Philip Marlowe, papà dei “figli dei fiori”

Quel 22 agosto (1946) arriva sul grande schermo…

di Fabio Troncarelli

Il 22 agosto 1946 fu proiettato ad Atlantic City «Il grande sonno» di Howard Hawks con Humphrey Bogart e, per la prima volta sullo schermo, Lauren Bacall. Il film si basava sul romanzo omonimo di Raymond Chandler, apparso nel 1939, in cui esordiva sulla pagina scritta l’investigatore Philip Marlowe.

Bogart s’impadronì del personaggio in un modo talmente autorevole che per la maggioranza dei patiti di Chandler e dei patiti del Noir e del Giallo non esiste e non è mai esistito un altro Philip Marlowe, con un volto diverso da quello dell’attore, con la sua piega amara delle labbra e la sua espressione assorta, malinconica e vulnerabile. In realtà di Philip Marlowe sul grande schermo e sul piccolo schermo ce ne sono stati tanti, come Dick Powell («L’ombra del passato»), Robert Montgomery («Una donna nel lago»), George Montgomery («La moneta insanguinata»), James Garner («L’investigatore Marlowe»), Elliott Gould («Il lungo addio»), Robert Mitchum («Marlowe, il poliziotto privato» e «Marlowe indaga»), James Caan («Marlowe – Omicidio a Poodle Springs»). Nessuno però è riuscito a conquistare il posto d’onore riservato nell’immaginario collettivo a Bogart, che esprime in modo perfetto il personaggio. Bogart è l’incarnazione del protagonista dei romanzi di Chandler, se prendiamo alla lettera la descrizione che egli fa del suo eroe: «Sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, che non è un tarato, che non è un vigliacco. Nel poliziesco realistico quest’uomo è il detective. E’ l’eroe, è tutto. Un uomo completo, un uomo comune, eppure un uomo come se ne incontrano pochi. Dev’essere, per usare un’espressione un poco abusata, un uomo d’onore per istinto, per necessità, per impossibilità a tralignare. Dev’esserlo senza pensarci e, certamente, senza mai parlarne troppo. Il miglior uomo di questo mondo è abbastanza buono anche per qualsiasi altro mondo». (R. Chandler, «La semplice arte del delitto : tutti i racconti», a cura di Oreste Del Buono, Feltrinelli 1962 e poi più volte ristampato).

Eppure, lo stesso Chandler in un altro testo ha detto del suo personaggio: «Non credo che abbia un’aria da duro, ma può esserlo. Se avessi mai occasione di scegliere l’attore cinematografico più adatto a impersonarlo, credo che sceglierei Cary Grant» (citato in O. Del Buono, Il diabolico Marlowe, in R. Chandler, «Il grande sonno», Feltrinelli 2003, pagina 212). A prima vista le parole dello scrittore sembrano sconcertanti: che c’entra un damerino azzimato come Cary Grant, con un duro amaro e coraggioso come Bogart? Beh, messa così… Però ammetterete che la cosa è strana: se non dobbiamo dare retta all’autore, allora tanto vale risparmiarsi anche le sue sparate sull’uomo d’onore che non è un tarato e non è un vigliacco. Però, se facciamo così, non è solo l’immagine pubblica di Marlowe-Bogart che va a farsi benedire: tutta la lunga schiera dei “surrogati” di Marlowe che infestano gli schermi e le pagine scritte va a ramengo, compresi personaggi amatissimi dal pubblico che in apparenza sembrano lontani dal Marlowe-Bogart e che invece senza quel Marlowe-Bogart non esisterebbero, a cominciare dal nostro Montalbano-Zingaretti: ingurgita spaghetti invece di ingollare whiskey ma per il resto è anche lui un lupo solitario, un duro dall’animo di agnello, un uomo amareggiato sotto la rude scorza del cinico, un casinista che si salva spesso per il rotto della cuffia, uno che ama sparare battute a raffica e mettersi in urto e nei guai scontrandosi con i potenti e i prepotenti, esattamente come il linguacciuto, coriaceo, onesto, malinconico Marlowe. Ve lo figurate Zingaretti al posto di Cary Grant, faccia a faccia con Katherine Heburn, in «Susanna» o con Grace Kelly in «Caccia al ladro»? Direi che è impossibile. Oppure Cary Grant faccia a faccia con Catarella? E che dite di Cary Grant al posto di Bogart, in «Casablanca», che si scola una bottiglia e mormora «Di tanti bar al mondo lei doveva venire proprio qui»? Ecco, è chiaro che tutto questo è demenziale. Ma allora perché Chandler ha detto così?

Azzardo un’ipotesi. Forse Marlowe non è il marlowismo. E Chandler non è il chandlerismo. Se si legge con più attenzione la sua prosa magnifica, degna di Scott Fitzgerald, e si evita di crogiolarsi nei rassicuranti luoghi comuni dei neofiti del “cinema sotto le stelle”, se insomma abbiamo il coraggio di leggere un autore e capirlo, invece di idoleggiarlo e strumentalizzarlo, allora una fioca luce, una fiammella potrebbe illuminare la nostra povera zucca vuota, devastata dal consumismo culturale, foraggiato da un’editoria di serie B e dalle estasi dei cerebrolesi di fronte al Premio Strega condito con il minestrone Findus del “postmoderno”.

