Perché lascio la Cgil – Giorgio Cremaschi

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La ragioni per le quali ho restituito dopo 44 anni la tessera della Cgil sono semplici e brutali. Oramai mi sento totalmente estraneo a ciò che realmente è questa organizzazione e non sono in grado minimamente di fare sì che essa cambi.

La mia è quindi la presa d’atto di una sconfitta personale: ci ho provato per tanto tempo e credo con rigore e coerenza personale, non ci sono riuscito. Anzi la Cgil è sempre più distante da come avrei voluto che fosse. Non parlo tanto dei proclami e delle dichiarazioni ufficiali, ma della pratica reale, della vita quotidiana che per ogni organizzazione, in particolare per un sindacato, è l’essenza. Non è questo il sindacato che vorrei e di cui credo ci sia bisogno, e soprattutto non vedo in esso la volontà di diventarlo.

Naturalmente mi si può giustamente rispondere: chi ti credi di essere? Certo la mia è la storia di un militante come ce ne sono stati tanti, che ha speso tanto nell’organizzazione ma che non può pretendere di essere al centro del mondo. Giusto, tuttavia credo che la mia fuoriuscita possa almeno essere registrata come un pezzetto della più vasta e diffusa crisi sindacale di cui tanto si parla, e che come tale possa essere collocata e spiegata.

Nei primissimi anni 70 del secolo scorso a Bologna come lavoratore studente ho preso con orgoglio la mia prima tessera Cgil. Poi sono stato chiamato a Brescia per cominciare a lavorare a tempo pieno nella Fiom. Nella quale sono rimasto fino al 2012. Ho visto cambiare il mondo, ma se tornassi indietro con la consapevolezza di oggi rifarei tutte le scelte di fondo. Scherzando penso che io ed il mondo siamo pari, io non sono riuscito a cambiarlo come volevo, ma pure lui non ce l’ha fatta con me.

Quando ho cominciato a fare il “sindacalista” a tempo pieno questa parola suscitava rispetto. Io la maneggiavo con un po’ di timore. Il sindacalista era una persona giusta e disinteressata che raddrizzava i torti, era il difensore del popolo. Oggi se dici che sei un sindacalista ti vedi una strana espressione intorno, molto simile a quella che viene rivolta ai politici di professione. Sindacalista eh? Allora sai farti gli affari tuoi…

Questo discredito del sindacato è sicuramente alimentato da una disegno del potere economico e delle sue propaggini politiche ed intellettuali. Ma è anche frutto della burocratizzazione e istituzionalizzazione delle grandi organizzazioni sindacali. Paradossalmente oggi è proprio il sindacalismo moderato della concertazione, che ho contrastato per quanto ho potuto, ad essere messo sotto accusa. Negli anni 80 e 90 è stata la mutazione genetica del sindacato più forte d’Europa, la sua scelta di accettare tutti i vincoli e le compatibilità del mercato e del profitto, che ha permesso al potere economico di riorganizzarsi e riprendere a comandare. In cambio le grandi organizzazioni sindacali hanno chiesto compensazioni per se stesse.

Questo è stato il grande scambio politico che ha accompagnato trent’anni di politiche liberiste contro il lavoro. I grandi sindacati accettavano la riduzione dei diritti e del salario dei propri rappresentati e in cambio venivano riconosciuti ed istituzionalizzati. Partecipavano ai fondi pensione, a quelli sanitari, agli enti bilaterali, firmavano contratti che costruivano relazioni burocratiche con le imprese, stavano ai tavoli dei governi che tagliavano lo stato sociale, insomma crescevano mentre I lavoratori tornavano indietro su tutto.

Quando il mondo del lavoro è precipitato nella precarietà e nella disoccupazione, quando si è indebolito a sufficienza, il potere economico reso più famelico dalla crisi, ha deciso che poteva fare a meno dello scambio della concertazione. Ha dato il via Marchionne e tutti gli altri lo hanno seguito. Quelle concessioni sul ruolo e sul potere della burocrazia, che le stesse imprese ed il potere politico elargivano volentieri in cambio della “responsabilità” sindacale, son state messe sotto accusa. Coloro che più si sono avvantaggiati dei “privilegi” sindacali ora sono i primi a lanciare lo scandalo su di essi. I vecchi compagni da cui ho imparato l’abc del sindacalista mi dicevano: se al padrone dai una mano poi si prende il braccio e tutto il resto.

