Perù: prolifera l’estrazione mineraria illegale

di David Lifodi

La sospensione del progetto minerario Conga alla multinazionale statunitense Newmont non è mai andato giù: nel Perù delle decine di conflitti ambientali legati all’estrazione mineraria, la transnazionale Usa, cocciuta, non si arrende. Non solo Newmont vuol riattivare Conga, ma anche Yanacocha.

Uno degli alti dirigenti di Newmont, Javier Velarde, sostiene che è possibile produrre il rame con un nuovo tipo di minerale, ad esempio quelli sulfurei che si trovano sotto i giacimenti d’oro: tra due o tre anni, confida, si vedranno dei risultati concreti. Nel frattempo, senza paura di coprirsi di ridicolo, Newmont annuncia lo sviluppo del progetto Yanacocha Verde (sic!), ma soprattutto, pur di non rinunciare a Conga, l’impresa Usa è disposta anche a riattivare il progetto in scala ridotta, in collaborazione con i soci peruviani di Compañia de Minas Buenaventura. Il Perù è il quinto produttore mondiale di oro e, dal 2011, il Proyecto Minas Conga è stato al centro di dure contestazioni da parte dei movimenti sociali contrari all’estrazione mineraria. Attualmente il progetto è sospeso dal 2012, a seguito della violenta repressione dei militari che causò cinque morti tra i manifestanti nella città di Cajamarca, dove si trova il più grande giacimento aurifero del continente latinoamericano. Il progetto Minas Conga prevedeva un investimento di 4800 milioni di dollari, necessari per svuotare l’acqua da quattro lagune e procedere con l’estrazione di oro e rame. Una follia a cui si sono opposti il governo regionale di Cajamarca e la stessa città di Cajamarca. Nelle elezioni amministrative peruviane, svoltesi nello scorso mese d’ottobre, il leader della protesta antimineraria, Gregorio Santos, è stato rieletto alla guida del governo regionale di Cajamarca, una delle regioni più povere del paese, con il 44% dei voti, grazie al suo Movimiento de Afirmación Social. Un dettaglio non trascurabile: dal giugno 2014 Santos si trova in carcere, a Lima, per un caso di presunta corruzione all’epoca in cui era governatore, forse un trabocchetto per mettere politicamente fuori gioco uno dei principali esponenti della protesta. Quanto a Yanacocha, la più grande miniera a cielo aperto dell’America Latina, il Centro Documentazione Conflitti Ambientali scrive: “Il tipo di estrazione prevede l’utilizzo di esplosivo e la rimozione di una grande quantità di terra, circa 600.000 tonnellate al giorno. Per la separazione si utilizza il metodo della lisciviazione, che prevede l’uso di grandi quantità di acqua e cianuro, 50 milligrammi ogni litro d’acqua. Questo processo provoca la contaminazione o la totale scomparsa di canali di irrigazione, di sorgenti o di intere lagune come nel caso di Yanacocha”. Yanacocha e Conga, purtroppo, non sono gli unici fronti minerari aperti. Nel Parque Nacional Huascarán, 340mila ettari nel dipartimento di Áncash (sierra norte del paese), è vietata qualsiasi attività di estrazione mineraria dal 1975: nella riserva naturale del parco si trovano ghiacciai e lagune la cui sopravvivenza, a breve, potrebbe essere messa a forte rischio. Sembra che, all’interno del parco nazionale, da alcuni mesi proliferino circa tremila accampamenti minerari illegali con l’accondiscendenza dei comuneros di Vicos nella zona Quebrada Honda: qui i camionisti che lavorano al soldo delle imprese riescono ad avere accesso grazie ad un permesso di estrazione emesso in data antecedente al 1975, come documentato dal programma televisivo Cuarto Poder. La Dirección Regional de Energía y Mina de Áncash per il momento ha evitato di recarsi sul posto a causa della forte aggressività dei comuneros. L’utilizzo di sostanze nocive legate all’estrazione mineraria, dal cianuro al mercurio, ha già contaminato terra, aria, acqua e, di conseguenza, mette a repentaglio anche le vite umane. Il rischio del Parque Nacional Huascarán è quello di trasformarsi in una nuova La Oroya, la città della cordigliera andina nota per essere tra le più inquinate al mondo: i suoi abitanti sopravvivono con altissimi livelli di piombo e arsenico nel sangue. L’estrazione mineraria è pratica comune in quasi tutte le regioni del paese, dove le imprese non sono responsabili soltanto per la distruzione dell’ecosistema ambientale, ma anche per il tessuto sociale che viene stravolto dalla presenza delle multinazionali. Lo sfruttamento degli operai, l’utilizzo del lavoro infantile e il diffondersi della prostituzione rappresentano gli effetti collaterali derivanti dalle imprese minerarie che decidono di stabilirsi in un determinato luogo. Alcuni mesi fa la Red peruana por una Globalización con Equidad ha pubblicato il libro Caminos de Transición. Alternativas al extractivismo y propuestas para otros desarrollos en el Perú, in cui propone delle alternative al capitalismo estrattivista di cui è sostenitore il presidente del paese Ollanta Humala, che nella sua campagna per le presidenziali era riuscito ad ingannare indios e campesinos indossando il poncho rosso e promettendo che mai, sotto di lui, le imprese minerarie avrebbero avuto libero accesso in Perù, trasformatosi invece in uno dei paesi più pericolosi per gli attivisti ambientali. Secondo l’organizzazione internazionale Global Witness, tra il 2002 e il 2014 in Perù hanno trovato la morte almeno 57 difensori dell’ambiente, ma più della metà dei crimini sono avvenuti negli ultimi quattro anni: peggio del paese andino solo Brasile, Honduras e Filippine. Le proteste delle comunità indigene e contadine per il momento restano inascoltate: le mafie legate all’estrazione mineraria proliferano nella più totale impunità nell’Amazzonia peruviana, la cui deforestazione è raddoppiata rispetto al 2012. Del resto, il Perù è sempre stato un terreno di conquista per le multinazionali, soprattutto a causa dei presidenti che si sono susseguiti alla guida del paese: grazie a personaggi come Alan García e Ollanta Humala la polizia ha avuto mano libera nel reprimere qualsiasi tipo di protesta.

