Polizie da abolire?

testi di Collectif Masuda, Serge Quadruppani e Jérôme Floch – a cura di Turi Palidda (*) con un estratto del libro “Abolire la polizia”

 

Abolire le polizie

Estratto del libro “Abolire la polizia”… qui mettiamo polizie e non solo il termine generale polizia poiché il testo riguarda tutte le forze di polizie

Premessa

Dopo gli articoli sul movimento statunitense per il definanziamento e l’abolizione delle polizie e delle carceri che l’anno scorso abbiamo pubblicato (tradotti in italiano) pubblichiamo ora alcuni articoli di compagni francesi che promuovono di rilanciare anche in Francia e in Europa questi obiettivi oltremodo necessari. Come si vedrà in questo articolo le parole d’ordine “disfare le polizie”, “definanziarle”, “abolirle” aprono in realtà un percorso di vere riforme opposte a quelle di facciata che da sempre ridanno più potere alle polizie. Un altro mondo è possibile senza polizie, senza carceri!

Sarebbe urgente che anche in Italia le lotte dei lavoratori reclamassero la drastica riduzione delle polizie e dei loro finanziamenti e l’aumento adeguato e quindi considerevole degli ispettori del lavoro e ispettori ASL, degli operatori socio-sanitari di centri pubblici (e non privati) fra cui in particolare quelli per la cura dei tossicodipendenti e delle persone affette da disagio psichico e anche dei semplici marginali oggi assurdamente reclusi nelle carceri.

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Ed ecco che il “Beauvau della sicurezza” (la conferenza sulla sicurezza organizzata nella sede del ministero dell’interno palais Beauvau) è finito e Emmanuel Macron ha potuto annunciare le misure promesse dopo la copertura mediatica di centinaia di abusi della polizia e relativi scandali: raddoppio dei poliziotti sulle strade, una dotazione di 1,5 miliardi euro, telecamere pedonali per non parlare dei treni gratuiti. Tutto questo per la polizia. In Francia, la denuncia della brutalità della polizia trova divertenti sbocchi politici.

L’uscita questo mese di Abolire la polizia[1] è tempestiva.

In questo libro, il collettivo Matsuda propone una raccolta di traduzioni di testi americani che fanno parte del cosiddetto movimento abolizionista, che quindi non si propone di riformare la polizia o di limitarne i finanziamenti ma più semplicemente di sbarazzarsene. Inoltre sono presenti numerosi testi di analisi e contestualizzazione, scritti dal collettivo stesso. Il libro si apre sul movimento di George Floyd che ha incendiato gli Stati Uniti nel 2020 e da cui è esplosa la parola d’ordine “abolire la polizia”. Dopo, più specificamente, si occupa del movimento abolizionista, della sua storia, della sua attualità e soprattutto dei suoi due principali ambiti di lotta: delegittimare la polizia attraverso una critica globale dell’istituzione e renderla concretamente obsoleta/inutile diffondendo modi di organizzarsi, di fronte a conflitti e attentati, al di fuori del sistema penale[2].

Questo libro è stato pubblicato quasi contemporaneamente a Défaire la police (https://www.editionsdivergences.com/livre/defaire-la-police) di cui sono autori oltre allo stesso Collectif Matsuda Quadruppani, Jérome Baschet, Elsa Dorlin e Guy Lerouge. La sua introduzione col titolo “Perché gli sbirri sono tutti dei bastardi?” è pubblicata sempre da Lundimatin qui: https://lundi.am/pourquoilespolicierssontilstousdesbatards e sarà disponibile anche in italiano.