Ma nel mondo moderno certe massime sono considerate anticaglie, e quindi i gruppi dirigenti dei grandi sindacati son rimasti sconvolti e travolti dalla irriconoscenza di un potere a cui avevano fatto così ampie concessioni. Hanno così finito per fare propria la più grande delle falsificazioni sul loro operare. I sindacati hanno difeso troppo gli occupati e abbandonato i giovani ed i precari, questo è passato nei mass media. Mentre al contrario non si sono trasmessi diritti alle nuove generazioni proprio perché si è rinunciato a difendere coloro che quei diritti tutelavano ancora. I grandi sindacati han subito la catastrofe del precariato non perché troppo rigidi, ma perché troppo subalterni e disponibili verso le controparti. Questa è la realtà rovesciata rispetto all’immagine politica ufficiale, realtà che qualsiasi lavoratrice o lavoratore conosce perfettamente sulla base della proprie amare esperienze.

La condizione del lavoro in Italia oggi è intollerabile e dev’essere vissuta come un atto di accusa da ogni sindacalista che creda ancora nella propria funzione. Non è solo lo perdita di salari e diritti, il peggioramento delle condizioni di lavoro, lo sfruttamento brutale che riemerge dal passato di decenni. Sono la paura e la rassegnazione diffuse, il rancore, la rottura di solidarietà elementari, che mettono sotto accusa tutto l’operato sindacale di questi anni. Di Vittorio rivendicò alla Cgil il merito di aver insegnato al bracciante che non ci si toglie il cappello quando passa il padrone. Di chi è la colpa se ora chi lavora deve piegarsi e sottomettersi come e peggio che nell’800? È chiaro che la colpa è del potere economico e di quello politico ad esso corrivo, oggi ben rappresentato da quella figura trasformista e reazionaria che è Matteo Renzi. È chiaro che c’è tutto un sistema culturale e mediatico che educa il lavoro alla rassegnazione e alla subordinazione all’impresa. Ma poi ci son le responsabilità da questo lato del campo, quelle di chi non organizza la contestazione e la resistenza.

Lascio la Cgil perché non vedo nei gruppi dirigenti alcuna volontà di cogliere il disastro in cui è precipitato il mondo del lavoro e le responsabilità sindacali in esso. Vedo una polemica di facciata contro le politiche di austerità e del grande padronato, a cui corrispondono la speranza e l’offerta del ritorno alla vecchia concertazione. E se le dichiarazioni ufficiali, come sempre accade, fanno fuoco e fiamme sui mass media, la pratica reale è di aggiustamento e piccolo cabotaggio, nell’infinita ricerca del minor danno.

Il corpo burocratico della Cgil è più rassegnato dei lavoratori posti di fronte ai ricatti del mercato e delle imprese, come può comunicare coraggio se non ne possiede? Certo ci sono tante compagne e compagni che non si arrendono , che fanno il loro dovere, che rischiano, ma la struttura portante dell’organizzazione va da un’altra parte, è dominata dalla paura di perdere il residuo ruolo istituzionale e quando ci sono occasioni di rovesciare i giochi, volge lo sguardo da un’altra parte. Quando la FIOM nel 2011 si è opposta a Marchionne, quando Monti ha portato la pensione alla soglia dei 70 anni, quando si è tardivamente ripristinato lo sciopero generale contro il governo, in tutti quei momenti si è vista una forza disposta a non arrendersi. Quei momenti non sono lontani, eppure sembrano distare già decenni perché subito dopo di essi i gruppi dirigenti son tornati al tran tran quotidiano. E temo che lo stesso accada ora nel mondo della scuola ove un grande movimento di lotta non sta ricevendo un adeguato sostegno a continuare.

Non si può ripartire se l’obiettivo è sempre solo quello di trovare un accordo che permetta all’organizzazione di sopravvivere. Così alla fine si firma sempre lo stesso accordo in condizioni sempre peggiori. In fondo è una resa continua. Il 10 gennaio 2014 CGiL CISL UIL hanno firmato con la Confindustria un’intesa che scambia il riconoscimento del sindacato con la rinuncia alla lotta quotidiana nei luoghi di lavoro. Una volta che la maggioranza dei sindacati firma un contratto la minoranza deve obbedire e non può neppure scioperare. Se non accetti questa regola non puoi presentarti alle elezioni dei delegati. Se negli anni 50 del secolo scorso la Cgil, in minoranza nelle grandi fabbriche, avesse accettato un sistema simile non avremmo avuto l’autunno caldo e lo Statuto dei Lavoratori. Che non a caso oggi il governo cancella sicuro che le grida sindacali non siano vera opposizione.