Dal punto di vista dei conflitti minerari, la situazione in Perù rimane caldissima e non è detto che non si ripetano altri episodi drammatici come quelli legati alle proteste contro il Proyecto Conga: eppure le alternative all’estrazione mineraria ci sono, basterebbe solo ascoltare le proposte dei movimenti sociali.

Redazione
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2 commenti

  • COLOMBIA. PARLANO LE VITTIME
    (Gianni Sartori)

    Intervista con Enrique Cabeza. Insieme a Yomaira Mendoza, ha recentemente portato a conoscenza dell’opinione pubblica europea le esperienze di una comunità afro-colombiana che ormai da venti anni cerca di tener fuori dal proprio territorio la violenza e le minacce dei latifondisti. Nel 1996 erano iniziati attacchi e massacri contro le comunità che di conseguenza erano state costrette a fuggire e nascondersi. Nei campi di rifugio hanno cominciato a organizzarsi per ritornare, si è trattato di un processo organizzativo lungo e difficile dato il persistere della violenza. Nel 2006 è stata realizzata la prima Zona Humanitaria del Curvaradò.

    D. Cominciamo con un riepilogo della vostra vicenda nel contesto colombiano attuale…

    R. Anzitutto devo dire che lo Stato colombiano, il governo attuale( presidente J.Manuel Santos) ha compiuto passi importanti nella lotta per tentare di restituire la terra ai contadini. Ma, nonostante una legge (n. 1448) per la restituzione della terra e nonostante il presidente Santos abbia collocato il caso delle Comunità di origine africana della Cuenca del Rio Curbaradó e del Rio Jiguamiandó (nel nord-ovest del Paese) come esempio emblematico di restituzione delle terre ai legiitimi abitanti (in sostanza “fuori dalla legge stessa,, un caso speciale ‘per accelerare l’iter della 1448 che prevedeva circa dieci anni per entrare in vigore, direttamente attraverso la Corte Costituzionale con la sentenza 448), ma nonostante ciò,dicevo, i latifondisti colombiani, a capo di formazioni paramilitari, mantengono ancora il controllo applicando le devastanti culture intensive e l’allevamento. E, aggiungo, anche nonostante la stessa Corte Costituzionale abbia emesso ben 4 sentenze di seguito per ordinare la restituzione della terra.
    D. Potresti riassumere quali sono state le varie direttive emesse in questi anni, in particolare dalla fine degli anni novanta e le vostre iniziative a riguardo?
    Potresti poi parlarte di alcune delle principali violazioni dei dfiritti Umani (uccisioni, minacce…) ai danni della votra comunità?

    R. Il 1997, anno nero per la nostra comunità, era l’anno in cui la terra avrebbe dovuto essere espropriata allontanando nel contempo la violenza dal territorio.
    Invece nel “Settembre nero” di quell’anno i paramilitari e i militari costrinsero la gente a fuggire nelle periferie metropolitane o nella foresta (rifugiati inteni). Poi, per obbligare le persone a firmare i documenti con cui cedevano i diritti sulla terra, i paramilitari sono andati a cercare le famiglie una per una dove si erano rifugiati costringendoli con le minacce.