Fine 2015. Il sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, è sotto il fuoco della critica. È accusato in particolare di una gestione troppo “aggressiva” dei servizi di polizia nei confronti degli afroamericani, in particolare dopo la morte nell’ottobre 2014 di Laquan McDonald, diciassettenne, ucciso in mezzo alla strada con sedici proiettili da un agente di polizia. Nello stesso anno, diciannove persone furono uccise dalla polizia di Chicago. Ma è soprattutto la morte di Quintonio LeGrier (19) e Bettie Jones (55) che accese la rivolta. La storia è tristemente banale: è lanciato un appello per un “disturbo di quartiere”; si tratta infatti di una disputa familiare che coinvolge Quintonio, che soffre di problemi di salute mentale e tiene in mano una mazza da baseball davanti al padre. Una pattuglia arriva a casa dei LeGrier. Il giovane viene ucciso da uno dei due poliziotti. Un proiettile vagante colpì anche la vicina del piano di sotto, Bettie, a cui il padre di Quintonio aveva chiesto di non aprire alle forze dell’ordine.[3]

Il poliziotto è stato sospeso per trenta giorni, a seguito di una riforma attuata dal nuovo capo della polizia: un omicidio è punito con trenta giorni di licenziamento. Più in generale, il sindaco di Chicago si impegna a formare meglio gli ufficiali e a raddoppiare il numero di taser. In un contesto di conflitto tra comune, polizia e manifestanti, una simile promessa di riforme a seguito di un crimine di polizia è esemplare di cosa significhi “riformare la polizia” in generale e della funzione di tali annunci: risparmiare tempo, prosciugare la diffusione delle rivolte inserendole nelle procedure giudiziarie e facendo sì che i manifestanti ritornino nelle loro case, convinti che “le cose cambieranno”.

Gli appelli per la riforma della polizia negli Stati Uniti sono diventati più forti e più frequenti. Vi si legge un effetto delle lotte del movimento Black Lives Matter (BLM) che mettono in discussione fortemente e regolarmente l’istituzione di polizia. Ma la sfida oggi sta nel portare una critica alla polizia – e per estensione al complesso industriale-carcerario – che non si traduce immediatamente in termini riformisti, cioè in un’ottica di miglioramento dell’istituzione e delle pratiche di polizia. Spesso si vedono richieste per una migliore condotta della polizia, ma raramente discorsi che affermano che bisogna porre fine alla polizia.

Sfidare le proposte di riforma per una migliore polizia è diventata un’arte in cui eccelle il movimento abolizionista (si veda anche l’articolo “Reformism Isn’t Liberation, It’s Counterinsurgency” di Dylan Rodriguez https://level.medium.com/reformism-isnt-liberation-it-s-counterinsurgency-7ea0a1ce11eb che pubblicheremo anche in Italiano sul sito dell’Osservatorio). Questo movimento riesce a formulare con chiarezza critiche alle istituzioni e proposte di lotte che non sono facilmente recuperabili nella retorica riformista.

 

Perseguire gli ufficiali di polizia?

Guardando al contesto statunitense, diversi ostacoli di solito impediscono l’azione legale contro gli agenti di polizia. In primo luogo, dal punto di vista giuridico, i poteri di polizia non spettano direttamente allo Stato federale, ma principalmente agli Stati locali, che a loro volta delegano funzioni organizzative e di comando a contee e comuni. Se il ministero della giustizia viene coinvolto nei casi di “violazioni ripetute” dei diritti costituzionali dei cittadini, un’eventuale sentenza si risolve solo al ribasso in un affare tra il ministero e uno specifico dipartimento di polizia. Non c’è molta speranza di andare oltre. E questo non riguarda in alcun modo i tanti altri servizi di polizia del Paese.

In secondo luogo, dalla fine degli anni ’60, i sindacati di polizia sono diventati estremamente potenti, negli Stati Uniti come altrove (vedi fra altri articoli di Alex Vitale: http://www.osservatoriorepressione.info/cosa-ci-insegnano-le-rivendicazioni-del-movimento-antirazzista-negli-stati-uniti/http://www.osservatoriorepressione.info/definanziare-la-polizia/;  http://www.osservatoriorepressione.info/alle-radici-dellaumento-della-brutalita-razzista-delle-polizie/http://www.osservatoriorepressione.info/perche-esiste-la-polizia/;  e il libro Polizie, sicurezza e insicurezze, 2021).