Il movimento operaio nella sua storia ha incontrato spesso dure sconfitte, ma le ha superate solo quando le ha riconosciute come tali e quando ha cambiato la linea politica, la pratica e, a volte, i gruppi dirigenti. Invece nulla oggi viene davvero rimesso in discussione.

La Cgil ha sempre avuto una dialettica interna. Tra linee politiche, tra esperienze, tra luoghi di lavoro, territori e centro, tra categorie e confederazione. Dagli anni 90 il confronto tra maggioranza e minoranze si è intrecciato con quello tra la FIOM e la confederazione. In questi confronti e conflitti si aprivano spazi di esperienze ed iniziative controcorrente.

Oggi tutto questo non c’è più. Una normalizzazione profonda percorre tutta l’organizzazione e l’ultimo congresso le ha conferito sanzione formale. Non facciamoci ingannare dalle polemiche televisive e dalle imboscate di qualche voto segreto. Fanno parte di scontri di potere tra cordate di gruppi dirigenti, mentre tutte le decisioni più importanti son state assunte all’unanimità, salvo il voto contrario della piccola minoranza di cui ho fatto parte e di cui non si è mai tenuto alcun conto. Una piccola minoranza che al congresso ha raggiunto successi insperati là dove c’erano le persone in carne ed ossa, ma che nulla ha potuto contro i tanti risultati bulgari per partecipazione e consenso verso i vertici, costruiti a tavolino. Con l’ultimo congresso la struttura dirigente della Cgil ha deciso di ingannare se stessa. La partecipazione bassissima degli iscritti è stata innalzata artificialmente per mascherare una buona salute che non c’è. Ed il resto è venuto di conseguenza. A differenza che nel passato non ci son più problemi nella vita interna della Cgil, tutto è pacificato a parte i puri conflitti di potere. Ma forse anche per questo la Cgil non ha mai contato così poco nella vita sociale e politica del paese.

A questo punto non bastano rinnovamenti di facciata, sono necessarie rotture di fondo con la storia e la pratica degli ultimi trenta anni.
Bisogna rompere con un sistema Europa che è infame con i migranti mentre si genuflette di fronte all’euro. I diritti del lavoro sono incompatibili con una moneta unica i cui vincoli,come ha ricordato il ministro delle finanze tedesco, sono tutt’uno con le politiche di austerità.
Bisogna rompere con il PD ed il suo sistema di potere se non se ne vuol venire assorbiti e travolti.
Bisogna rompere con le relazioni subalterne con le imprese e ripartire dalla condizione concreta dei lavoratori .
Questo rotture non sono facili, ma sono indispensabili per ripartire e sono impossibili nella Cgil di oggi.
Certo fuori dalla Cgil non c’è una alternativa di massa pronta. Ci sono lotte, movimenti, sindacati conflittuali generosi e onesti, ma spesso distanti se non in contrasto tra loro. Ma questa situazione frantumata per me non giustifica il permanere in un’organizzazione che sento indisponibile anche solo a ragionare su queste rotture.

So bene che la svolta positiva per il mondo del lavoro ci sarà quando tutte le organizzazioni sindacali, anche le più moderate, saranno percorse da un vento nuovo. Ho vissuto da giovane quei momenti. Ma ho anche imparato che nell’Italia di oggi questo cambiamento sarà possibile solo se promosso da una spinta organizzata esterna a CGIL CISL UIL. A costruirla voglio dedicare il mio impegno.

Per questo lascio la Cgil da militante del movimento operaio così come ci sono entrato. Saluto con grande affetto le compagne e compagni di tante lotte che non condividono questo mio giudizio finale. Siccome li conosco e stimo, so che ci ritroveremo in tanti percorsi comuni. Saluto anche tutte e tutti gli altri compagni, perché ho fatto mio l’insegnamento di Engels di avere avversari, ma mai nemici personali.

