Petrolio: tra ecocidi e consumismo

di Saverio Pipitone

«Delle vecchie e appiattite taniche vuote di olio motore sono appese e allineate alla parete, circondate da schizzi di vernice rossa, e legate da un cavo metallico fino a un elettroventilatore microfonato, sentendosi rimbombi di combustione e vento, nella raffigurazione della condizione umana tra brama di consumo (fagocene) e distruzione del Pianeta (tanatocene)»: è l’installazione d’arte Oilofon di Miguel Palma.

Ciascuna tanica ha il logo di potenti compagnie petrolifere: l’inglese BP e la consociata Castrol; le statunitensi Union e Mobil, dopo fuse nei rispettivi gruppi Chevron ed ExxonMobil; la francese Antar, spezzettata e accorpata in TotalEnergies e UGI Corporation; la spagnola Cepsa; la portoghese Sacor, ora Galp Energia.

Il petrolio è una delle materie prime più adoperate al mondo. Dal 1950 ad oggi, la produzione è costantemente incrementata da 500 milioni a oltre 4 miliardi di tonnellate annue. Stati Uniti e Europa sono insieme i principali consumatori con il 40% di una richiesta globale pari a 90-99 milioni di barili al giorno e, da previsioni di mercato, raggiungerà 110 milioni nel 2050. L’industria petrolifera conta una decina di migliaia di piattaforme di trivellazione, sia offshore (mare) che onshore (terraferma), e qualche centinaia di grandi raffinerie, per un trasporto tramite navi cisterna, treni cargo e oleodotti.

Nell’ultimo cinquantennio si sono però verificati molti e troppi eventi di collisione, guasto, incendio ed esplosione, a causa di errori o atti umani e calamità naturali, con fuoriuscite di liquido inquinante nei mari, fiumi e suoli. Solo dalle petroliere sono sgorgate 5,8 milioni di tonnellate di marea nera.

C’è stato almeno un incidente all’anno, come di seguito elencato con il nome del vettore o sito di perforazione e i differenti luoghi di sversamento:

Othello nella baia Tralhavet in Svezia (1970), Texaco Denmark nel Mare del Nord (1971), Sea Star nel golfo di Oman (1972), Napier sull’isola cilena di Guamblin (1973), Metula sempre in Cile nello stretto di Magellano (1974), Jakob Maersk nel porto di Leixoes in Portogallo (1975), Argo Merchant al largo dell’isola statunitense Nantucket (1976), Patriot nelle Hawaii (1977), Amoco Cadiz sulla costa bretone (1978), Ixtoc nel golfo del Messico (1979), Irenes Serenade nella baia Navarino in Grecia (1980), Assimi Globo nel mar Baltico (1981), Scapmount nel canale iraniano Khomeini (1982), MT Castillo de Bellver nella baia Saldanha in Sud Africa (1983), Presidente Bernandes a Cubatao in Brasile (1984), Grand Eagle nel fiume Delaware in Pennsylvania (1985), Amazon Venture nel porto di Savannah della Georgia (1986), Norman Atlantic nello stretto arabico di Hormuz (1987), Odyssey nell’Atlantico settentrionale (1988), Exxon Valdez nel golfo dell’Alaska (1989), American Trader sulle spiagge californiane della contea Orange (1990), Haven nel golfo di Genova (1991), Aegean Sea nella costiera della Galizia (1992), Braer nell’arcipelago scozzese delle Shetland (1993), Nassia nello stretto del Bosforo in Turchia (1994), Usinsk nella Russia artica (1995), Sea Empress nel parco marittimo Pembrokeshire del Galles (1996), Nakhodka sulle coste giapponesi (1997), Pallas Spill nelle tedesche isole Frisone (1998), Erika nel golfo franco spagnolo di Biscaglia (1999), Reduc nella baia Guanabara in Brasile (2000), Jessica nelle Galapagos dell’Ecuador (2001), Limburg nel golfo di Aden (2002), Tasman Spirit nelle vicinanze del porto di Karachi in Pakistan (2003), Selendang Ayu nella baia naturistica Skan in Alaska (2004), Thunder Horse nel golfo del Messico (2005), Solar 1 nel golfo di Panay nelle Filippine (2006), Hebei Sprint al largo di Taean nella Corea del Sud (2007), DM932 ​​nel fiume Mississippi a New Orleans in Louisiana (2008), Admiral Kuznetsov sulla costa meridionale dell’Irlanda (2009), Deepwater Horizon nel golfo del Messico (2010), Frade Field sulla costa brasiliana (2011), Motiva nel canale Arthur Kill a New York (2012), Petroecuador nei fiumi dell’Amazzonia (2013), Miss Susan nel canale texano di Houston (2014), Marathassa nella baia degli Inglesi a Vancouver in Canada (2015), Union Pacific nel fiume Columbia in Oregon (2016), Agia Zoni II nel golfo greco di Sardonico (2017), Sanchi sulla costa cinese di Shanghai (2018), Solomon Trader sulla barriera corallina nelle Isole Salomone (2019), Wakashio nelle Mauritius (2020), Amplify Energy nella californiana Newport Beach (2021), La Pampilla sulla costa peruviana di Lima (2022).

