in cui vengono messi a dimora, si rischia di vederli morire o sovrastare la vegetazione esistente modificando pesantemente l’intero ecosistema. Ecco il punto. Giusto denunciare, essenziale farlo. Ma non basta. Se davvero si ha la voglia (la “gana” di cui parla spesso Montalbano nei romanzi di Camilleri) di cambiare qualcosa occorre mettere in campo professionalità diverse e coordinate. Ma da chi? Dagli stessi che, in un modo o nell’altro, hanno favorito la massiccia antropizzazione di zone dalle quali sono emersi i “nuovi” virus? E il cerchio si chiude. Per modificare gli attuali processi produttivi basta passare alle energie rinnovabili? Ma quali? Le pale eoliche incidono su paesaggio e percorsi di spostamento della fauna avicola, i sistemi solari sono ancora lontani da proporre una raccolta di energia sufficiente, i veicoli elettrici (buoni forse per i prossimi dieci anni) pongono già questioni sulla raccolta, estrazione e purificazione del litio necessario per le batterie (eppoi, ci sono piani per il recupero di quel materiale dalle pile esauste?). I messaggi che invitano all’unità delle fasce disagiate, vengono sovrastati dai richiami nazionalistici, razzisti e xenofobi della destra che, proprio nelle periferie raccoglie il grosso delle sue forze. E i proletariati di un tempo, dove sono? Le paure per il futuro sono un facile terreno di coltura per teorie repressive e proprio dove quelle paure, generate dalla mancanza di conoscenza, di cultura (dileggiata e messa alla gogna dai Governi berlusconiani) ma anche e soprattutto dalla coscienza della bellezza. Insomma a conti fatti ho la vaga impressione (ma forse è il pessimismo cosmico leopardiano che poco alla volta si è andato a sovrapporre al mio innato ottimismo) che la denuncia non basti. Io possiedo pochi mezzi culturali in campo filosofico ed economico ma ritengo che da lì debba nascere una nuova idea, l’immagine di un futuro prossimo (semmai riusciremo ad arrivarci) nel quale le forze sane della società facciano fronte comune e propongano nuove forme di aggregazione dell’arcipelago dei nuovi poveri, dei disagiati, dei dileggiati dal potere. Di più non posso fare che sperare e continuare a lanciare questa sorta di SOS attraverso la bottiglia mediatica offertami dai mezzi di comunicazione sociali. “Penitenziagite” gridavano i dolciniani e forse di un grido simile abbiamo bisogno tutti…

  • Occorre forse un chiarimento: citando i 2 libri (proposti dall’«amico Daniele») presumo che Mariano si riferisca alla mia recensione di «Umanità a perdere. Sindemie e resistenze» e al “vecchio” – ma imprescindibile, soprattutto per chi opera nel sociale – «L’epoca delle passioni tristi» (di cui qui sopra scrive Angelo Maddalena). Per il resto concordo con lui sia sul grande e drammatico “rimescolare delle carte” in corso, sia sull’urgenza di varare (dal basso) una sorta di “piano quinquennale” (o biennale?) sostenuto da “conoscenze approfondite” … invece di vaghissime buone intenzioni. Nel nostro grande arcipelago ci servirebbe che molte/i fra noi si organizzassero con la rabbiosa utopia di un Dolcino e con il “camminare” degli zapatisti ma anche con la saggezza di un Leonardo (magari marxista).

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