    Da allora la situazione è rimasta sostanzialmente immutata. Nonostante alla sentenza della Corte Interamericana per i Diritti Umani (CIDH) si siano poi aggiunte come dicevo quelle della Corte costuzionale colombiana. Oltrte alla prima, 448, altre quattro ( 222, AO45, 299, 112) e anche due indagini informative tecniche dell’Istituto di Sviluppo rurale (INCODER). Noi avevamo denunciato le inadempienze alla Corte e la Corte aveva ordinato all’INCODER di procedere in tal senso.
    Le indagini stabilirono che la terra apparteneva di diritto alle comunità e che era stata espropriata illegalmente usando la violenza. Ancora oggi risultano come proprietari gli stessi comandanti delle milizie paramilitari responsabili della dura repressione contro le comunità. Sempre dalle indagini emerse come quelle terre venissero utilizzate principalmente per l’allevamento estensivo e per la coltivazione della palma da olio, una monocultura devastante per l’ambiente e la biodiversità. Noi invece prima coltivavamo una grande varietà di piante: riso, platano,, mais, yucca…in forma tradizionale, ancestrale e vivendo di questo. Dietro gli attuali proprietari c’è anche Vicente Castaño, già noto come comandante di una formazione paramilitare.
    Tra il 2004 e il 2005 la nostra comunità (circa 10mila famiglie) ha deciso di rientrare in modo organizzato nella propria terra e ci siamo costituiti in “zone umanitarie e di biodiversità”., luoghi esclusivamente per la popolazione civile fuori dal conflitto che dilania e insanguina la Colombia. Abbiamo ritrovato un contesto irriconoscibile con coltivazioni di palma da olio e allevamento estensivo . Il titolo collettivo che ci è stato titolato è di 100mila ettari di terra; ora ci ritroviamo in due “zone umanitarie” di circa 40 ettari, questo è quello che ci siamo ripresi. Siamo letteralmente circondati da allevamenti e coltivazioni di palma. Abbiamo tagliate le palme su questa nostra piccola porzione e ripreso le nostra coltivazioni tradizionali. Tra il 2004 e il 2005 sono stati assassinati alcuni esponenti delle comunità che si erano impegnati per la restituzione delle terra. Tra gli altri, Walberto Hoyos della comunità Caño Manso che si era opposto all’ex colonello dell’esercito Luis Felipe Molano. Nella comunità di Apartadocito – El Serrao vennero assassinati Jose Eustoquio Rojas. Argenito Diaz, Manuel Ruiz, Samir Ruiz di 15 anni (nel 2012, durante un’investigazione di INCODER).
    Nell’assoluta, totale impunità. Il 24 gennaio 2014 la Procura ordinò la riesumazione a Llano Rico di due cadaveri di persone assassinate ancora nel 1997 (nello stesso anno ne vennero uccisi circa 7mila in un solo dipartimento) e ricevette la denuncia per l’omicidio di José Eustoquio(assassinato nel 2007). Contemporaneamente ricevette anche la denuncia per le minacce di morte da parte degli allevatori contro i membri della comunità (vedi il caso della famiglia Urango-Mendoza). La comunità ha dimostrato giuridicamente che la terra le appartiene perché le venne data a titolo collettivo nel 2000 e in base ad una legge (legge 70/1993 per le comunità afro-colombiane) che ne riconosce i diritti alla terra. Militari, paramilitari e latifondisti, allevatori e coltivatori di palme da olio e banane, si unirono per sviluppare ulteriormente i loro progetti di arricchimento con la grande monocultura al prezzo di sangue e sofferenza per le comunità.