L’impatto su fauna e flora è catastrofico. Per il ritorno all’originario habitat passano 20-30 anni. Uccelli, pesci e mammiferi marini assorbono, inalano e ingeriscono il greggio con l’insorgere di malanni fisici e organici – dalla perdita di idrorepellenza con disfunzioni di movimento agli squilibri metabolici e all’accumulo di tossicità trasmissibile alla progenie – sino alla morte per ipotermia, annegamento e intossicazione. Alle piante marine e terrestri è inibita la germinazione. Sui campi agricoli le quantità e la qualità delle colture si deteriorano. Nelle comunità locali, ad esempio nel delta del Niger in Nigeria, con la contaminazione dell’ambiente, dall’aria alle falde acquifere, gli abitanti rischiano di contrarre patologie respiratorie, renali, allergiche, riproduttive, dermatologiche e oncologiche.

Le maggiori riserve petrolifere accertate – 200 miliardi di tonnellate – sono in Medio Oriente, Asia centrale, Africa subsahariana e Sud America: zone con perenni eventi bellici e uno dei fattori scatenanti è di frequente l’accaparramento delle limitate risorse della natura. È stato osservato che dal 1950-70 all’incirca il 40% dei conflitti interni e delle guerre interstatali è connesso allo sfruttamento di petrolio, legname, oro, diamanti, acqua e terreni fertili.

Il petrolio prodotto è propulsore della società dei consumi. Destinazione prevalente è nella mobilità per 1,4 miliardi di veicoli che circolano sulla Terra, metà dei quali in Europa e Usa. Per 8 miliardi di tonnellate di plastica fabbricata ininterrottamente dal 1950, di cui il 50% nell’ultimo decennio e l’80% finita nel cestino. Altri utilizzi minori sono, ogni anno, per 80 miliardi di indumenti comprati a basso costo nel fast fashion e per 5.000 miliardi di sigarette fumate. Stime settoriali prospettano il moltiplicarsi di tali cifre nel 2050.

Il chimico ambientalista Enzo Tezzi – nel saggio Tempi storici, tempi biologici del 1984 – avvisava che le risorse di petrolio «sono state adoperate da due generazioni che, in un periodo di tempo “biologico” estremamente breve, hanno distrutto ciò che era a disposizione sulla Terra di fonti energetiche fossili formate durante millenni. […] La storia energetica dei nostri giorni è una storia di prestigiatori e dei loro funambolici programmi che regolarmente si dimostrano gonfiati e che non tengono conto della “capienza” dell’ambiente naturale e della sua limitata capacità di annullare tutti gli effetti negativi dell’esagerato consumo energetico».

