Peste emozionale – di Mark Adin

Durante l’edizione delle venti del telegiornale di La7 di mercoledì 8 febbraio 2012, condotta da Chicco Mentana, ho avuto una allucinazione auditiva. Vengo a conoscenza che “l’uomo più odiato d’Italia” (istantaneamente prendo a compulsare la memoria partendo dalla lettera Esse: Sallusti? Schettino? Scilipoti?) sarebbe… Cesare Battisti. Bella lì.

Diciamo subito che a chiunque, anche a un professionista con esperienza pluridecennale, può capitare un infortunio. Certo il livore con il quale viene trattata la notizia e l’uso del superlativo relativo che accompagna uno dei termini più forti e violenti –“odiato”– lasciano perplessi. Obiettivamente, nella economia di un intero Tiggì, può essere pure considerata una topica come un’altra; al di là di questo, però, sorprende molto di più la disinformazione.

Se persino il magistrato Spataro, al processo, rileva che i pentiti che accusano Battisti hanno pasticciato a tal punto da rendere ubiquo il perfido terrorista (avrebbe partecipato contemporaneamente a due azioni in luoghi diversi alla stessa ora!) e decide di mettere ordine: incolpando l’antipatico eversore di avere, nel caso, “solo” ideato e organizzato la rapina all’orefice  Torreggiani,  durante la quale questi viene ucciso e il figlio è raggiunto da una pallottola che lo metterà per sempre sulla sedia a rotelle. Ideazione sì, partecipazione diretta NO.

Sono pronto a scommettere, mi piace vincere facile, che se si dovesse fare un sondaggio tra tutti coloro che conoscono la notizia di quel fatto drammatico imputato al latitante, quasi tutti direbbero che fu Cesare Battisti a sparare al gioielliere e allo sfortunato figliolo.

Pazienza per “l’uomo della strada”, ma un giornalista professionista, preparato, avvertito, come cribbio fa a essere tanto allineato ai luoghi comuni?

Altro giornalista, appartenente alla carta stampata e perennemente in tivù, non voglio nominarlo perché mi ripugna, (diciamo che è stato “clava” e sicario più e più volte per conto del Sultano decaduto) arriva a dire che “Battisti sparò alla schiena dell’orefice Torreggiani”.

Un pubblicista dell’Unità, scrive: “Ma Cesare Battisti sarà ancora convinto che sia stato un atto rivoluzionario ammazzare …  il gioielliere di periferia Pierluigi Torreggiani?”.

Come è possibile? Ignoranza o malafede? Una cosa è certa: questi il premio Pulitzer non lo vedono manco col binocolo. Se uno il giornalista lo facesse davvero, leggerebbe gli atti processuali, intendo le carte di quello stesso dibattimento che ha portato alla condanna del sovversivo, e apprenderebbe che Cesare Battisti, nell’occasione, NON sparò, per il semplice fatto che NON c’era. NON uccise lui il gioielliere, NON ne ferì il figlio Alberto. Lo dicono gli atti del processo.

Come andarono le cose?

Il padre, l’orefice Torreggiani, fece fuoco nel reagire alla rapina, come già era successo al ristorante Transatlantico soltanto qualche sera prima: mentre pranzava con un amico, due balordi entrarono nel locale per derubare i clienti. Torreggiani e l’amico abbandonarono la forchetta per estrarre le pistole, ingaggiando un conflitto a fuoco nel bel mezzo dei tavoli imbanditi. Risultato: un rapinatore e un avventore ignaro spediti al camposanto.

Durante la rapina al suo negozio, l’orefice impugnò ancora la pistola e ancora sparò. Fu proprio uno dei suoi proiettili a colpire, fatalmente quanto tragicamente, il figlio, impedendogli di camminare per il resto della vita. Durante la sparatoria cadde anche il padre, nonostante portasse un giubbetto antiproiettile. E Cesare Battisti? Non c’era, il processo stabilisce che era altrove.

Così andarono le cose. Tutto è agli atti.

Altro fatto ignorato, e censurato dai media, è che Amnesty International, a proposito dell’arresto e degli interrogatori degli appartenenti alla formazione nella quale militava Battisti, parlò esplicitamente, nel suo rapporto, di tortura. Ops… Amnesty International, si badi, non il Leoncavallo. Insomma, furono proprio indagini serene.

Osservo infine che, al fine di esigere il rimpatrio del condannato perché sconti la pena, si è mobilitato tutto il mondo istituzionale, con grandissimo clamore: Presidente della Repubblica, Premier, Ministri. Tutti contro la decisione di Lula. Massimo risalto di stampa.

