«Pinelli. Una finestra sulla strage» di Camilla Cederna

Ricordando il 15 dicembre 1969 a Milano

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Mezzanotte è passata da poco, ma è difficile dormire bene dopo una giornata come quella del 15 dicembre 1969, dopo il funerale delle vittime della Banca dell’Agricoltura. Come se tutta quell’angoscia fosse entrata nelle ossa insieme a una nebbia mai vista che rendeva bassissimo il cielo e nero il mezzogiorno. E con ancora nelle orecchie l’eco dei singhiozzi delle famiglie mentre il coro delle voci bianche in Duomo pregava Dio di aprire le porte del cielo ai loro parenti straziati. Poi quel silenzio compatto, monumentale, che aveva salutato le bare sul sagrato, quei grappoli oscuri di gente ai balconi e alle finestre, quel tappeto di folla immobile e buia nel buio che copriva tutta la città paralizzata, una quantità di gente venuta da lontano a circondare il Duomo, visi chiusi, espressioni sgomente, un dolore unanime e una tensione quasi fisicamente percepibili.
Cinque ore in Duomo in piedi a un banco per meglio vedere e sentire, un’ora in giro dopo, a casa a scrivere uno degli articoli più difficili di una lunga carriera (dovevo cominciare dalle bombe del 12, da tutto quel sangue, i rottami, i carabinieri che svengono, il sindaco che esce dalla banca col viso color terra, i parenti che vengono portati via piegati in due con la faccia tra le mani, i racconti degli scampati, il volo dei corpi mutilati sotto la cupola del salone, ecco la guerra, i bombardamenti, il caos, il massacro, il macello, ecco l’odor di guerra, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne bruciata e di zolfo). E adesso a letto col sonno che non arriva.
Arriva invece una telefonata.

«Sei già a letto? Non importa. Fra cinque minuti davanti al tuo cancello».

«Perché?».

«Un uomo si é buttato da una finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un’occhiata».

Sono due amici coi quali ho sempre corso in questi giorni, Corrado Stajano e Giampaolo Pansa, hanno la faccia e i modi di questi giorni, gesti frettolosi, rabbia e dolore negli occhi.
 Via di corsa al Fatebenefratelli dove è stato trasportato il morente: nell’atrio c’è un gruppetto di poliziotti. Curiosa come sempre, guardando davanti a me come se qualcuno mi aspettasse con ansia, mi dirigo verso le stanzette del Pronto Soccorso. Mi imbatto in poliziotti in borghese, riesco a vedere i piedi di un uomo disteso su un lettino, mi viene incontro il medico capoturno (saprò dopo che è Nazzareno Fiorenzano). 
Prima che alle mie spalle un giornalista concorrente faccia segno a un agente di non lasciarmi passare, il medico mi dà notizie del nuovo arrivato. «Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente da fare, durerà poco».

Fa a tempo a chiedermi se so chi è quest’uomo con la barbetta che è stato accompagnato all’ospedale da una scorta imponente della questura, dirigenti in testa e anche carabinieri, perché a lui, nonostante l’avesse chiesto più d’una volta, non avevano voluto rispondere. «È un anarchico» gli dico «si chiama Giuseppe Pinelli» l’ho saputo un minuto prima, senza rendermi conto naturalmente che sarebbe diventato per me un nome dei più familiari, che di lì a pochi mesi mi sembrerà d’averlo conosciuto da sempre, lui, i suoi sogni, la sua generosità leggendaria, la sua sete di sapere, la sua voglia di vivere, le sue bambine, la moglie Licia che un po’ l’ammira e un po’ lo prende in giro.
E adesso come non correre a casa sua a parlare con la moglie? Via Preneste 2, una casa popolare, una povera scala: e già due cronisti del “Corriere” che la scendono in fretta. Sono stati loro ad avvertire la signora Pinelli che suo marito si è gettato dalla finestra. E noi siamo lì subito dopo, io almeno con quel senso di vergogna che prende un giornalista quando entra nella casa del dolore, a tendere il collo sopra il taccuino, a far domande alle volte anche crudeli a chi piange. Ma Licia Pinelli non piange, ed è per questo che fa più impressione: è lì tutta dritta nella sua vestaglietta rosa dal collettino ricamato, con un bel viso grigio di pallore e gli occhi intenti che han sotto un alone scuro. Parla piano per non svegliare le bambine ma, decisa a non lasciarci entrare, socchiude appena la porta, e sta lì ben piantata in quella fessura, a difendere la sua casa.
La sua voce è ferma, senza incrinature: il marito lei non lo vede dal pomeriggio del 12, da quando, dopo aver dormito fino a mezzogiorno e dopo aver fatto da mangiare era uscito a prendere la tredicesima. Lei sa che poi era andato alla sede del Movimento anarchico, sa che ha seguito i poliziotti in questura, lui le ha telefonato due volte al giorno per dirle di star tranquilla, tanto è abituato a questi incontri; e hanno fatto anche una perquisizione in casa, bisognava vedere com’erano spaventati i poliziotti da tutti quei libri: avevan finito col portare via qualche documento e delle lettere personali. Certo che non è per la violenza, è partigiano della fratellanza universale, lui vuole soltanto una società più umana. Le hanno detto soltanto che si è buttato, non le hanno detto ancora che è morto: mentre parliamo, passa tra noi e la porta una vecchietta dagli occhi rossi e il fazzoletto nero in testa: è la madre di Pinelli che corre all’ospedale. 
Ed è ora per noi di andarcene: ce lo fa capire senza dircelo la signora Licia, la cui dignità, non solo fisica, colpisce soprattutto i due uomini.

…… continua su

www.giugenna.com/2009/12/12/camilla-cederna-pinelli-una-finestra-sulla-strage/

ovvero su «Giuseppe Genna blog e libri».

Grazie a Bianca che mi ha segnalato come ritrovare questo coraggioso libro per riproporlo a chi è troppo giovane per conoscerlo. Qui in “bottega” si tornerà – già domani – a parlare sia di Giuseppe Pinelli, entrato vivo in questura e uscitone da una finestra, che della strage di piazza Fontana: per tutte le persone consapevoli della nostra generazione quella resta «La strage di Stato», come titolò una (allora) famosa inchiesta: l’ha di recente ripubblicata Odradek e merita di essere letta da chi non vuol restare ignorante e smemorato. (db)

 

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