Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano…

Relazione di Roberto Massari (*) al convegno «Il Vaticano e il fascismo» (**)

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PIO XII E LA GERARCHIA VATICANA SAPEVANO…

di Roberto Massari

1. … che Pio XI aveva deciso di denunciare l’antisemitismo e la politica dei nazisti verso gli ebrei.

2. … che si preparava il «Programma di Eutanasia» contro i disabili gravi e i malati di mente.

3. … che era in atto lo sterminio degli ebrei in Europa.

4. … che si preparava la razzia nel quartiere ebraico di Roma.

5. … che si stava compiendo il massacro delle Fosse Ardeatine.

6. … che in Slovacchia e Croazia allo sterminio collaborava in prima persona la gerarchia cattolica locale.

7. … che se avessero fatto i passi necessari, gran parte di tutto ciò si sarebbe evitato.

8. … che migliaia di criminali nazisti scappavano passando attraverso strutture della Chiesa in Italia e a Roma in particolare.

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«Questo voto [di pace] l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di

persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di

nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo

deperimento».

Pio XII, messaggio natalizio del 1942, dopo che i Governi alleati

avevano condannato ufficialmente lo sterminio degli ebrei e annunciato

la punizione dei responsabili.

«Giorno dopo giorno giungono a nostra conoscenza atti inumani che non

hanno nulla a che vedere con le reali necessità della guerra e che ci

riempiono di stupore e di raccapriccio».

Lettera di Pio XII (30 aprile 1943) al vescovo di Berlino, Konrad von

Preysing, che lo aveva più volte sollecitato a denunciare apertamente i

crimini del nazismo (Adss, II, pp. 319 sg.).

[Adss = Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Second guerre mondiale]

Le due frasi qui riportate rappresentano la premessa e la sintesi del testo che segue. Esse sono state citate più e più volte nella letteratura a favore o contro il comportamento tenuto da Pio XII nei confronti del nazismo e della persecuzione antiebraica, perché rappresentano il livello più alto di denuncia da lui mai formulato del nazismo e della Shoah. Non esistono dichiarazioni che vadano oltre o che facciano capire più chiaramente a chi o a che cosa Pio XII alludesse. Quelle frasi passarono inosservate all’epoca, ma costituiscono oggi un bruciante atto d’accusa verso il Pontefice che con i suoi silenzi e le sue manovre diplomatiche consentì ai nazisti di togliere la vita a milioni di ebrei e a decine di migliaia di zingari senza che dal Vaticano si levasse una qualsiasi voce ufficiale e autorevole per fermare la mano degli esecutori della Shoah.

Il lettore noterà in entrambe le frasi a) che non sono nominati nemmeno indirettamente o con perifrasi il nazismo e l’antisemitismo; b) che non vengono nominati gli ebrei, le deportazioni e meno che mai i campi di sterminio; c) che il ragionamento (benché molto implicito) ha basi esclusivamente politiche, giacché nel primo caso si tratta di un tentativo di cautelarsi rispetto alle denunce ben più esplicite formulate dalle nazioni alleate che combattevano contro il nazismo; nel secondo caso si cercava di tacitare quei settori del clero europeo e soprattutto statunitense che chiedevano un maggiore impegno contro lo sterminio; d) che entrambe le frasi costituiscono un’ammissione di consapevolezza da parte del Pontefice riguardo al fatto che «centinaia di migliaia di persone» innocenti venivano uccise o deportate, ma anche che il trattamento loro inflitto era «inumano e raccapricciante».

Con queste due frasi, quindi, anche il lettore più sprovveduto ha l’immediata possibilità di stabilire se Pio XII sapesse quanto stava accadendo in Europa ad opera del nazismo e se abbia fatto qualcosa per porre termine a quel genocidio. Ci si potrebbe fermare anche a queste due citazioni, giacché le pagine che seguono servono solo a rimpolpare di dati questa esplicita ammissione di consapevolezza e quindi di tacita corresponsabilità in ciò che il nazismo stava facendo al di fuori delle «reali necessità della guerra».

Ma anche quest’ultima espressione, in fondo, è una prova a sua volta sintomatica dell’atteggiamento di Pio XII nei confronti della politica guerrafondaia della principale potenza responsabile per l’inizio della Seconda guerra mondiale. Riguardo all’altra potenza responsabile, l’Urss staliniana alleata di Hitler dall’agosto 1939 al giugno 1941, non diremo nulla nelle pagine che seguono per economia di discorso e per restare nel tema.

