Perché protestano le lavoratrici di Dhaka: il virus…

… colpisce la filiera globale degli abiti

di Marina Forti (*)

A seguire l’appuntamento (14 maggio, ore 17)  in diretta Facebook della CAMPAGNA ABITI PULITI

A Gazipur, nella periferia industriale di Dhaka in Bangladesh, le lavoratrici di due fabbriche di abbigliamento protestano da due giorni consecutivi contro la decisione di pagargli solo il 60 per cento del salario di aprile. Altre operaie protestano perché i salari comunque non sono arrivati, e neppure quelli di marzo.

Da almeno un mese la periferia industriale di Dhaka è percorsa da proteste, sit-in improvvisati davanti a fabbriche dai cancelli chiusi. Migliaia di lavoratori e soprattutto lavoratrici: mascherine sul viso, cartelli scritti a mano. Molte hanno arretrati di diversi mesi. Altre si sono viste comunicare il licenziamento con un messaggio sul telefonino. Sono operaie dell’abbigliamento, industria che fa l’83 per cento dell’export del loro paese, un fatturato di circa 40 miliardi di dollari nel 2019: ma ora non ricevono i salari.

Ecco un risvolto forse poco evidente della pandemia di coronavirus. Quando in Europa o negli Usa i negozi di abbigliamento hanno chiuso, per rispettare il “distanziamento sociale”, milioni di lavoratori sono rimasti senza salario in paesi lontani e a basso reddito: come il Bangladesh, secondo esportatore mondiale di abbigliamento dopo la Cina. Però, mentre i paesi occidentali si preparano a spendere centinaia di miliardi per sostenere le imprese e i lavoratori di casa propria, non ci sono “ammortizzatori sociali” per chi ha perso il reddito in questa industria globalizzata.

“Non abbiamo i soldi e neppure diritto a un sussidio. Cosa mangeremo?”, diceva una giovane donna, Alyea, al microfono di un cronista. “Mio marito guidava un motorisciò, ma da quando c’è il lockdown non guadagna più nulla. Ora la fabbrica ha chiuso, come sfameremo i nostri figli”, si chiedeva Sheuli, una sua collega. Un’indagine condotta dall’Università del Bangladesh ha constatato che quasi metà (il 47%) delle lavoratrici dell’abbigliamento in questo momento non ha alcun reddito.

A collegare i negozi chiusi in Europa alle lavoratrici senza salario in Bangladesh è la global supply chain, il meccanismo della “filiera globale”. I proprietari dei marchi di abbigliamento non producono nulla: fanno cucire i propri modelli a fabbricanti sparsi dal sub-continente indiano all’Indonesia. Una decina di paesi dell’Asia meridionale e sud-orientale producono oltre il 60 per cento degli abiti venduti in Europa, Giappone e Stati uniti (il resto è prodotto nell’est europeo, Turchia, Nord Africa, o in Centro America per il mercato americano). Il Workers Rights Consortium, organizzazione internazionale per il monitoraggio dei diritti del lavoro, stima che questa industria occupi almeno 50 milioni di persone in tutto il mondo.

Sit-in di operaie dell’abbigliamento a Dhaka, aprile 2020

Si tratta di una relazione commerciale, in cui il marchio occidentale è il “compratore”, e chi produce gli abiti è il “fornitore”. Nel mezzo ci sono numerosi passaggi, spesso poco trasparenti. Il proprietario del marchio piazza la sua ordinazione per lo più attraverso intermediari; tra i fornitori si aggiudica la commessa chi offre il prezzo più basso. Se i tempi incalzano, il fornitore principale subappalta parte del lavoro a produttori più piccoli. Questo sistema garantisce ai marchi dell’abbigliamento flessibilità, costi bassi, e anche la possibilità di ignorare in che condizioni sono cuciti quegli abiti – come risultò evidente in modo drammatico sette anni fa, quando a Dhaka crollò un edificio industriale uccidendo 1.500 persone.

La crisi provocata dal Covid 19 però ha ingrippato la filiera. “Le marche internazionali che importano dal Bangladesh hanno cancellato le ordinazioni. E gli imprenditori locali dicono che poiché non sono stati pagati, non possono pagare i lavoratori”, osserva Kalpona Akter, la più nota leader sindacale del paese (operaia dell’abbigliamento da quando aveva 15 anni, oggi dirige il  Bangladesh Center for Workers Solidarity).