In un contesto di sommosse urbane e contestazione politica, questi sindacati di polizia si sono eretti come baluardo di una società assediata da proteggere. Con un gran numero di iscritti al sindacato, si sono assicurati accordi collettivi che rendono molto difficili le azioni disciplinari nei loro confronti, come i licenziamenti per comportamenti razzisti e violenti (lo stesso avviene anche in Francia e in Italia). Queste convenzioni possono essere imposte contro il diritto pubblico, rafforzando così il regime eccezionale dell’istituzione di polizia. Inoltre, i funzionari statunitensi eletti cedono regolarmente alle richieste dei sindacati di polizia; una grande maggioranza di stati ha ad esempio implementato la legge Stand Your Ground (“difendi il tuo territorio”) che autorizza l’uso della “forza ragionevole. Non appena qualcuno ritiene di essere in pericolo”. Questa legge consente a molti agenti di polizia che hanno strangolato o ucciso persone di sfuggire al processo[4]. Gli agenti di polizia coinvolti in casi di violenza o crimini di polizia possono contare sul sostegno sistematico e incrollabile dei loro colleghi e sindacati, qualunque cosa abbiano fatto[5].

Ne consegue che l’organizzazione decentralizzata delle forze di polizia, il suo sostegno da potenti sindacati, una legislazione protettiva e un incrollabile spirito di corpo mettono a freno ogni speranza di revisione.

 

“Il riformismo non è liberazione, è contro-insurrezione”

Come osserva il ricercatore e attivista Dylan Rodriguez (vedi sopra), per sessant’anni, le principali fasi delle riforme della polizia contemporanea hanno risposto sistematicamente alle rivolte urbane contro la polizia[6]. Sia dopo i disordini di Watts nel 1965, quelli di Detroit nel 1967, sia più recentemente dopo quelli di Los Angeles nel 1992; ogni episodio di rivolta ha dato origine a commissioni governative che riunivano politici, capi di polizia, attivisti dei diritti civili e universitari al lavoro sulla riforma della polizia[7]. I riformisti che vogliono frenare la rabbia contro le forze dell’ordine scommettono in particolare sul modello della polizia di prossimità, che corrisponde alla “polizia di comunità” in Francia. Dagli anni ’60 negli Stati Uniti, le città istituirono brigate pedonali e a cavallo. Stanno emergendo piccole stazioni di polizia di quartiere, nonché una politica di quote di reclutamento per agenti di polizia non bianchi. La polizia dovrebbe discutere, stabilire contatti con i commercianti, organizzare attività sportive per i giovani. Devono favorire partnership con associazioni locali, con residenti conosciuti e riconosciuti nelle loro comunità. La polizia di comunità prevede anche lo svolgimento di incontri periodici tra agenti di polizia e residenti (spesso i più anziani e i proprietari di casa) per far emergere i problemi del vicinato (pulizia del marciapiede, punto d’incontro, presenza di prostitute, giovani in giro …[8]. Questo pacchetto di misure mira a convalidare una partnership con coloro che nella comunità hanno interesse alla presenza dei poliziotti. Tuttavia, non si può dire che la polizia di comunità sia molto radicata nelle forze di polizia americane, anche se il ritorno dei Democratici alla Casa Bianca potrebbe dare adito a tentativi di aggiornarlo. Questo metodo di lavoro, anche se incoraggiato dai fondi federali, fa fatica a prendere piede poiché la maggior parte dei poliziotti non ne vuole sentire parlare. Inoltre, questo approccio si basa sull’esistenza di comunità strutturate come minimo attorno ad organizzazioni con interlocutori del mondo associativo o religioso. Senza questo, non c’è possibilità di stabilire le partnership essenziali tra la polizia e le popolazioni. Nei quartieri dove molte persone diffidano della polizia e sono riluttanti a collaborare con loro, approcci in questi termini non sembrano avere molto futuro. Negli anni ’90, l’accento era posto sulla responsabilità della polizia. I poliziotti devono essere trasparenti, affinché i cittadini possano indicare la loro responsabilità. A quel tempo, i comitati di sorveglianza dei cittadini si moltiplicarono nelle grandi città[9]. L’idea del controllo della polizia di comunità che era emersa dalle lotte degli anni ’70 sta assumendo una nuova forma. Oggi, guidata dal municipio, essa ripristinerebbe la fiducia nelle forze dell’ordine, grazie a una maggiore trasparenza. Di fronte a questi argomenti, gli abolizionisti sostengono che la polizia non può essere separata dalle sue funzioni storiche semplicemente con una “buona” supervisione. D’altra parte, la violenza della polizia vista come disfunzioni individuali mina la capacità di affrontare il sistema nel suo insieme. Puntare su un organo di vigilanza della polizia significa investire sulla possibilità della sua riforma, e quindi della sua legittimazione. Insomma, un vicolo cieco.