Vale invece la pena di citare alcune «testimonianze», attendibili nella loro scarna formulazione, racchiuse nei rapporti che le ambasciate tedesche inviavano al Ministero degli esteri di Berlino, riguardo all’atteggiamento del Papa nella fase calante dell’offensiva militare tedesca. È tale e tanta la preoccupazione della Santa Sede per le sorti del nazismo dopo i primi successi riportati dalle controffensive russe e degli alleati, che il lettore può facilmente immaginare quale atteggiamento essa avesse nella fase ascendente dell’offensiva nazista. (I documenti citati sono in La «Santissima Trinità», a cura di Nicola Tranfaglia, Bompiani, Milano 2011, pp. 31, 38, 50.)

Per es. dall’ambasciata tedesca di Bruxelles (23 febbraio 1943):

«Il Papa è turbato dai successi militari dei russi e dalla possibilità di un crollo della Germania».

Dall’ambasciata presso la Santa Sede (Weizsäcker) (3 settembre 1943):

«Il Papa giudica severamente tutti i piani che mirano a indebolire il Reich tedesco».

Da Sir Anthony Eden (ministro degli Esteri britannico) all’ambasciatore britannico a Washington (2 novembre 1943):

«… quando il Vaticano parlava di preservare “Roma città aperta”, si riferiva alle operazioni militari. A parte il fatto che la denominazione di “Città aperta” è una farsa, l’Urbe è alla mercé dei tedeschi… che applicano metodi spietati nella persecuzione degli ebrei. Roma soffre il destino di tutte le città occupate dai tedeschi».

1. Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano che Pio XI aveva deciso di denunciare l’antisemitismo e la politica dei nazisti verso gli ebrei

Negli ultimi tempi del suo pontificato, Pio XI cominciò a prendere le distanze dal regime del Reich (che pure aveva nel passato aiutato in ogni suo aspetto, assecondando anche in termini dottrinali la sua campagna antisemita). Ma c’è una data (23 gennaio 1937) – udienza con i vescovi di Berlino e di Münster – in cui, dovendo definire in termini negativi l’hitlerismo, Pio XI disse:

«Il nazionalsocialismo, per i suoi scopi e i suoi metodi, non è altro che bolscevismo».

Una frase che forse oggi può significare poco, ma all’epoca capovolgeva tutta una tradizione politica del Vaticano che aveva sempre considerato solo il bolscevismo come autentico Satana, il nemico numero uno in assoluto, e aveva sempre incoraggiato il regime hitleriano nelle sue manifestazioni anticomuniste (basti pensare che con Pio XII si arriverà ad applaudire l’Operazione Barbarossa, l’aggressione hitleriana all’Unione Sovietica del giugno 1941). Da quel gennaio del 1937 in poi si susseguirono gli episodi e le dichiarazioni che indicavano una precisa volontà da parte del Pontefice di prendere le distanze dal Reich. Lo dimostra l’enciclica Mit brennender Sorge («Con viva preoccupazione», del 10 marzo 1937), in cui si profila un atteggiamento più duro della Santa Sede nella critica al nazismo, in radicale contrasto con la precedente politica di complice collaborazione.

Gli storici non mancano di far osservare che con quell’enciclica il Papa scavalcava in vari sensi l’episcopato tedesco che, nella sua maggioranza, avrebbe preferito proseguire in una linea di pacifica convivenza. Anche se non erano mancate voci «più cristiane», come il vescovo di Berlino, monsignor von Preysing, che a ottobre 1937 arriverà a chiedere un deciso cambiamento di linea nei confronti del regime, dopo aver lungamente tentato di richiamare ai propri doveri l’episcopato tedesco. E che continuerà a farlo in futuro con Pio XII, riferendogli dello sterminio in atto e invocando inutilmente un suo intervento (per es. 17 gennaio 1941, 6 marzo 1943 – purtroppo la maggior parte delle 89 lettere scritte da questo vescovo antinazista non sono state ancora rese pubbliche [Giovanni Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Rcs, Milano 2000, p. 416 n.].

Dopo la dura denuncia contenuta nell’omelia natalizia del 1937, dalla seconda metà del 1938 in poi si moltiplicano le denunce pontificie del «razzismo» e del «nazionalismo esagerato», provocando un indurimento corrispondente da parte del Reich. È questo il periodo in cui alcune migliaia di sacerdoti (8.000 è stato calcolato da Ulbrich von Hehl, Priester unter Hitlers Terror, Mainz 1985) vengono imprigionati: molti saranno poi inviati nei lager dove ne moriranno 110, oltre ad altri 59 uccisi in vario modo. Contro queste repressioni, tuttavia, non mancarono le proteste ufficiali e le vibrate proteste della Santa Sede, che riuscirono a contenere in parte l’ampiezza dell’offensiva. Ennesima prova del fatto che il Pontefice godeva di un’autorità spirituale forte, capace di strappare risultati concreti quando veniva tradotta in atti di pubblica condanna.