In altre parole: crollate le vendite di abbigliamento, le aziende occidentali hanno cercato di contenere il danno scaricandolo sui “fornitori”, i quali spesso non hanno margini. In Bangladesh l’Associazione nazionale dei produttori e esportatori di abbigliamento (Bgmea, che conta circa 4.000 imprese associate con oltre 4 milioni di dipendenti) afferma che da marzo a tutto aprile ordinazioni per 3,5 miliardi di dollari sono state cancellate causa il coronavirus. Lo stesso un po’ ovunque: la Federazione internazionale delle manifatture tessili (Itmf) a fine aprile stimava che le ordinazioni globali sono diminuite del 41 per cento.

Molti compratori hanno rifiutato di prendere (e pagare) ordinazioni già fatte, perfino già pronte alla consegna, invocando clausole di force majeure. I contratti di solito non contemplano l’emergenza sanitaria come “forza maggiore”, ma “pochi produttori possono permettersi di fare causa a clienti da cui sperano di ricevere ordinazioni in futuro”, osserva il Workers Rights Consortium (Who will bail out the workers that make our clothes?, marzo 2020 ). Dove le ordinazioni non sono cancellate, le grandi marche chiedono di rinegoziare: “In India, Bangladesh e Sri Lanka abbiamo notizia che chiedono ai fornitori sconti fino al 30 per cento”, osserva la Asia Floor Wage Alliance (Afwa), rete di organizzazioni sociali e di lavoratori fondata nel 2007 per unire le forze nei paesi produttori in una comune battaglia per salari decenti e per la libertà di associazione sindacale.

Le vittime “collaterali” sono i lavoratori. La rete Afwa segnala frequenti casi di salari non pagati, o pagati con grande ritardo; a volte invece del salario vengono offerti prestiti da restituire quando riapriranno le fabbriche, con o senza interessi. Alcuni paesi (India, Bangladesh, Sri Lanka, Cambogia) hanno annunciato aiuti per le imprese dell’abbigliamento, ma le garanzie per i lavoratori, quando ci sono, “sono solo per i dipendenti a tempo pieno, non per le lavoratrici con contratti temporanei”. In molti casi i lavoratori devono accettare sospensioni dal lavoro non pagate. Molti perdono il lavoro. In Sri Lanka il 30 per cento delle operaie dell’abbigliamento è stato licenziato; anche in Indonesia e Cambogia si segnalano licenziamenti massicci, segnala la Asia Floor Wage Alliance (“The emperor has no clothes: garment supply chain in the time of pandemic”, aprile 2020). Un’indagine condotta dall’Università del Bangladesh dice che quasi metà (il 47%) delle lavoratrici dell’abbigliamento in questo momento non ha alcun reddito.

Le marche dell’abbigliamento, le catene di distribuzione e i governi devono contribuire a “mitigare gli effetti della crisi provocata dal Covid 19 per i lavoratori della filiera globale”, sostiene la Clean Clothes Campaign (Campagna abiti puliti, rete internazionale di pressione per imporre alle marche dell’abbigliamento meccanismi di tutela dei lavoratori): in un appello diffuso in aprile chiede alle marche occidentali di onorare i contratti, assicurarsi che i propri fornitori paghino i salari, contribuire ai fondi di welfare, garantire che nelle fabbriche attive siano osservate misure sanitarie adeguate. In un blog, la Campagna raccoglie aggiornamenti quotidiani dai paesi produttori.

“Quando il movimento sindacale ha cominciato a citare per nome le marche che non hanno pagato le ordinazioni fatte, alcune si sono impegnate a onorare i contratti”, faceva notare Kalpona Akter. Il Workers Rights Consortium infatti ha avviato un osservatorio sulle maggiori marche di abbigliamento: risulta che nomi di peso come Adidas, H&M o Inditex (proprietario di Zara) si sono impegnate a pagare per intero ma molti altri, da Walmart a Arcadia (proprietario di molte marche note), non rispondono.

Il 29 aprile in Bangladesh alcune centinaia di fabbriche hanno riaperto, nonostante molti timori per la sicurezza. Ma centinaia di migliaia stanno ancora aspettando il salario.

Lavoratrici si lavano le mani prima di entrare in fabbrica. Dhaka, maggio 2020

(*) ripreso da terraterraonline.org – Una prima versione di questo articolo è uscita su Area, quindicinale di critica sociale, Lugano

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