Tanto per fare una comparazione impertinente, si annoti il diverso atteggiamento, per così dire piuttosto sommesso, tenuto dalle stesse cariche dello Stato per chiedere il rimpatrio dal Giappone dell’esponente di destra Delfo Zorzi, allora chiamato dai giudici a rispondere di un reato da niente: strage. Minimo clamore, minimo risalto.

Siamo ancora lì, prigionieri inconsapevoli o meno, di un modo di filtrare le notizie de panza. Pronti a berci, per l’appunto, ogni panza-na, contenti e beati di abboccare. Il problema è che verità e giustizia sono inscindibili: l’una è indispensabile all’altra, il problema è serio.

Eppure le notizie ci sono, quelle vere. Sono disponibili a tutti, basta cercarle. E bisogna farle circolare, anche se è una battaglia lunga e difficile. Anche se siamo piccolini.

Il web può servire efficacemente a ricostituire piccoli argini di verità, minuscoli ma così necessari per non cadere sotto i colpi della mistificazione continua, somministrata con l’effetto, e forse anche lo scopo, di formare temibili ondate emotive che la delinquenza politica possa utilizzare per farci il surf a spese nostre. E guadagnare voti.

In un Paese dove forze opposte in parlamento, ma omologhe per schifoso populismo, votano contro un provvedimento dovuto, emergenziale e umanitario, il cosiddetto “svuota carceri”, c’è da aspettarsi di tutto.

Dal leghista che agita il cappio in Parlamento a Tonino che al “tintinnar di sciabole” preferisce il “tintinnar di manette”, emerge una voglia di castigo compiaciuta, violenta, becera e incarognita; un sentimento precursore, per alcuni versi, del linciaggio. Per gente così sarebbe stato meglio lasciare che, ormai con regolarità statistica, cinquanta/sessanta detenuti, ogni anno, si tolgano la vita in carcere piuttosto che sostituire la detenzione, anche se solo per i delitti meno gravi, con misure alternative. I poveracci devono marcire in galera: il ladro di polli, il clandestino, il tossicodipendente. Mentre una intera classe dirigente ruba o permette che si rubi o non riesce a contrastare le ruberie schiamazzando volgarità  in Parlamento e facendo della Costituzione carne di porco.

Facciamo attenzione a provocare questa “peste emozionale”, la cui profilassi può essere assai lunga e molto dolorosa. Il passato insegni.

Osservo con raccapriccio, pubblicate su Facebook e “condivise” da molti, corredate da commenti soddisfatti e apologetici, foto terribili ed assolutamente esplicite di un presunto “pedofilo” del quale è stata fatta sommaria giustizia tagliandogli l’apparato genitale e ponendoglielo in bocca. Con turgore di dettaglio.

Qualunque sia la colpa, fosse anche un crimine tanto odioso e anti-umano, quella non si può chiamare giustizia: quella è una vendetta tra animali.

Tutti quei mi piace, cliccati lì sotto, mi fanno orrore e paura: minacciano figli e nipoti quasi alla stessa stregua del pedofilo assassino.

 

Mark Adin

 

 

 

 

 

 

 

Redazione
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4 commenti

  • Anch’io ero rimasto atterrito, ma en passant, da quel “l’uomo più odiato d’Italia di Mentana (che mi sorbisco quasi sempre poiché la geniale “rivoluzione del digitale terrestre” ha incenerito tutti gli altri canali, lasciandomi solo la7). Ma non conoscevo i dettagli della vicenda per cui ringrazio il bravo Mark, punto.

  • Grazie Mark Adin. (mi scrivi un messaggio su feis buk con il tuo cognome, che, perdonami, ho dimenticato(il nome no perchè assomiglia stranamente al mio…eheheh)

  • A me Battisti sta sulle scatole. Sai perchè? Per il suo protagonismo: non c’è cosa che dica o faccia che non finisca sui giornali.
    Invece Delfo Zorzi non si vede sui giornali. Ma questa cosa è peggio che veder Battisti sulla carta della stampa o in televisione.
    C’è un’ottima graphich novel sulla strage di Stato del 12/12/69: Piazza Fontana di Francesco Baro Barilli e Matteo Fenoglio.

  • Battisti è l’uomo più odiato dell’Italia di Mentana, e della Santanché, che è poi la stessa Italia di Monti, Eugenio Scalfari, Casini, Di Pietro e (almeno un po’) Vendola.
    O cerchiamo di fare emergere un’altra Italia, o ci conviene raggiungere Battisti in Brasile.

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