Il 22 giugno 1938 Pio XI incarica il gesuita statunitense John La Farge di predisporre il testo di un’Enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo: antisemitismo che il Papa denuncerà comunque in prima persona rivolgendosi a una delegazione belga il 6 settembre. Tutto ciò doveva essere il preludio a una decisione di rompere apertamente con il Terzo Reich: una decisione raggiunta probabilmente – secondo autorevoli opinioni – sotto l’impressione traumatica provocata dalle stragi antiebraiche della Notte dei Cristalli (9-10 novembre 1938).

Esistono testimonianze di ambienti della Curia romana secondo le quali Eugenio Pacelli avrebbe invece frenato in continuazione questa crescente volontà di rottura, giungendo ad attenuare sull’Osservatore Romano le formulazioni papali troppo esplicite nella condanna della persecuzione nazista contro la Chiesa cattolica (solo di questa, infatti, stiamo parlando e non della persecuzione antiebraica, nei riguardi della quale neanche Pio XI arrivò ad esplicite denunce, nonostante la volontà di contrapporsi all’antisemitismo di cui si è già detto).

Nelle proprie memorie (Erinnerungen, 1950, p. 352) Ernst von Weizsäcker (da luglio 1943 ambasciatore del Reich presso la Santa Sede, ma in precedenza segretario di Stato presso il Ministero degli affari esteri di Berlino) scrisse il seguente parere, molto significativo per il discorso che qui ci interessa:

«Se Pio XI, così impulsivo ed energico, fosse vissuto un po’ più a lungo, si sarebbe arrivati con ogni probabilità a una rottura dei rapporti tra il Reich e la Curia».

Con conseguenze inimmaginabili per la tenuta del nazismo, per la sua dichiarata volontà di scatenare la guerra potendo contare sull’acquiescenza dell’intero popolo tedesco (in gran parte cattolico), per l’avvio dello sterminio antiebraico (e antizingaro) che certamente non si sarebbe potuto svolgere indisturbato come avvenne, nel silenzio e nella complicità delle alte gerarchie vaticane e dell’episcopato tedesco quasi al completo.

L’enciclica di rottura col nazismo voluta da Pio XI non fu mai pubblicata, fu fatta scomparire nei meandri della burocrazia vaticana e, alla sua morte, fu eletto senza esitazioni Pio XII (2 marzo 1939), essendo egli considerato, per la sua storia passata e i suoi sforzi di moderatore nei confronti di Pio XI, la principale personalità politica in grado di ricucire gli strappi provocati dal suo predecessore. Sapevano benissimo i cardinali elettori di quello storico Conclave che il nuovo Papa avrebbe dovuto affrontare la burrasca della prossima guerra mondiale mantenendo buoni rapporti con la potenza che l’avrebbe scatenata, e sapevano anche che l’aggravarsi della repressione antiebraica avrebbe posto problemi gravissimi alla Chiesa cattolica tedesca, che fino a quel momento aveva cavalcato l’antisemitismo pagano del Reich apponendovi il sigillo dell’antisemitismo «cristiano» (storico e dottrinale).

Non a caso, il primo provvedimento del nuovo Pontefice fu di far scomparire l’Enciclica in questione, facendo in modo che fuori degli ambienti vaticani si ignorasse per lo più e per molti anni di questa volontà di rottura da parte di Pio XI. Pacelli e la Curia sapevano dove l’enciclica di Pio XI sarebbe andata a parare e provvidero immediatamente a raddrizzare la barca. Una sterzata che costerà la vita a un numero certamente maggiore (di quanti milioni non si può calcolare) di ebrei che il Reich non avrebbe potuto sterminare così tranquillamente senza l’avallo silenzioso del nuovo Papa, dell’intera diplomazia vaticana, dei solerti vescovi tedeschi e dell’altra Chiesa concorrente (la protestante).

2. Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano che si preparava il «Programma di Eutanasia» contro i disabili gravi e i malati di mente

Esistono ricerche documentarie sullo svolgimento di questo orrore tra i molti altri orrori del nazismo. Meno noto però è che il silenzio del Vaticano durò a lungo (il tempo necessario a sterminare decine di migliaia di esseri umani considerati «irrecuperabili») anche su questo programma di eliminazione dei malati mentali e disabili gravi, prima di assurgere a pubblica protesta e farvi porre fine.

Una nuova luce su questo comportamento del Vaticano fu gettata nel 1971 da Gitta Sereny (In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1974), quando intervistò per la sua ricerca Franz Stangl in carcere, ex comandante di Sobibor, poi di Treblinka, ma in precedenza sovrintendente di Polizia dell’Istituto di Eutanasia del Castello di Hartheim, dal novembre 1940 al febbraio 1942.

Tralasciando alcuni dettagli importanti di quel programma che la «confessione» del nazista recluso ha rivelato per la prima volta o ha contribuito a rivelare, va detto che secondo l’autrice

«la Chiesa cattolica, Vaticano compreso, conosceva i progetti di Hitler a proposito dell’eutanasia, prima che il programma avesse inizio» (p. 80).

