Perché non guardi?
Con questo racconto di Mark Adin (*) prosegue la serie dei «Fantastici saba-quattro», ovvero 4 imperdibili letture per l’agosto in bottega.
Dio non sa mai dove guardare. Deve essere proprio così, o forse è cieco totale. Deve essere anche questo il motivo per il quale Giò Catena stava prendendo l’ultima sprangata, quella che gli avrebbe consentito di conoscerlo personalmente. Lui si aspettava che intervenisse almeno per sottrarlo a quella ferrea mazzata inferta con fiammata d’odio, dritta sulla fronte. Invece no.
Dio non intervenne. E Giò Catena ci restò malissimo quando il display si spense, e non ci fu nemmanco il paradiso. Lui il paradiso l’aveva immaginato più di una volta, in solitudine e con un po’ di vergogna, in una intimità presidiata con l’attenzione di chi non vuol scoprirsi. Un duro non ci pensa a queste cose.
La sua vita era stata dominata dalla violenza, sin da quando era stato abusato dal padre che, per non fare torti alla sorellina, si era fatto anche Giò. A sette anni, quando non capisci ancora la differenza tra il bene e il male, ma impari sempre e soltanto partendo dal male, per poi fermarti lì. Appunto. Dove il male ti fa male e basta: soltanto questo impari.
Quando Giò Catena si chiamava ancora Giovannino erano pure schiaffi e calci e pugni dei ragazzi più grandi. Lui cercava di scappare, ma quelli lo trovavano sempre e lo menavano, gli torcevano il braccio fino a farlo gridare di dolore. Godevano a fargli male. Gli schiacciavano il viso sotto le suole delle scarpe. E gli ammollavano pugni in pancia talmente forti che una volta si era pisciato sotto.
Ma più di tutto, ciò che più lo terrorizzava, lo afferravano in due, immobilizzandolo, mentre il terzo gli passava una vecchia sciarpa lurida sotto la gola stringendo sino a quando Giovannino strabuzzava gli occhi e cadeva come un sacco vuoto, svenuto, vinto dall’asfissia, come abbattuto da una scossa elettrica. In quel preciso istante, e non un attimo dopo, l’operatore sapiente allentava la sciarpa e la vittima del giorno, aiutata da un paio di schiaffoni, rinveniva. Era un gioco praticato al Beccaria, quando i sorveglianti fingevano di non vedere. Così, per far giocare un po’ quei poveri ragazzi reclusi, che non facessero di peggio.
In quegli attimi di perdita di conoscenza Giovannino aveva visto il paradiso, con tanta calma nel mondo, tanti colori e tanta pace e si sentiva bene, era felice. Era quello il paradiso. Senza dubbio. Era una visione di bene abbondante, di pace, di cose belle. Ed era quello che Giò Catena si sarebbe aspettato come conseguenza dell’ultima mazzata. Vedere il paradiso, che appunto Dio lo avrebbe fatto entrare. Invece Dio non era intervenuto e tutto si era spento come si spegne un televisore. Più niente. Aveva avuto ragione a bestemmiarlo, a chiamarlo con tutti i nomi della rabbia e del risentimento. Dio l’aveva fregato.
Giovannino aveva incominciato a portarsi in tasca una catena di bicicletta e con quella, esasperato dalle umiliazioni, aveva aperto uno squarcio sulla faccia di uno dei suoi aguzzini, usandola come una frusta. Da quel momento, nessuno lo aveva più toccato. Si era così guadagnato un posto in società – e un nome, appunto: Giò Catena. Ed era già qualcosa.
Sul fatto di essere visti da Dio, si potrà dire che Quello si deve pur occupare di un sacco di cose, e sulla terra siamo tanti, specialmente ‘sti minchia di Cinesi, ma se è – come si dice – in ogni luogo, allora porca madonna dove cazzo era quando la sbarra di ferro è calata per sempre spaccandomi il cranio come un’anguria? Eh sì, dove cazzo eri Dio degli eserciti, Dio del cielo, Dio padre e compagnia cantante? Dove cazzo eri?
In quell’ultimo istante di tempo verticale, di frazione di tempo incalcolabile sull’orologio, che certi istanti immiseriscono se uno li cerca sul quadrante del cucù, Dio si era dato.
Certi istanti si dilatano sino ad aprirsi a categorie sconosciute nelle quali il computo del trascorrere del tempo è impossibile e immisurabile con un orologio del cazzo e neppure con l’orologio atomico di Greenwich, perché il tempo a volte si può fermare e può passare da quello orizzontale del calendario a quello verticale della vertigine profonda, libera dal ticchettare dell’ordigno maledetto.
Il tempo può cambiare direzione e invece di fluire nello spazio si può procurare una spontanea emorragia interna e perdersi nell’istante, allargarsi a macchia d’olio dentro e non fuori di noi, riempire ogni interstizio del momento, dilatarlo sino a farlo durare in qualche altra provvidenziale dimensione. In quel caso anche un solo secondo non è uguale a un altro.
Alza per l’ultima risolutiva volta il braccio, l’infame, come il tennista nel servizio vincente, lo alza in uno slancio conosciuto dagli uomini sin da quando Caino si rivolse al fratello e gli disse “Prendi, bastardo”, e con una pietra fracassò il capo al fratellino. Non sono il tuo guardiano, sono il tuo boia, coglione, e adesso l’hai capito.