L’emissione globale di anidride carbonica (CO2) dalla combustione di petrolio è salita, in tonnellate, da 8 miliardi del 1970 agli attuali 12 miliardi circa, che equivale a un terzo delle emissioni totali, contribuendo massivamente alla concentrazione dei gas serra di lunga durata nell’atmosfera e nel conseguente innalzamento della temperatura terrestre.

Malgrado i risaputi effetti destabilizzanti sull’ecosistema e il pericolo del tracollo climatico entro il 2050, le multinazionali petrolifere – come quelle menzionate – continuano imperterrite ad estrarre per soddisfare la crescente domanda consumista e per quanto nelle relazioni annuali di bilancio scrivano tante parole di sostenibilità per pubblicizzare il transito verso le energie verdi e rinnovabili, nel concreto è ancora un nulla di fatto, dato che si tratta spesso di fonti meno redditizie, rispetto al tradizionale core business, con probabili svalutazioni dei titoli azionari.

Azionisti sono quasi sempre società di investimento e ripetutamente compaiono The Vanguard Group, BlackRock, State Street, Capital Group, Morgan Stanley, Wellington Management, Fidelity Management e T.Rowe Price, mentre fra i finanziatori risaltano le banche d’affari o generaliste Bnp Paribas, Crédit Agricole, Societe Generale, Deutsche Bank, Barclays, Santander, Credit Suisse, Commerzbank, Lloyds Banking Group, HSBC, UBS e Unicredit, che dal 2016 al 2021 hanno stanziato 330 miliardi di dollari per l’espansione dell’oil & gas. Le stesse società e banche sono investitori o finanziatori del comparto degli armamenti militari, con l’erogazione dal 2015 al 2019 di 342 miliardi di dollari ad una trentina di produttori tra cui primeggiano le statunitensi Boeing, Honeywell, Lockheed Martin, General Dynamics, Northrop Grumman, Raytheon Technologies e Textron, la transeuropea Airbus, le francesi Safran e Thales, le inglesi Bae Systems e Rolls-Royce, l’italiana Leonardo, la tedesca Rheinmetall.

Queste istituzioni finanziarie operano nella gestione collettiva del risparmio – dal fondo comune o pensione al deposito bancario semplice o di conto corrente – muovendo il denaro che noi gli affidiamo e (incontrollato) finisce nei canali della speculazione alla ricerca del massimo profitto, incurante dei danni ecologici, umanitari e sociali.

Per contro bisognerebbe agire da consumatori e risparmiatori critici con l’uso consapevole dei soldi nelle quotidiane scelte di spesa o impiego e dunque servirsene da mezzo per salvaguardare la Terra.

Abbiamo la soluzione in tasca, ma come disse il dissidente Václav Havel: «Senza una rivoluzione globale delle coscienze, nulla potrà cambiare in meglio la nostra esistenza di esseri umani, e la catastrofe verso cui il mondo sta correndo – il collasso ecologico, sociale, demografico e quello complessivo della civiltà – sarà inevitabile».

[Dati Statista ITOPFUNEMHIIK UNCAI GCP ShareActCentreDelas. Studi 1 2 3 45 6 7 8]

 

Redazione
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2 commenti

  • Bell’articolo, ma il finale su Václav Havel me lo sarei sinceramente risparmiato.
    Traggo da Wikipedia:
    [Nella Repubblica Ceca] “la presidenza [di Václav Havel] fu caratterizzata da un orientamento politico anti-comunista di destra moderata e liberale, favorevole ad un’economia di mercato e filo-americano. Havel fu, infatti, il principale sostenitore dell’entrata della Repubblica Ceca nella NATO, avvenuta il 12 marzo del 1999, nonché dell’intervento dell’Alleanza nella guerra del Kosovo del 1999”.
    Non so se i bombardamenti sulla Serbia, con tanto di uranio impoverito, possano considerarsi un capitolo della “rivoluzione globale delle coscienze”.

  • Valeria Taraborelli

    Ma ci arriveremo al 2050?

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