Non possono esserci dubbi sul rifiuto dottrinale e di principio da parte della Chiesa cattolica riguardo alle nuove teorie eugenetiche del nazismo, destinate a passare dall’iniziale sterilizzazione forzata dei portatori di malattie ereditarie alla finale eliminazione fisica di un certo tipo di malati. Su questo la posizione della Chiesa fu sempre di chiaro rifiuto, storico e dottrinale. Ma ciò non ebbe immediate conseguenze sul piano del comportamento pratico, perché ancora una volta la ragion di stato (non intralciare l’azione del governo nazista) prevalse sullo spirito cristiano o anche semplicemente sullo spirito umanitario.

Gitta Sereny ricostruisce la testimonianza di un ex nazista, Albert Hartl, riguardo a una «Opinione» scritta alla fine del 1939 da un docente di Teologia morale all’Università cattolica di Paderborn (della quale era stato rettore) – Joseph Mayer – su richiesta della Cancelleria di Hitler, riguardo all’atteggiamento che la Chiesa cattolica e quella protestante avrebbero avuto davanti all’applicazione del Programma di Eutanasia. Mayer concluse l’ampia ricerca durata sei mesi scrivendo che non c’era da aspettarsi un’opposizione unanime da parte delle due Chiese e Hitler si sentì quindi libero di dare avvio al Programma (Sereny, p. 91).

Hartl raccontò poi di aver informato del contenuto dell’Opinione, e della decisione di Hitler, Joseph Roth, ex prete a capo della Sezione cattolica del ministero per il Culto in Germania. Questi trasmise una copia dell’Opinione e informò il Nunzio apostolico Cesare Orsenigo e l’arcivescovo Berning di Osnabrück. Qualcosa di analogo fu fatto per la parte protestante. Cosa Orsenigo abbia fatto con il materiale e l’informazione ricevuta non è dato sapere, ma suo compito era certamente di trasmetterlo alla Segreteria di Stato vaticana e quindi a Pio XII, dalla cui bocca, come al solito, non emerse la benché minima condanna del Programma prima che questo iniziasse e fino a quando non fu bloccato. Tacque soprattutto nella fase in cui il Führer si preoccupava di sapere se le due Chiese (cattolica e protestante) si sarebbero opposte al programma dell’Eutanasia, in coerenza con le loro posizioni tradizionalmente contrarie. Una dichiarazione pubblica fatta in quella fase avrebbe certamente impedito l’avvio del Programma.

Un processo sull’eutanasia nazista svoltosi in Germania nel 1967 ha confermato le dichiarazioni di Hartl (compresa la testimonianza di Mayer), ma del testo dell’Opinione non si è mai trovata traccia, nemmeno una copia. Solo a marzo del 1975, tuttavia, la Civiltà Cattolica confermerà che l’Opinione di Mayer era esistita veramente. E ciò consente a Gitta Sereny di concludere che

«l’Opinione era stata commissionata e che era stata fatta conoscere a queste autorità [Nunzio apostolico Orsenigo, vescovi ecc.] per uno scopo preciso: per sapere se la Chiesa si sarebbe opposta attivamente al Programma di Eutanasia voluto dallo Stato. La risposta, per Hitler, fu chiara a sufficienza: non vi sarebbe stata alcuna azione immediata e concertata. E infatti non vi fu» (p. 98).

Lo sterminio dei bambini malati mentali prese il via alla fine dell’estate 1939 e a ottobre già procedeva a pieno ritmo.

Il silenzio delle due Chiese si protrasse per alcuni mesi. Il 19 marzo 1940 alzò la voce indignata il vescovo protestante del Württemberg, Theophil Wurm. Il Vaticano continuò a tacere fino al 27 novembre 1940, quando il Santo Uffizio emise la sua prima condanna del Programma, ma lo fece in latino e si limitò a diffonderlo alla Radio Vaticana e sull’Osservatore Romano. Se fosse dipeso dalla diplomazia vaticana, la cosa sarebbe finita lì.

Senonché il solito vescovo Preysing la lesse durante la predica del 9 marzo 1941, nella cattedrale di Santa Edvige a Berlino, contribuendo così alla diffusione dello scandalo che in determinati ambienti tedeschi cominciava a prendere piede mano a mano che si diffondeva la notizia dell’efferato crimine. La Curia romana e il Sommo Pontefice continuarono a tacere, ma così non fece un altro vescovo (von Galen), dissidente rispetto alla linea dei «silenzi» vaticani.

