Perché Kant avrebbe amato Stanley Kubrick?

Lo racconta Giangiuseppe Pili nel suo ultimo libro e Fabrizio Melodia (noto astrofilosofo) intona peana

«Concetti, temi e forme sono espressioni del pensiero filosofico. Si può dire allora che Kubrick fu un filosofo? E la filosofia può analizzare il cinema senza sconfinare nella critica cinematografica che è tutt’altra cosa?». Con questo domande si apre il volumetto di 124 pagine, pubblicato dalla Editrice Petite Plaisance con il significativo titolo «Anche Kant amava Arancia Meccanica – La filosofia del cinema di Stanley Kubrick».

Il suo coraggioso autore, Giangiuseppe Pili, ha un curriculum di tutto rispetto. È infatti dottore di ricerca in filosofia e scienze della mente all’Università Vita-Salute San Raffaele a Milano nonché autore di studi di filosofia, storia, strategia e intelligence. Ha tenuto numerose conferenze e fra i suoi notevoli scritti, annovera il libro «Filosofia pura della guerra». È membro di diverse associazioni, fra cui la Società Italiana di Storia Militare e la International Studies Association. È inoltre fondatore del sito www.scuolafilosofica.com, uno dei migliori portali italiani filosofici. Per tacere della sua compenza con gli scacchi…

Con questo libro Pili trasporta il lettore nella comprensione di come il cinema possa essere un mezzo di riflessione filosofica e al tempo stesso mette in luce come i filosofi siano persone comuni calate nei problemi del loro tempo, pur vivendo una esperienza totalizzante come stile di vita, ovvero la pratica filosofica.

E quale migliore esempio di Stanley Kubrick, il regista filosofo?

Pili parte da una scena emblematica della cinematografia kubrickiana (e di ogni tempo): la scimmia che scaglia al cielo l’osso che ha appena usato come arma e che, con una sapiente ellissi, diventa un’astronave lanciata fra le stelle.

Ecco come Kubrick, nella sua riflessione filosofica, rende visivo un concetto – la tecnica al servizio dell’essere umano – partendo da un ambiente ostile ai primordi della sua storia dove ci si batte per sopravvivere.

Districandosi fra Hobbes e Rousseau, l’umanità viene rappresentata da Kubrick in modo molto diverso dall’immagine del filosofo inglese, la guerra del singolo contro i singoli, o del filosofo francese, ovvero il buon selvaggio. Essa è preda troppo spesso di pulsioni vorticose che distruggono l’apparato stesso della Ragione.

Quello che rimane fra l’osso-arma e l’astronave è il nulla? In questo caso interviene il monolite nero, artefatto ignoto mediante il quale Kubrick sembra rappresentare la possibilità di una conoscenza altra che non venga distrutta dalle pulsioni. E il finale, sottolineato dalle note dello Zarathustra di Richard Strauss, annuncia una speranza di rinascita per l’umano.

La fantascienza non è un genere ma una pratica filosofica di riflessione profonda sulla realtà? Pili analizza con finezza e vivacità la sinfonica varietà del cinema di Kubrick, con piglio socratico e coraggio d’avventuriero.

«Il cinema di Kubrick è una attenta analisi di tutto lo spettro della natura umana, sia essa concepita da sola (antropologia), sia essa pensata nelle infinite relazioni e interazioni (sociologia), ora fortemente conflittuali (filosofia della guerra), ora mediate da regole che consentono la cooperazione non necessariamente violenta (filosofia della pace). Inoltre Kubrick rappresenta sempre dei drammi morali in cui l’ambiguità nasce dalla duplice tensione che spinge l’essere umano a vedere il bene ma fare il male, come avrebbe detto Spinoza, a sua volta richiamando un passo di Agostino».

Per un viaggio di sola andata e di eterno ritorno fra le stelle, in compagnia della fidata cinepresa di Kubrick, vivamente consiglio «Anche Kant amava Arancia Meccanica» (per la modica cifra di 15 euro).

In “bottega” vedi Kubrick? Un filosofo con cinepresa, con l’intervista all’autore di Andrea Mameli, ma anche Giangiuseppe Pili: intorno a Kubrick a proposito del libro del regista «NON HO RISPOSTE SEMPLICI, IL GENIO DEL CINEMA SI RACCONTA» (in italiano da minimum fax)

 

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

Un commento

  • Molto interessante. Molto interessanti anche gli altri due articoli in Bottega segnalati.

    Richiamo queste frasi di Kubrick, a me già note e presenti nell’articolo “Giangiuseppe Pili: intorno a Kubrick”, qui in Bottega.

    “L’aspetto terribile dell’universo non è la sua ostilità, ma la sua indifferenza: se però riusciamo a fare i conti con questa indifferenza e ad accettare le sfide della vita all’interno dei limiti della morte (…), la nostra esistenza in quanto specie può avere un senso e una realizzazione autentici. Per quanto sia vasta l’oscurità, dobbiamo procurarci da soli la nostra luce”

    Da decenni ho la frase originale non tradotta “scolpita” in testa e conservata nel mio “cassetto essenziale” (non che sia sempre facile attuarla):

    “the most terrifying fact about the universe is not that it is hostile but that it is indifferent; but if we can come to terms with this indifference and accept the challenges of life within the boundaries of death (however mutable man may be able to make them) our existence as a species can have genuine meaning and fulfilment. However vast the darkness, we must supply our own light”

    [tra parentesi nel “cassetto essenziale” stanno anche le frasi di Italo Calvino, molto care a DB, che me le ha fatte conoscere molti anni fa: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”]

    Sì, Kubrick. Se potessi gli chiederei:

    … “we must supply our own light”

    In inglese lo intendo “dobbiamo *dare* la nostra luce” cioè una luce profonda, la cui sorgente è personale o anche collettiva ma è una sorgente “interna” mentre nella traduzione riportata il verbo è un altro: “dobbiamo *procurarci da soli* la nostra luce”

    “*dare* la nostra luce” a confronto con “*procurarci da soli* la nostra luce” (quindi una luce apparentemente esterna, la luce di una torcia piuttosto che la luce “immanente” della ragione umana, o dell’amore umano, o della passione, o della solidarietà, o dell’amicizia).

    Kubrick, che tipo di luce intende? Siamo noi esseri umani capaci di irradiare luce “immanente” o la nostra natura ci condanna a cercare/creare delle torce, delle sorgenti di luce “esterne”?

    E probabilmente Kubrick non avrebbe risposto, perché la maestria di Kubrick è anche la volontà di lasciare spazio all’ambiguo, all’ignoto, alla libera interpretazione e riflessione personale.

Rispondi a Ago Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *