Pessima republica plurimae leges?

«Ci manca(va) un Venerdì» – numero 90 – ovvero dopo una breve pausa torna l’astrofilosofo Fabrizio Melodia, invitando a merenda Petronio, Mellon, Campanella, Von Jhering, Calamandrei, Socrate e Bernardo Tanucci

«Che possono le leggi, là dove solo il denaro ha potere, | o dove la povertà non ha mezzi per vincere? | Persino quei filosofi, che passano i giorni gravati dalla cinica bisaccia, | finiscono anch’essi col vendere a fior di quattrini i loro assiomi. | Pertanto anche un procedimento legale è merce da mettere a mercato, | e anche il cavaliere che siede in giudizio non sdegna di farsi comperare» affermava Petronio nel «Satyricon».

In effetti sembra folle chi confida nella miriade di leggi; mai come ora, l’ordinamento giuridico (che dovrebbe garantire la sicurezza, la pacifica convivenza tra le persone e – tenetevi forte – la giustizia) sembra essere impacchettato “al miglior offerente”.

«Tutto il mondo vuol far Codici di Legislazione, ma poco è il profitto delle nazioni; pessima republica plurimae leges. Le scienze e le arti che muovano per piacere gli animi… alla verità son più utili delle leggi, che forzano senza persuadere, onde son inutili nella maggior parte del tempo e del popolo, il quale procura di evitar la forza, e il più delle volte lo conseguisce»: così Bernardo Tanucci, in tempi decisamente non sospetti, visto che lui era l’uomo “di fiducia” di Carlo Borbone, re di Napoli.

Una repubblica pessima è quella in cui ci sono troppe leggi? Non è un’idea tanto campata per aria: come fa una persona a rispettarle, se esse sono talmente tante da non poter essere agevolmente ricordate? E come possono i giudici accordarsi se fra le tante leggi ve ne sono di… opposte fra loro o quasi?

Contro-tesi: è semplicemente un comodo alibi.

Sintesi? Fatela voi… se ci riuscite.

Per il “comodo alibi” propende l’economista francese (a cavallo fra 1600 e 1700) Jean Francois Melon: «Se gli uomini fossero sì felici, che regolarsi volessero colle pure massime della religione, non avrebbero più bisogno di leggi: il dovere servirebbe di freno alla colpa, e alla virtù di motivo: ma per loro disavventura si lascian essi regolare dalle passioni; nel qual caso il legislatore null’altro dee cercare se non di renderle vantaggiose alla società. L’uomo militare è soltanto valoroso per ambizione; e il negoziante non fatica che per cupidigia: bene spesso l’uno e l’altro il fanno per poter menar voluttuosamente la vita: e il Lusso divien per essi un nuovo motivo di fatica e di applicazione».

Le leggi sono lo specchio delle passioni umane? Piero Calamandrei sembra pensarla in modo differente: «Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza. “Le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano”. Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le “nostre” leggi.

Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri! Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.

Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami».

Dunque lo Stato come Nemico e le leggi come strumento principe di dominio sui poveracci. Nell’ultimo trentennio italiano sarebbe difficile vederla in altro modo. Ma forse la democrazia ha bisogno di altre lenti o di uno sguardo più lungo di quello fra Alpi e Sicilia. Ci spostiamo allora al 1800 con il giurista tedesco Rudolf von Jhering: «Si può definire la legge come l’unione di chi comprende e vede lontano contro chi vede solo ciò che ha vicino. I primi devono costringere i secondi a compiere ciò che è nel loro interesse. Ma non è nell’interesse dei miopi, per farli felici contro la loro volontà, bensì nell’interesse della comunità. La legge è l’arma indispensabile dell’intelligenza contro la stupidità».

Arma contro la stupidità dunque. Però resta che le leggi non dovrebbero essere impossibili da rispettare e comunque non dovrebbero essere troppe. In fondo, come nei giochi: come mantenere i principi di equità se le regole si contraddicono l’una con l’altra e sono troppo vaste e/o macchinose?

Obietta il filosofo eretico Tommaso Campanella: «Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci sono scritte tutte le quiddità delle cose in breve».

Quiddità? Nella filosofia medievale era l’essenza, la sostanza. Tutto chiaro adesso?

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

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