E così, grazie alle tre prediche del vescovo di Münster (13 e 20 luglio, 3 agosto 1941), il problema dell’eliminazione dei malati mentali e disabili divenne oggetto di pubblica e documentata denuncia, aprendo una dinamica che porterà di lì a poco (24 agosto 1941) alla sospensione del programma «Eutanasia». Un’altra dimostrazione che la linea della denuncia pubblica e della contrapposizione frontale poteva produrre risultati positivi, senza alcuna ritorsione nei confronti di chi l’avesse pronunciata (in àmbito religioso, ovviamente, e soprattutto cattolico).

Pio XII parlerà apertamente contro il Programma di Eutanasia (senza sbracciarsi, ovviamente) solo nella sua lettera pastorale Mystici corporis, pubblicata il 29 giugno 1943, cioè quasi due anni dopo la sospensione del Programma e dopo che alcune decine di migliaia di malati (60-80 mila, secondo Sereny) erano stati «eliminati».

3. Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano che era in atto lo sterminio degli ebrei in Europa

E di «eliminazionismo» bisogna parlare – secondo Daniel Jonah Goldhagen (Una questione morale. La Chiesa cattolica e l’Olocausto, Mondadori, Milano 2002) – come termine di riferimento maggiormente comprensivo rispetto a «sterminio» o altre formule variamente utilizzate per riferirsi all’eccidio del popolo ebraico. Tutta la prima parte del suo lavoro (la densa Introduzione e la sezione «Accertare la condotta», fino a pagina 97) fornisce una sintesi accuratissima delle responsabilità della Chiesa cattolica nei confronti del genocidio ebraico in termini storico-politici. La seconda e terza sezione affrontano invece le responsabilità cattoliche più propriamente morali e dottrinali (e con quest’ultime mi consento modestamente di dissentire sul piano dell’esegesi evangelica). Ma per il resto il libro è una somma di informazioni, riflessioni e indicazioni che ogni credente cristiano (cattolico e non) non dovrebbe ignorare. Il lavoro di Goldhagen valorizza e rinvia a molti altri lavori tra i quali egli predilige in particolare James Carroll, David Kertzer, Michael Phayer, Garry Wills e Susan Zuccotti. Sorprende la sua totale ignoranza dell’opera di Deschner (con la quale invece polemizza molto sbrigativamente Giovanni Miccoli).

Sul fatto che la Chiesa fosse al corrente in tempo reale di quanto cominciò ad accadere in Polonia e poi sempre più drammaticamente nei territori occupati dalla Wehrmacht, non si può seriamente obiettare nulla. E che le alte gerarchie del Vaticano abbiano sempre taciute è ormai argomento storicamente assodato e concluso. Che la denuncia da parte di Pio XII non sia mai andata al di là della prima frase riportata all’inizio di questo lavoro, è incontestabile.

Lasciando quindi da parte la Germania – dove la S. Sede fu sempre informata dalle proprie strutture nazionali, dettagliatamente e giorno per giorno, su come si andava aggravando la persecuzione contro gli ebrei tedeschi fino alle deportazioni sistematiche che iniziarono nell’ottobre 1941 – resterebbe solo da vedere la tempistica nei Paesi occupati dai nazisti. Per la Germania, comunque, valgano per tutti le informazioni fornite da monsignor Gröber, arcivescovo di Friburgo (per es. 14 giugno 1942).

Le alte sfere ecclesiastiche seppero fin dall’inizio della costruzione dei grandi ghetti polacchi nel 1940 e comunque una nota compilata dalla stessa Segreteria di Stato vaticana (5 maggio 1943, Adss, IX, p. 274) fornisce la cifra di circa 4.500.000 ebrei polacchi scomparsi, accennando all’esistenza di campi di sterminio come Treblinka, camere a gas, trasporti in carri bestiame.

La strage degli ebrei in Ucraina fu comunicata da varie fonti, tra le quali risaltano don Pirro Scavizzi (12 maggio, Adss, VIII, p. 534 e per la Polonia 7 ottobre 1942) – «La strage degli ebrei in Ucraina è ormai al completo. In Polonia e in Germania la si vuole portare ugualmente al completo, col sistema delle uccisioni in massa» – e monsignor Andrea Szeptyckyj. Queste notizie drammatiche provenienti da vari Paesi occupati furono riassunte con precisione da monsignor Montini (futuro Paolo VI) il 18 settembre 1942 (Adss, VIII, p. 665), nella sua veste di Sostituto della Segreteria di Stato [quindi di Eugenio Pacelli/Pio XII].

Le prime deportazioni in Polonia degli ebrei slovacchi furono comunicate da monsignor Giuseppe Burzio il 9 marzo 1942. Lo stesso che il 7 marzo 1943 descriveva la brutalità dello sterminio in Polonia, facendo esplicito riferimento alle gasificazioni, la saponificazione e altre atrocità (Adss, IX, p. 177).

