Philip Dick: «Voci dalla strada»

Che effetto fa scoprire che Paganini prima di essere «un Everest» del violino era uno scultore bravino? Avrebbe senso cercare le tracce del musicista divino nella materia plasmata da uno scalpello soltanto abile? Può essere questo un modo per leggere «Voci dalla strada» (Fanucci: 664 pp, 18,50 euri) romanzo realista di Philip Dick che divenne grandissimo muovendosi nell’irreale, dilatando la fantascienza persino oltre i suoi già larghi territori. Ma potete percorrere anche una strada più tradizionale: leggerlo come l’interessante romanzo mainstream di un giovane autore, esordiente negli anni ’50, che purtroppo non ebbe l’attenzione dovuta. In ogni caso ecco un libro superiore alla media, dunque da mettere subito sul comodino.

La scena si apre il 5 giugno 1952. Il quarantenne Jim Fergesson è alle prese con una cliente che vuole riparare la radio; all’altro capo della città un suo dipendente, il giovane Staurt Hadley si sveglia in una cella dove è finito per uno scontro con due sostenitori dell’allora in auge McCarthy. Quando torna a casa Stuart non trova alcuna sintonia con la moglie Ellen e con il bimbo, «l’estremo fardello», che sta per nascere dentro quella pancia, «grande, fragile palla di carne, il centro dell’universo». Sapremo poi che per Stuart «le donne erano la metafisica del mondo», dimensione in cui nessun uomo poteva entrare. Aliene, salvo forse una sorella-chioccia.

Quasi subito Stuart si trova al primo dei tanti bivi. Può recarsi la sera ad ascoltare il leader della «Società dei guardiani di Gesù, presente in tutto il mondo […] il potere della Bibbia, la Parola che guarisce» ovvero Theodore Bechkeim. O piuttosto stare con una coppia di amici che in realtà disprezza forse perché ebrei o perchè Dave (un giornalista progressista) si comporta sempre come «una lumaca indifesa da calpestare». Subito si intuisce che è Stuart «l’anti-eroe» del libro, gli altri sono personaggi di contorno: lui è sempre al centro, artista e sognatore, indeciso a tutto, con un senso di estraneità al lavoro e alle relazioni, con la sua confusione politica…. Praticamente agli antipodi del suo padrone, che ha poche e ristrette – ma saldissime – idee, quel Fergesson convinto che «Dio è presente ogni volta che una grossa cassa veniva aperta» o che una lavatrice veniva esposta. Non l’unica religione possibile; il Dio dei «guardiani di Gesù» è un po’ diverso da quello che protegge i negozianti. Magari l’Armageddon è davvero vicina come pensano i seguaci di Beckeim, indubitabilmente un nero che affascina gente molto varia: «irrequiete donne avanti con gli anni e impiegati impotenti» ma anche operai neri e «ragazzini pelle e ossa». Nell’epoca del maccartismo e della guerra di Corea qualcuno è convinto che «questo Paese è il male» ma i più invece credono giusto tirare un’atomica sui cinesi e c’è chi si esprime in questo modo: «c’è una cosa da dire su Hitler, lui era vegetariano» e da qui parte un’apologia della grande Germania.

Le donne che questo anti-eroe  incontra sono sempre sfocate e poco significative tranne l’intellettuale Marsha, altro bivio decisivo nella vicenda, con la sua rivista «Succubus» che sul vocabolario lui scoprirà essere «un demonio che assume forma femminile» ma soprattutto con la misteriosa capacità di far salire in superficie sia il sognatore che l’anima nera di Stuart, in un certo senso il peggio e il meglio.

Questo è il quadro delineato nella prima parte («Mattino») del romanzo. Nella seconda parte, cioè «Pomeriggio», tre novità di rilievo: nasce Pete, il bimbo di Ellen e Stuart; incontriamo il fascistoide Bob, sposato a Sally, sorella maggiore e «stella polare» di Stuart; finalmente c’è un incontro ravvicinato con Beckeim, «profeta involontario».  La terza sezione, cioè «Sera», è quella delle decisioni e delle svolte – che ovviamente non si possono qui svelare –  sino a precipitare verso l’ultima parte («Notte», molto breve) con un lieto fine tra i più ambigui che si possano immaginare. Resta soprattutto il dubbio se «in un mondo di pazzi sono proprio i pazzi che hanno le idee più chiare».

Il romanzo non è omogeneo: alterna momenti memorabili e alcuni passaggi più banali, stanchi. Ma le inquietudini degli anni ’50 ci sono tutte fra «inconscio razziale» e Sartre, inattese esplosioni di violenza misogina e auto-distruttiva, crisi di identità e improbabili ravvedimenti, speranze che sfumano e previsioni azzardate eppure azzeccate sulla società statunitense.

E’ solo un caso se questi romanzi realisti non trovarono editore e fu poi il Dick irrealista a sfondare? Certamente no. Un autore come lui che fortissimamente diffidava della verità (persino di quella scritta minuscola) doveva incontrarsi con la fantascienza che del resto un grande scrittore-scienziato come Isaac Asimov beffardamente definì «l’unico mondo reale».

Questo è il 35° dei 45 volumi previsti per completare “tutto Dick”, sempre che altri inediti non saltino fuori. Chi si accostasse a lui solo adesso non ha che l’imbarazzo della scelta.

Questa mia recensione è uscita sul quotidiano “Liberazione” del 16 marzo 2008

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