 

Non sono mele che marciscono, è l’albero delle mele

I numerosi tentativi di riforma sembrano tutti più incapaci degli altri di porre fine alle vessazioni, alle violenze e agli omicidi della polizia. La documentazione, la formazione o la supervisione non proteggono da perquisizioni, intimidazioni, percosse e morte. L’esempio dell’agente di polizia Derek Chauvin è illuminante: era già stato oggetto di diciotto denunce interne al dipartimento di polizia di Minneapolis, era stato obbligato a seguire un corso di formazione sul pregiudizio razziale, un’altra sulla de-escalation durante gli interventi con persone in crisi e i pedoni con telecamera, ma tutto ciò non gli ha impedito di tenere George Floyd sotto il ginocchio per quasi nove minuti. La polizia non deve necessariamente agire di nascosto per brutalizzare la popolazione, sapendo benissimo che le sue azioni saranno coperte, relativizzate e messe a tacere dai responsabili e dalla magistratura. Un maggior grado di trasparenza e vicinanza all’istituzione non ferma la violenza.

La questione per gli abolizionisti non è mai stata quella di denunciare le “pecore nere” o le “mele marce” all’interno delle forze di polizia generalmente considerate buone e competenti. E neppure immaginare una forza di polizia più rispettosa della legge che ucciderebbe meno cittadini di “seconda classe”. Perché la ragione di questa istituzione è difendere e accentuare i rapporti di dominio, come dimostra il legame storico tra la creazione della polizia, l’inizio della schiavitù e la nascita del capitalismo. Le riforme cambieranno solo i mezzi per raggiungere questa missione, ma non cambieranno i loro obiettivi. Gli attivisti antischiavitù avevano lo stesso tipo di certezze: condannavano il sistema schiavistico nel suo insieme e lottavano per la sua completa eradicazione, senza chiedersi se la distribuzione di manuali di buone maniere ai “padroni” avrebbe permesso l’invenzione di un sistema. …

 

Rafforzare la polizia o abolirla passo dopo passo?

Le riforme della polizia vengono analizzate anche da una prospettiva abolizionista attraverso ciò che producono in termini positivi per la polizia, non solo come operazioni cosmetiche in definitiva non necessarie. La riforma è un alleato diretto delle forze dell’ordine estendendo il loro potere e aumentando il loro budget con il pretesto di modificarne la professionalità. Legittima le istituzioni di contrasto aggiornando il possibile obiettivo di un corretto funzionamento e mira a perpetuare e migliorare il sistema repressivo. Il collettivo Critical Resistance ha pubblicato un documento in seguito alle rivolte di Ferguson nel 2014 intitolato “Rafforzare la polizia o abolirla passo dopo passo?”[10]. Prendendo la forma di una tabella a partita doppia, ogni riforma viene esaminata dal punto di vista della seguente domanda: questa misura ridurrà la presa che la polizia ha sulla nostra vita? Tutte le leggi immaginate dai legislatori vanno nella direzione opposta. Ad esempio, una migliore formazione della polizia, sbandierata dalla sinistra su entrambe le sponde dell’Atlantico, ha l’effetto di aumentare il budget dell’istituzione. Si basa sulla bizzarra convinzione che la polizia possa autolimitarsi lasciando da parte consapevolmente i vincoli sistemici che la incoraggiano a usare le armi. Soprattutto, moltiplica le possibilità di intervento per gli sbirri. Quindi, se una stazione di polizia offre ai suoi agenti una formazione per gestire meglio le persone in crisi psichiatrica, avranno ulteriore legittimità per intervenire in tali casi e questo di fatto amplia il loro campo d’azione[11]. Questo tipo di riforma tende in realtà ad aggiungere corde all’arco repressivo.