Lo sterminio degli ebrei in Lettonia fu comunicato tra gli altri da monsignor Antonio Springovics (arcivescovo di Riga) in una lettera a Pio XII del 12 dicembre 1942 (Adss, III, pp. 695 sgg.).

Per le persecuzioni antiebraiche nella Russia invasa riferiva il cappellano militare Ottorino Marcolini (16 marzo 1943).

Per il Reichsgau Wartheland (il territorio polacco sottoposto a germanizzazione forzata) le informazioni riguardarono, oltre alla liquidazione totale della preesistente popolazione ebraica, anche l’uccisione di sacerdoti o il loro internamento nei lager (su questo secondo aspetto di repressione anticattolica, tuttavia, non mancarono le proteste ufficiali della Santa Sede).

Per l’Italia occupata, lo sterminio nella risiera di San Sabba a Trieste, le razzie e le persecuzioni successive all’adozione delle Leggi antiebraiche da parte del governo fascista (tra il settembre 1938 e il luglio 1939) furono ovviamente fonte di relazioni pressoché quotidiane. Ma su gran parte di questa documentazione la Chiesa attuale continua a mantenere il segreto di Stato.

4. Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano che si preparava la razzia nel quartiere ebraico di Roma

La razzia antiebraica (16 ottobre 1943) fu realizzata praticamente accanto al Vaticano (forse un km o poco più in linea d’aria), per la quale Pio XII non mosse un dito né prima né durante né dopo. Unica preoccupazione della Santa Sede fu di far togliere dal gruppo dei cittadini romani da deportare alcuni ebrei cattolici (cioè convertiti) o sposati con matrimoni misti. E su questo la Gestapo non ebbe da obiettare. Per il resto non accadde nulla e così furono deportati ad Auschwitz 1023 esseri umani, dei quali torneranno vivi solo 16 (15 uomini e una donna).

Testimonianze e documenti sul fatto che il Vaticano fu constantemente tenuto al corrente della razzia sono tante, documentate e diffuse in gran parte della letteratura dedicata all’argomento dei rapporti fra la Chiesa e il nazismo durante l’occupazione di Roma. Il rastrellamento del quartiere ebraico romano al di qua del Tevere non avrebbe nessuna caratteristica particolare per considerarlo più grave di altre stragi o deportazioni operate in Italia (Marzabotto, S. Anna di Stazzema ecc.), se non fosse per il drammatico valore simbolico che esso ha acquisito e che non accenna a perdere con il tempo a causa dell silenzio dall’altra parte del Tevere, che lo rese possibile in tutta la sua efferatezza, ma anche indimenticabile per la città di Roma.

5. Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano che si stava compiendo il massacro delle Fosse Ardeatine

Vedi l’opera infaticabile di Robert Katz, dalla prima edizione del suo Morte a Roma (Editori Riuniti, Roma 1967) fino alla nuova edizione aggiornata del 1994. In mezzo c’è il processo intentato contro di lui dagli eredi di papa Pacelli, per contestare che Pio XII fosse al corrente della strage che si preparava alle Fosse Ardeatine. Dopo varie traversie giudiziarie giunte fino alla Corte di Cassazione, si è dovuta riconoscere l’autenticità del rapporto inviato dal Governatorato di Roma alla Segreteria di stato vaticana alle ore 10.15 del 24 marzo 1944, in cui si informava la Santa Sede che tra le «contromisure» per «l’incidente» di via Rasella «si prevede che per ogni tedesco ucciso saranno passati per le armi dieci italiani».

Davanti alla menzogna protrattasi fino al 1980 (secondo cui il Vaticano sarebbe stato all’oscuro della rappresaglia preparata dai nazisti con l’aiuto dei fascisti), Katz ha così potuto concludere liberamente nel suo Roma città aperta. Settembre 1943-giugno 1944 (Il Saggiatore, Milano 2003, p. 396) che secondo quanto

«è emerso dagli archivi vaticani… deve ritenersi chiarita la questione. Il documento del Governatorato prova al di là di ogni dubbio che, almeno cinque ore e quindici minuti prima che fosse ucciso il primo uomo alle Fosse Ardeatine, la Segreteria di stato di Sua Santità era stata autorevolmente informata che “si prevedeva l’uccisione di dieci italiani per ogni tedesco morto”».

6. Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano che in Slovacchia e Croazia allo sterminio collaborava in prima persona la gerarchia cattolica locale

I decreti dello Stato indipendente di Croazia, nato dopo l’aprile 1941 – Stato cattolico sottoposto alla dittatura del Poglavnik [duce] Ante Pavelić – iniziò la persecuzione dei serbi-ortodossi e degli ebrei, dopo un incontro in udienza privata con Pio XII, il 18 maggio 1941. Sulla politica di sterminio di quei due settori della popolazione croata c’è tanta documentazione da non dover spendere nemmeno un paragrafo. Così come enorme è la documentazione sul coinvolgimento diretto delle autorità religiose (cattoliche) nell’opera di sterminio, in particolare sotto la responsabilità del cardinale e arcivescovo croato Alojzije Viktor Stepinac (beatificato da Giovanni Paolo II nel 1998), coadiuvato dal capo dell’intelligence croata della Segreteria di Stato vaticana, padre Krunoslav Stjepan Draganović.

7. Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano che se avessero fatto i passi necessari, gran parte di tutto ciò si sarebbe evitato

L’11 giugno 1940, scrivendo all’arcivescovo di Parigi card. Suhard, il celebre esponente del modernismo, cardinale Eugène Tisserant, dopo aver fornito un’analisi dei crimini nazifascisti in Francia e dopo aver ricordato con quanta forza aveva chiesto a Pio XII un’enciclica sull’obbligo di rispondere in primo luogo alla propria coscienza, concludeva con una facile profezia riguardo alla politica del silenzio messa in atto dal Pontefice: «Temo che la storia non debba rimproverare alla Santa Sede di aver fatto una politica di comodo per se stessa e ben poco in più. È estremamente triste soprattutto quando si è vissuti sotto Pio XI» (dove è evidente un implicito riferimento alla volontà del precedente Pontefice di rompere col nazismo) (S. Friedländer, Pie XII et le IIIe Reich. Documents, Paris 1964, p. 61).

[Ricordare la sospensione delle deportazioni dalla Slovacchia come risultato di passi compiuti dalla Chiesa locale nell’autunno 1942, a riprova che con le denunce si ottenevano risultati e non c’era alcuna rappresaglia.]

Giovanni Miccoli (I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Rcs, Milano 2000, p. 116) invita a «inserire questo atteggiamento di riserbo verso i crimini nazisti nel più generale contesto della politica vaticana». Che è quanto viene fatto da Miccoli stesso per quanto riguarda la politica di sostegno data dal Vaticano (Pio XI e Pio XII) all’affermazione del Nazismo sin dal primo momento. Tralasciando il periodo precedente l’ascesa al potere delle camicie brune, nessuno storico serio ha ormai il coraggio di negare che la firma del Concordato [Reichskonkordat] da parte della Chiesa col nuovo regime (20 luglio 1933, 118 giorni dopo quel 23 marzo in cui il Reichstag aveva votato i pieni poteri al governo presieduto dal cancelliere Hitler) rappresentò il primo grande e fondamentale riconoscimento del nuovo governo da parte della massima autorità morale dell’epoca, in Europa e nel mondo: un sostegno prezioso, un’autentica legittimazione di un regime che già da tempo si era annunciato come razzista, antisemita, dittatoriale e guerrafondaio.

Il resto della politica vaticana in Germania (svolta su precise indicazioni della Santa Sede diretta da Pio XI, ma realizzata attraverso il Segretario di Stato Pacelli) fu di attiva e fedele collaborazione col governo nazista, ivi incluso il contributo dottrinale alla diffusione della propaganda antisemita e l’incitamento al popolo tedesco perché compisse il proprio dovere in guerra. Questa seconda parte è meglio trattata da Daniel Jonah Goldhagen già ricordato, la cui bibliografia sull’argomento elenca una notevole quantità di opere ben documentate e ben argomentate che sarebbe lungo qui elencare (molte di queste esistono in italiano e sono quindi di facile consultazione – in parte le abbiamo citate).

Esula dalle possibilità di questo nostro testo la descrizione della politica vaticana nei confronti delle varie fasi del regime nazista (sempre a favore, ma non senza esitazioni e contrasti); nei confronti della guerra (respinta in linea di principio, ma appoggiata sul terreno pratico della mobilitazione); nei confronti dell’aggressione all’Urss (salutata con l’entusiasmo che si può facilmente immaginare) se non si vogliono leggere le ripetute manifestazioni di gratitudine verso Hitler e gli incitamenti alla lotta contro il «bolscevismo» da parte dei vescovi tedeschi, sempre approvate dalla Segreteria di Stato (che a quel punto era ormai diretta da Montini, futuro Paolo VI, mentre Pio XII impartiva le sue direttive alla diplomazia vaticana); nei confronti della svolta che si delineò nel corso del 1943, quando cominciò ad essere evidente che la Germania sarebbe uscita sconfitta dalla guerra.