    D. Chi sono altri tra i maggiori responsabili di queste prevarticazioni? Cosa è accaduto in seguito?
    R. Tra gli impresari, latifondisti e a capo di milizie paramilitari, Ramiro Quintero, l’allevatore Ramirez Castaño e l’allevatore e bananero Dario Montoya.
    A partire da questo momento iniziarono le minacce telefoniche e i tentativi di assassinare gli esponenti della comunità che si erano mobilitati per reclamare il diritto alla terra.

    D. L’anno scorso, mi pare di capire, gli avvenimenti hanno subito un’accelerazione, almeno per quanto vi riguarda….
    R.Dopo l’uccisione del marito e del fratello, Yomaira Mendoza si era rifugiata in una “zona umanitatria” di Caño Manso. Dal 26 gennaio 2014 si sono attivate PBI (Brigate Internazionali di Pace) per sostenerci, accompagnarci, proteggerci. Nel marzo 2014 sono arrivati anche alcuni giornalisti europei, da Londra e da Dublino per intervistare Yomaira che ha denunciato quanto stava accadendo. Subito dopo sono riprese le minacce. Per telefono le dicevano cosa le sarebbe accaduto (“Non ti ricordi cosa è capitato a tuo marito?”) e nella notte entrarono in casa per ucciderla. Questo, va precisato, anche all’interno della “zona umanitaria” in teoria protetta dall’esercito colombiano. Dopo alcune telefonate di minaccia mi aveva telefonato mentre mi trovavo a Medellin. Io le consigliai di andare a dormire altrove. Il giorno dopo, ritornata a casa, trovò la porta forzata e un esplicito messaggio: “ Perché non ci hai aspettato?”
    Da quel momento cambiammo “zona umanitaria” spostandoci in quella di Camelias. Qui sono poi venuti per incontrarci gli ambasciatori di Norvegia e Francia (5 e 6 marzo 2014). Subito dopo, la notte del 6 marzo, arrivarono nuovamente i paramilitari per uccidere Yomaira, nonostante la presenza poco lontano (circa 200 metri) dell’esercito. Inevitabile pensare che sostanzialmente siano d’accordo. A questo punto ci siamo rifugiati a Llano Rico (20 maggio 2014) dove ci sono stati altri tentativi di omicidio. Un giorno io, Enrique Cabeza, stavo lavorando con la comunità nella “zona di biodiversità del Paraiso”. Alle cinque di sera arrivarono in casa mia12 soldati e l’uomo incarito della mia scorta disse: “Ci sono i soldati, allora posso stare tranquillo e me ne torno a dormire a casa mia”. Una coincidenza? Erano d’accordo? Non saprei…Per maggior sicurezza, visto che la mia scorta non si fermava per la notte, sono andato a dormire a Llano Rico. Avevo intuito che qualcosa non andava. Più tardi, ero già andato a dormire, mio padre ricevette una telefonata con cui lo informavano che io ero stato ammazzato.
    Mio padre telefonò allora a mio fratello che dormiva nella stanza vicino alla mia e che mi avvisò consentendomi di scappare dal retro mentre qualcuno stava già entrando in casa. Allora telefonai alle due scorte (la mia e quella di Yomaira) che telefonarono al Ministero, e alle PBI (ci sono dei protocolli di sicurezza per i casi di emergenza). Da Bogotà mi dissero di andare dove ci sono i soldari, in una base militare. Allora io dichiarai che “se mi succede qualcosa vuol dire che sono stati i militari”. Il giorno dopo, accompagnati dalla polizia, siamo andati all’aereoporto per Bogotà. Da segnalare un fatto inquietante. Perfino nell’aereo c’era un paramilitarec che ci seguì viaggiando con noi e riprendendoci in un video. Intanto arrivavano altre minacce di morte contro i miei genitori e i figli di Yomaira.