Come mai tanti sapientoni che hanno sgavazzato su Chandler, il suo mito e le sue eccentricità, non hanno mai pensato di commentare quel che ha detto su Cary Grant? Perché nessuno ha mai ricordato qualche interpretazione di Cary Grant diversa dal solito, come quella dell’avventuriero Geoff Carter, sbruffone, vittima della sua megalomania, sprezzante coi deboli, incapace di emozionarsi ma invece grande nella sua amarezza, nella sconfitta, nelle lacrime impreviste e capace di giocarsi la vita a testa e croce vincendo per assurdo e per assurdo ritrovare la speranza e l’amore in «Avventurieri dell’aria» di Howard Hawks? Che guarda caso è l’anno dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il 1939, l’anno del «Grande Sonno» (romanzo). Il film di Hawks come il romanzo di Chandler capta lo spirito dell’epoca, quando l’umanità si giocò a dadi la sopravvivenza.

Stesso spirito in «Ombre rosse» di John Ford, in cui un fuorilegge, un bandito, un maledetto come Ringo dà a tutti una lezione di civiltà e di umanità: Ringo, uno straordinario John Wayne che pare il gemello di Jean Gabin in «Alba tragica», il ragazzo che si conserva onesto nonostante la prigione e l’ostilità dei garanti dell’ordine stabilito, il quale sa dire, abbassando gli occhi come un fanciullo: «Vi avevo detto di sposarmi» offrendo il suo amore a una donna apparentemente senza cuore, una prostituta senza dignità e senza speranza. Ecco, partiamo da lì, non da Oreste del Buono o da certi compagni di merende della mistificazione sulla letteratura americana moderna, come Fernanda Pivano e compagnia cantante; cioè ripartiamo dalle parole «senza dignità e senza speranza». Può essere che allora capiremo un’altra allusione di Chandler il quale scrive nel 1951 che il suo Marlowe: «forse è un ammiratore di Orson Welles, specie quando Orson è diretto da un regista diverso da Orson». Cioè – tanto per non fare nomi – Carol Reed, che nel 1948 aveva girato «Il terzo uomo». Forse Marlowe, forse Chandler, non sono tanto lontani da Holly Martins del «Terzo uomo», lo scrittore di romanzacci pulp, ubriacone, fallito, poco di buono, pazzo Don Chisciotte, il quale sconfigge il crimine perché è un pazzo sventato, perché ancora crede a qualcosa, a qualcuno, disperato come un bambino abbandonato dalla madre, pieno di speranza come un bambino che sogna la madre che lo ha abbandonato.

Sì, forse Chandler aveva ragione quando – fra una sbronza e l’altra, fra un tentativo di suicidio e l’altro – mormorava: «Il mio Marlowe non è quello che credete: è un perdente, uno sradicato, un eterno adolescente, sempre pronto ad illudersi e sempre destinato a deludersi. Come me». Come l’America “amara” di «Furore», dei ribelli senza una causa, di coloro che piangono e non saranno mai riconsolati. Ha scritto, a questo proposito, Alberto Tedeschi: «Vari recensori hanno ritenuto di ravvisare nelle opere di Chandler qualcosa di più che delle storie poliziesche, un impegno sul piano psicologico e sociale che non si può disconoscere all’autore. Così, più di uno ha allineato Chandler col Dreiser di Una tragedia americana, con Graham Greene, con Dürrenmatt e altri il cui accostamento al giallo è casuale o addirittura polemico. Lodato per l’efficacia del suo stile, ma criticato per il “filone” narrativo da lui scelto, Chandler fu un romantico, in un mondo che ai suoi occhi era dominato dalla violenza. Distrutto il concetto tradizionale dell’amore, morta la cavalleria, gli rimaneva una scelta senza alternativa: scrivere in un “genere” in cui l’amore è fatalmente emarginato» (Alberto Tedeschi, Introduzione a «Il grande sonno», Arnoldo Mondadori Editore 1974, pagg. 5 e 9).

D’accordo? Spero di sì. Ma ancora qualcosa ci sfugge. Marlowe è molto spiritoso. A volte di un umorismo quasi macabro. Altre volte è puro “Wit” della migliore tradizione irlandese e anglosassone (da cui Chandler discendeva). Anche quest’arguzia lo rende simile al miglior Cary Grant, al protagonista assoluto della commedia sofisticata e brillante, quella che i critici chiamavano Screwball comedy, alludendo all’imprevedibile follia di un tiro con un magico effetto, come solo un fuoriclasse, fuori dagli schemi, sa fare. Se è così, per questo carattere di personaggio un po’ svitato, un po’ pazzerello, un po’ fuori dal mondo – e dunque più saggio nella sua bonaria follia dei saggi di questo mondo che credono di saperla lunga solo perché hanno la memoria corta – oserei dire che un personaggio dello schermo vicino a Marlowe è Elliot Gould, dinoccolato, disarmante, ingenuo e ironico, figlio dei figli dei fiori. «Il Lungo addio» di Altman, infedele nella lettera al romanzo e a Marlowe, è forse il più fedele nella sostanza allo spirito amaro e sarcastico dello sradicato Chandler, così come la rivolta dei giovani contro il Vietnam accompagnata dalla chitarra di Dylan è la più vicina alla rivolta di Woody Guthrie, di Tom Joad e John Ford contro l’America amara e contro i padri padroni padrini che la dissanguano.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

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Un commento

  • Massimo Ruggeri

    Leggendo i primi ottimi Montalbano pensai subito che l’interprete ideale per un film fosse Mastroianni. Ma non era gia’ piu’ tra noi. In subordine Luigi Maria Burruano? Troppo mefistofelico per matrigna Rai. Comunque lo stesso Fleming indico’ Grant come interprete ideale per ‘ Licenza di uccidere’ (Dr.No).Evidentemente per un ventennio Grant fu considerato l’ideale ‘medio proporzionale’ per tutte le stagioni di cinema.

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