Tutte queste fasi sono facilmente documentabili (anche se una mole di materiali continua ad essere tenuta segreta) e mostrano la grande capacità di adattamento dimostrata dalla Chiesa e dal suo sommo ispiratore (Pio XII). Eppure, tra svolte e ripensamenti, ci fu un terreno sul quale la politica del Vaticano non cambiò di un millesimo di grado: il silenzio sullo sterminio ebraico cominciato negli anni ’40, proseguito nella fase in cui il Nazismo cominciava ad arretrare sul terreno militare, mantenuto anche nel dopoguerra quando non vi sarebbero più state ragioni «diplomatiche» per tacere. Ben dimostra Goldhagen che tale silenzio non era stato indotto da considerazioni temporanee di politica internazionale, di schieramento o di preoccupazioni per le sorti della Chiesa tedesca (che pure ci furono), ma proveniva da una tradizione quasi bimillenaria di antisemitismo cattolico, radicato nelle origini delle prime comunità cristiane (ex giudaiche), cresciuto con la trasformazione del Cristianesimo in religione di Stato, dilagato nel Medioevo e a seconda dei paesi, cristallizzatosi con la violenza dei pogrom in Polonia ed Europa orientale, ed esploso infine nello sterminio nazista. Purtroppo non ancora del tutto estinto anche ai giorni nostri. (Ma qui rifiuto categoricamente l’equiparazione che viene fatta da Goldhagen tra antisionismo e antisemitismo, prodotta da un’erronea definizione del primo per cui esso consisterebbe nella negazione del diritto ebraico ad avere un proprio Stato – da dove gli venga questa idea erronea e limitativa dell’antisionismo è difficile sapere. Forse dalla mancata lettura del fondamentale libro di Nathan Weinstock, Storia del sionismo, da me ripubblicata nel 2006 e da lui non citata.)

Ecco, l’invito di Goldhagen a valutare a fondo l’adesione della Chiesa all’antisemitismo in forma quasi ancestrale se non addirittura genetica, va raccolto anche sul piano storiografico, se si vuole veramente capire la sostanza dell’atteggiamento di Pio XII e dell’alta gerarchia ecclesiastica (tedesca, romana e di altri Paesi). Ridurre tutto a uno gioco di diplomazie contrapposte o alleate, a un soppesare col bilancino questa o quella frase, questo o quel silenzio, non consente di spiegare il comportamento della Chiesa. In mezzo a tante svolte e ripensamenti, non ci furono esitazioni o ripensamenti su quell’unico tema: sulla tradizione antisemita del Cristianesimo istituzionalizzato.

Sembra impossibile, ma l’antisemitismo era talmente radicato nella Chiesa di allora che Pio XII fece attenzione a non nominare gli ebrei in nessun atto ufficiale e nemmeno nei primi anni del dopoguerra. Un silenzio impressionante se si pensa a quanto la Chiesa fece ufficialmente e pubblicamente per salvare gli ebrei convertiti al Cattolicesimo o i membri di matrimoni misti (ebrei con cristiani).

Dovranno passare degli anni e ci vorranno altri Papi e altri sommovimenti interni alla Chiesa cattolica per arrivare a condanne esplicite del genocidio e all’abbandono, perlomeno ufficialmente, dell’antisemitismo connaturato alla tradizionale dottrina cattolica. In questo senso un merito per l’avvio del «disgelo» lo ebbe Giovanni XXIII, anche se dopo la sua morte fu subito ricongelato dall’ascesa al soglio pontificio di Paolo VI, vale a dire il card. Montini, quell’ex Sostituto della segreteria di Stato incaricato dei rapporti con il Nazismo, uomo di fiducia di Pio XII. Su Paolo VI è stata sempre stesa una coltre di silenzio e di assoluzione, cercando di nascondere il fatto che per la sua stessa carica fu al corrente di tutto ciò che accadde tra il Vaticano e il Nazismo, fu complice delle scelte di Pio XII e fu autore dei processi di insabbiamento di prove e di assolvimento delle colpe vaticane negli anni successivi alla morte di papa Pacelli e dopo l’intervallo «progressista» di papa Roncalli (Giovanni XXIII).

8. Pio XII e la gerarchia vaticana sapevano che migliaia di criminali nazisti scappavano passando attraverso strutture della Chiesa in Italia e a Roma in particolare

Vedi libro di Guido Caldiron: I segreti del Quarto Reich. La fuga dei criminali nazisti e la rete internazionale che li ha protetti, Newton Compton, Roma 2016. Caldiron si fonda a sua volta su un’abbondante letteratura, nella quale si possono ricordare almeno Gerald Steinacher, La via segreta dei nazisti, Rizzoli, Milano 2010 ed Ernst Klee, Chiesa e Nazismo, Einaudi, Torino 1993.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

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le foto  sono di Mario Eustachio.

(*) Relazione – appunti non rivisti – di Roberto Massari al convegno «Il Vaticano e il fascismo», Roma 21 settembre 2016, in occasione dell’edizione italiana di «Con dio e con i fascisti» di Karlheinz Deschner

(**) Ultimo di tre post in “bottega” con i materiali del convegno.

 

 

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