Abolizione significa costruire un ampio movimento politico che lotta testa a testa contro il sistema penale. Questa lotta include varie riforme strappate al potere, che avvicinano a un mondo senza polizia: la seconda parte del lavoro di Critical Resistance presenta riforme chiamate “non riformiste”, cioè “abolizioniste”. Molti abolizionisti difendono questo tipo di provvedimento che Thomas Mathiesen[12], uno degli attivisti e pensatori del movimento abolizionista sin dagli anni ’70, dal canto suo ha chiamato “riforme negative”.

È infatti impossibile fare un elenco di riforme “buone” o “cattive” assolute. Dipende dal contesto, quello che sarebbe un passo indietro da qualche parte potrebbe essere audace altrove. Gli abolizionisti ci ricordano regolarmente che si tratta di una questione di strategia. Tuttavia, l’importanza di affermare l’obiettivo finale rimane: sconfiggere la polizia.

Ecco alcune domande che possono aiutare a fare un passo indietro rispetto alla pertinenza di una campagna e valutare se rafforza o meno le attività di polizia:

– Questa riforma riduce il finanziamento delle polizie?

– Sta riducendo la sua scala, i suoi strumenti, le sue tecnologie, la sua portata?

– Separa la polizia dalle idee di “sicurezza” e “protezione”?

– Diminuisce la legittimità delle forze di polizia? (spesso intesa come autorizzazione alla piena discrezionalità che diventa libero arbitrio?)

Chiaramente, si tratta di evitare riforme che aiutino le forze di polizia a superare le crisi di delegittimazione, ristrutturarsi e mantenere il potere. Spesso esse prendono di mira coloro che le screditano, riducono il loro budget, il loro armamento, le loro tutele legali, il loro morale, il loro sostegno politico … Si sovrappongono a cose molto diverse: organizzarsi a livello locale per mandare via gli agenti di polizia da un liceo, ottenere il rilascio di un detenuto, ridurre drasticamente il numero degli agenti di polizia in una città, limitare il pagamento degli straordinari o addirittura sospendere lo stipendio di un ufficiale se è in corso un’indagine a suo carico, far pagare dalla loro tasche ai poliziotti le responsabilità professionali per i loro abusi, violenze ecc. …

Così tante piccole parti del potere della polizia possono essere soppresse da subito.

 

La presentazione del libro

Minneapolis, maggio 2020. George Floyd, afroamericano di 46 anni, muore per soffocamento da parte della polizia. Un’ondata di proteste, senza precedenti dagli anni ’60, attanaglia allora il paese. Manifestazioni, mobilitazioni sui social network, saccheggi: l’unicità di questo movimento sta tanto nella sua portata quanto nella radicalità delle sue proposte. Non si tratta più di denunciare gli abusi dell’istituto di polizia, ma di mettere in discussione la sua stessa esistenza.

Defund (definziare) e Abolire la polizia, smantellare la polizia e il suo finanziamento, sono slogan che, in Francia (e in Europa) possono sembrare abbastanza astratti. Eppure fanno parte della storia della lotta dei neri contro la schiavitù e l’incarcerazione di massa. Sono anche incarnate in esperienze di giustizia trasformativa, solidarietà comunitaria, autodifesa e lotta femminista.

Traducendo diversi testi scritti negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni, questa raccolta mira tanto a documentare e a trasmettere questo nuovo abolizionismo: vivere senza la polizia.

 

Collectif Matsuda

pubblicato su lundimatin#305 – https://lundi.am/Abolir-la-police

traduzione e nota introduttiva a cura di Turi Palidda

Indice:

Introduzione; I. La rivolta di George Floyd; II. Dalla schiavitù al potere nero; III. Polizia: riforma impossibile; IV. Il movimento abolizionista oggi; V. Femminismo e abolizionismo; Conclusione; pubblicato il 10 settembre 2021, 336 pagine, ISBN: 979-10-96195-14-5, 14 euro: https://achat-livre-abolir.vercel.app

note:

[1] A questa svolta editoriale aggiungere Siamo in guerra – Terrore di Stato e militarizzazione della polizia di Pierre Douillard-Lefèvre e Defaire the Police con Serge Quadruppani, Elsa Dorlin, Irené, Jérôme Baschet, due libri di cui non mancheremo di parlare molto presto.