    Il 16 luglio 2014, alle sei di sera, suonarono il campanello e chiamarono Yomaira al cellulare mentre era in casa. Qualcuno disse di essere mio amico e che lo avevo mandato io. Guardando giù dal secondo piano vide quattro persone armate di pistola, due alla porta e due in motocicletta. Per telefono le dissi di nascondersi che io stavo arrivando con la scorta. A questo punto ci fermò la polizia che poi venne con noi, ma i quattro armati erano già scappati. Arrivò poi un altro messaggio a Yomaira per telefono: “Io posso dirti chi ha ammazzato tuo marito e quanto è stato pagato “. Per la cronaca, la cifra era l’quivalente in pesos colombiani di circa 170 euro e l’assassino incaricato venne poi a sua volta eliminato per non lasciare testimoni.

    D. Dicevi che la data stabilita a norma di legge per la restituzione della terra alla comunità era il 24 novembre 2014. cosa è invece accaduto poi?

    R. L’11 novembre uscì un articolo sul quotidiano “El espectador” in cui si poteva leggere che a Ramirez Castaño e a un altro latifondista, Echeverri, si era “”spezzato il cuore” perché stava per arrivare la polizia per cacciarli dalla terra ottenuta con tanti sacrifici. Immediatamente, singolare coincidenza, l’allontanamento venne sospeso (sebbene l’ occupazione della terra da parte di questi signori fosse del tutto illegale). Inoltre, proprio il 24 novembre, i paramilitari dalle quattro del pomeriggio fino alla mattina successiva sequestrarono i figlio quindicenne di Yomaira chiedendogli dove si trovavano sua madre ed Enrique.Lo stesso giorno minacciarono anche mio padre. Il 3 gennaio 2015 anche l’altro figlio di Yoamaira, 18 anni, venne minacciato. Su Skipe gli inviarono l’immagine di un teschio e di fiori…chiedendogli dove stavano Enrique e Yomaira. Infine, il 7 gennaio 2015, il latifondista Lopera ha fatto tagliare la rete della mia coltivazione mandando dentro il suo bestiame.

    D. Potresti spiegare come è cominciata e come si qualifica la vostra alternativa nonviolenta in un contesto come quello colombiano? Come si differenzia da altre forme di ribellione alle evidenti ingiustizie sociali?

    R. L’alternativa non violenta nasce come necessità per riavere la terra che ci venne strappata e per mostrare alla Stato che noi non sianmo insorti. Quella sarebbe la scusa poi usata per diperderci trasformarci in profughi interni (desplazados) per mano di paramilitari ed esercito. Ancora negli anni settanta vennero alcuni esperti della Banacol ad analizzare le nostre terre per verificare se erano adatte alle coltivazioni intensive per banane e palma africana. Presero dei campioni e tornarono dopo quindici giorni chiedendoci di vendere la terra. Ovviamente la gente rispose di no. Cominciarono allora minacciare dicendo “se tu non la vendi, me la venderà la tua vedova…”.
    . Ricordo che il direttore della Banacol è ora proprietario una azienda di palma da olio (“Palma de Curbaradó”).
    Gianni Sartori (febbraio 2015)

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