Grazie soprattutto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori che hanno insegnato a me, intellettuale piccolo borghese come si diceva una volta, cosa sono le durezze e le grandezze della classe operaia. Spero di poter apprendere ancora.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

5 commenti

  • GiorgIo Chelidonio

    Non è mai troppo tardi? Della burocratica zone filo-padronale dei sindacati confederali ho dovuto accorgermene, sulla mia stessa pelle, nei primi anni ’80 : come dirigente provinciale della CGIL bancari avevo posta alla nostra dirigenza nazionale di allora il caso (allora senza precedenti ) del licenziamento di un dipendente. Stranamente uno che aveva da poco attivato un “sindacato giallo” e che improvvisamente veniva cacciato senza esplicitare le motivazioni. Ma per noi era sempre un lavoratore e inoltre un pericoloso precedente. Dopo un paio di mesi senza risposta telefoni alla segreteria nazionale chiedendo se avessero discusso con l’associazione bancaria il caso: mi fu risposto, a denti stretti, che si’ ne avevano parlato in segretaria ma solo a livello informale. E la risposta? ” A te lo posso dire…è perché voi rompete troppo…” Questa motivazione mi sembro’ talmente assurda che chiesi su quali basi fossero arrivati ad una simile conclusione: ” L’abbiamo chiesto all’associazione bancaria!” Ad una simile affermazione non mi restò che ribattere sarcastica mente : ” Puoi darmi il loro numero di telefono?” “Cosa vuoi chiedere?” mi rispose pensando che volessi bypassare. .. “per iscrivermi alla loro associazione” risposi “visto che il parere determinante per il mio sindacato é quello della parte padronale”. Inizio’ così la sfiducia che appena un anno dopo mi porto’ a scoprire il “do ut des” che già allora avviluppava organizzazioni sindacali e padronali in nome del “non disturbare il guidatore”. Il mio impegno di sindacalista non era più compatibile con questa melassa consociatIva e collusoria. Era il 1982 e da allora la mutazione sindacale si è progressivamente involuta!

  • Francesco Masala

    anch’io credo che se ne sia accorto un po’ tardino (come direbbe Forrest Gump), meglio tardi che mai.
    si è illuso per troppo tempo, o forse era ipovedente, o forse ha dovuto subire troppo.
    e però Giorgio Cremaschi mi è sempre stato simpatico, perché sembra il fratello piccolo di Enzo Jannacci.

  • Daniele Barbieri

    RICEVO QUESTO COMMENTO DI GIAN MARCO MARTIGNONI CHE MI PREGA DI POSTARLO IN “BOTTEGA”
    La mia opinione sulla traiettoria politico-sindacale e culturale di Giorgio Cremaschi l’avevo già espressa il 23 novembre 2014, recensendo in “bottega” il suo pamphlet «Lavoratori come farfalle», che la redazione ha correttamente titolato «Pansindacalismo».
    La sua lettera, dal mio modesto punto di vista, esprime la decadenza di un intellettuale piccolo-borghese, dimentico degli insegnamenti di Marx, Hegel, Lukacs, Gramsci ecc e pertanto non in grado di misurarsi con la totalità capitalistica e le sue drammatiche contraddizioni. Quelle che un intellettuale-militante brasiliano, qual è il compagno Ricardo Antunes, ha esposto con grande lucidità in una conferenza su «La nuova morfologia del lavoro», svoltasi presso la Camera del Lavoro di Milano il 7 settembre e organizzata da Punto Rosso, tanto che la sua riflessione si è soffermata sullo scenario della “tragedia umana” derivante dalla cosiddetta globalizzazione capitalistica. Gian Marco Martignoni (24. 09. 2015)

  • Pierluigi Pedretti

    Troppo lungo spiegare perché Cremaschi non mi ha mai convinto. Non ho voglia di mettermi a scrivere. Forse ha ragione Martignoni, a cui chiederei, però, di farmi sapere dove trovare la relazione che Antunes tenne a Milano mesi fa. Leggere voglio.

  • Gian Marco Martignoni

    lLa relazione di milano la conservo nel mio taccuino, giacchè non mi accadeva da tempo di ascoltare un compagno intellettuale cosi alla mano,sincero e organicamente documentato. Comunque,per le Edizioni Punto Rosso è apparso il suo importante libro”Il Lavoro e i suoi Sensi”, che avevo recensito molto positivamente su questo blog.

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