[2] Vi invitiamo inoltre a visitare il sito web allegato, www.abolirlapolice.org, che dovrebbe essere regolarmente aggiornato per alimentare il dibattito sull’abolizionismo offensivo e trasformativo.

Il libro, disponibile in molte librerie, può essere ordinato anche direttamente sul sito.

[3] La storia non finisce qui, l’agente di polizia omicida rivendica dieci milioni di dollari dalla famiglia LeGrier per “trauma emotivo estremo”.

[4] Su questo argomento, in Francia, si veda il libro di Vanessa Codaccioni, La legittima difesa. Omicidi sicuri, crimini razzisti e violenza della polizia, Parigi, CNRS, 2018.

[5] Una delle uniche eccezioni è Derek Chauvin che è stato licenziato dal consiglio comunale (il suo ex datore di lavoro), dai suoi colleghi e dai sindacati di polizia di Minneapolis. Il suo unico sostenitore pubblico al suo processo è il suo avvocato che continua a dire che non era responsabile dell’omicidio di George Floyd.

[6] “Il pensiero magico del riformismo. Il riformismo non è liberazione. È controinsurrezione”, Rodiguez Dylan in Abolition for the people, online, 2020, Level Media: https://level.medium.com/reformism-isnt-liberation-it-s-counterinsurgency-7ea0a1ce11eb

[7] La rivolta per George Floyd non ha fatto eccezione. I parlamentari hanno successivamente proposto due leggi di riforma della polizia che alla fine sono state respinte dal Senato. Anche la città di New York ha lavorato a misure per le sue forze di polizia nell’autunno del 2020. Sono ben analizzate nel testo Storie di polizia su www.illwilledition.com. In Francia, ci ricorda il Beauvau della sicurezza, annunciato dopo il pubblicizzato pestaggio di Michel Zecler, produttore di musica nera nel novembre 2020, e che porta a… nuove conquiste sociali per la polizia (trasporto pubblico gratuito, sussidi per le mutue di polizia …).

[8] Alcune città arrivano addirittura a spacciare i poliziotti per agenti della lotta contro le disuguaglianze. Ruth Wilson Gilmore racconta, ad esempio, che la polizia di Los Angeles, dopo i disordini del 1992, formò squadre per raccogliere denunce nei quartieri poveri e distribuire bicchieri o buoni. Vedi Ruth Wilson e Craig Gilmore, “Beyond Bratton”, in Policing the Planet, a cura di Jordan Camp e Christina Heatherton, Verso, 2016, pp 145-164.

[9] Questi gruppi di sorveglianza della polizia cittadina si sono incontrati nel 1995 nell’Associazione nazionale per il controllo civile delle forze dell’ordine (NACOLE).

[10] Vedi la tabella tradotta dalla rivista Jef Klak nell’articolo Cosa fare con la polizia? Le funzioni dell’ordine sociale in questione, disponibili sul loro sito web.

[11] Sapendo che più di un quarto degli omicidi della polizia negli Stati Uniti coinvolge qualcuno con problemi di salute mentale.

[12] Thomas Mathiesen è stato un sociologo abolizionista norvegese, autore tra gli altri di The Politics of Abolition, London: Martin Robertson, 1974. In italiano si veda il suo libro: Perché il carcere: http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/perche_il_carcere.pdf

 

da qui

 

 