Dicevamo che l’infame alza la sbarra di ferro e la proietta sulla fronte di Giò steso a terra senza più forze, che già non sente più niente, non c’è dolore e non c’è più paura. Giò aspetta il paradiso, coperto del suo sangue, e Dio che lo guardi. E se mai è vero che uno, quando sta per tirare le cuoia rivede la propria vita come in un film, Giò Catena vede un gran film di merda e, anche per questo, aspetta liberatorio il paradiso.
E se non guardi me, in questo momento topico, in questo ultimo istante, si può sapere che cazzo stai guardando? Messi che tira in porta? La quotazione del Rand sudafricano? Il concerto di Giovanotti? Che cazzo guardi, stramaledetto vecchio distratto con la barba bianca? Rondini? Avvoltoi? Mia sorella sottoterra che fa mangiare i vermi? Chi? Chi?
Intanto la sbarra di ferro cala veloce con tutta la sua forza assassina. Quella sbarra non è una sbarra qualsiasi. Quella è roba mia. Quante volte l’ho usata per alzare le saracinesche dei negozi quel tanto che bastava per far penetrare la benzina e dare fuoco, o tirare giù la vetrina e prendermi quello che trovavo. Palanchino, piede di porco, chi lo chiama così. Un’asta, di ferro pieno, il cui compito è scardinare, sollevare, far leva, insomma fare lavoro, produrre, faticare. Che ora mi sta arrivando dritta in fronte, pesante come una nave da crociera la cui massa precipita e si concentra tutta in un solo punto, nella durezza compatta di una sbarra di ferro arrugginito che mi sprofonda il cranio.
L’ho sempre saputo che sarebbe potuta finire così. I malamente crepano per la strada come i cani senza padrone. Ma io credevo che ci fosse almeno il paradiso che mi avrebbe fatto stare tranquillo, una buona volta a casa e tranquillo per sempre, con tutto ciò che mi sarebbe servito, con lo sguardo su una immensa finestra che dà sulle cose del mondo, e avrei visto tutto dovunque, sarei stato sereno. Perché dal paradiso tutto si vede e io tutto avrei visto. Solo Dio non mi vede.
Del resto io sono passato molte volte inosservato: dalle donne, ad esempio. Non so perché. Forse perché ne avevo troppo voglia e loro lo sentivano, e loro erano attratte da quelli che ne avevano voglia, sì, ma non lo davano a vedere. E più sembrava che non gliene fregasse niente e più loro gli andavano dietro e sbavavano. Sbagliavo tattica: io quando ne vedevo una, bella o brutta, la guardavo forte, come un affamato guarda la bistecca, e mi toccavo il pesce e facevo gesti che non era necessario tradurre, e un paio di volte l’ho pure tirato fuori, il pesce, e me lo son menato. Lì, davanti a loro. E mi è piaciuto. Così loro non mi guardano, quando passo girano lo sguardo come se non ci fossi, e quando mi avvicino chiamano padri o fratelli o anche gli sbirri e io me ne devo andare.
Sapevo che non sarei arrivato alla pensione, ero preparato a questa fine. Ma Dio, quello no, non pensavo proprio che nel momento clou mi avrebbe ignorato. Avevo sempre creduto che ci fosse, Dio, alla mia maniera. O meglio, diciamo che nonostante le bestemmie, nonostante la mia vita, avevo sempre ritenuto che verso l’uscita di scena Lui si sarebbe fatto vivo, avrebbe visto, sarebbe stato lì con me. Perché no? Perché a me no? Che cazzo gli ho fatto?
Il ferro finalmente arriva e mi spacca la testa. Mi si spegne il pensiero. Più niente. Nemmeno il buio della mia vita infame. Nemmeno il tetano, non ce n’è il tempo. Resta l’incazzatura fissata nei miei occhi – Dio non mi vede! – i miei due occhi restano aperti anche da morto, perché il destino è stronzo. Sembra quasi che ancora possano vedere. Sembra che dicano: “Fanculo, se non mi stai guardando tu, ti sto guardando io.”
Mark Adin, 28/6/2016
(*) Questa “bottega” è un bel luogo – o almeno io la vedo così – ma sarebbe ancora più splendente, fascinosa e squassante se ogni lunedì alle 12 ancora ci fosse “il racconto” di Mark Adin, come a lungo è accaduto. Siccome la vita è strana, si sa, e comunque scrivere bene costa fatica e richiede tempo, a un certo punto Mark Adin ha mollato il lunedì; però qui aspettiamo che prima o poi torni e gli abbiamo lasciato lo spazio delle 12: come in certe case di una volta dove a tavola c’era sempre un posto in più apparecchiato… perché se arriva l’ospite deve sapere che era atteso, che è gradito. Nel frattempo Mark Adin si è trasformato in Marco Peressi, o forse lo è sempre un po’ stato, e ha fatto un libro del quale io ho tessuto grandi elogi e spero di avere convinto un po’ di voi a leggerlo. Sotto quella cresta da brontosauro con gastrite, Mark Adin è gentile – “umano è” direbbe Philip Dick che però Marco Peressi non legge – così quando gli ho chiesto un racconto per agosto lui lo ha tirato fuori dal simil/marsupio e io quasi mi sono commosso. (db)
Dio non esiste. Esistono gli dei e i dannati. L’errore dei dannati è proprio non sapere di essere dei…… Ma forse è troppo complicato da dire…..