Disfare la polizia – di Serge Quadruppani e Jérôme Floch

Introduzione del libro Défaire la police, Éditions Divergences, Parigi

Dopo i fatti di Genova 2001, le brutalità poliziesche sono diventate abituali: i dominanti non tollerano la protesta contro le loro scelte e vogliono schiacciare tutti i soggetti sociali che non vi si adattano passivamente. Il testo è stato pubblicato da lundimatin#306il 27 settembre 2021. In questo lavoro ricercatori, scrittori, filosofi e storici propongono di pensare la polizia: da dove viene? A cosa serve? A chi serve? E come sbarazzarsene? Pubblichiamo qui un estratto di Serge Quadruppani e Jérôme Floch che introduce il libro e cerca di gettare le basi per una critica serena e ragionevole delle forze dell’ordine e del mondo che difendono. Le note a questo testo – tutte del traduttore – sono necessarie per il lettore italiano che non conosce le vicende a cui vi si allude in diversi passaggi

Traduzione di Turi Palidda

 

Perché gli sbirri sono tutti dei bastardi?

Da Hong Kong a Buenos Aires, dagli stadi egiziani alle manifestazioni francesi, sontuosamente disegnate sui muri di Santiago come sui vagoni dei treni britannici, negli stampini a Tunisi o nei pennarelli in una toilette del 9-3[1], rigonfie a Minneapolis e visibili perfino in un attraversamento pedonale torinese sapientemente trasformato per sillabare le lettere: indubbiamente lo slogan che supera di gran lunga in popolarità e universalità ogni espressione d’amore per la patria, qualsiasi slogan pubblicitario, è colui che proclama che tutti i poliziotti sono bastardi. L’hashtag #ACAB accompagna oltre 2,2 milioni di post sul social network Instagram.

Per capire le ragioni di questa popolarità, forse sarebbe necessario soffermarsi su una questione di traduzione. A rigor di termini, All Cops Are Bastards dovrebbe dirsi “Tutti gli sbirri sono dei figli di p.” (o meglio delle canaglie o anche “fango dell’umanità”, secondo il dizionario Larousse “uomo disprezzable, che agisce in modo sleale”). Si sa che nel francese popolare contemporaneo, come nell’italiano o nell’inglese, “bastardo” non significa in primo luogo che l’individuo così qualificato sarebbe figlio di un’unione illegittima (qualunque sia la legittimità invocata), ma un bastardo, che merita solo disprezzo e odio. Ma per cogliere le ragioni dell’incomparabile popolarità di questo slogan, il rigore del traduttore può essere miope. Senza dubbio dobbiamo scavare nelle profondità semantiche del termine “bastardo”. Se ha avuto sin dall’inizio una connotazione negativa, è perché, nelle società patriarcali premoderne, una nascita al di fuori di un’unione ufficiale ha introdotto, nei confronti della prole, una perturbazione su un elemento fondamentale del mondo tradizionale: l’appartenenza. Il bambino non apparteneva interamente al mondo (famiglia, clan, classe, casta) del padre né a quello della madre. Per quanto riguarda la polizia, è quindi il loro carattere torbido che dobbiamo mettere in discussione. Se tutti i poliziotti sono bastardi, non è perché sono tutti bastardi: sì, lo sono – tranne quando infrangono la loro funzione. Ma non sono solo questo.

“Tutti i poliziotti sono bastardi”: quelle e quelli che sono indignati per quello che percepiscono come odio oltraggioso semplicemente non lo capiscono. La canzone la conosciamo: certo, ci sono pecore nere, ma la generalizzazione a tutti i poliziotti delle colpe di pochi è una stravaganza ideologica. Contro questa idea corrente e rimaneggiata, notiamo al contrario che l’affermazione ACAB trae la sua forza dalla sua accuratezza e precisione. Tutti i poliziotti sono bastardi, questo è un dato di fatto, e la verità dello slogan deriva proprio dall’affermazione del bastardo. È un dato di fatto che, in virtù delle loro origini, la grande massa dei poliziotti appartiene agli strati popolari. Un altro, altrettanto indiscutibile, è che, dietro il loro ruolo ufficiale di difesa della popolazione, negano la loro appartenenza popolare difendendo l’ordine del mondo, l’economia, la borghesia, il dominante (libero a ciascuno, secondo le sue scelte teoriche, di qualificare le forze che quotidianamente ci travolgono). Tutti i poliziotti sono bastardi perché la loro funzione in sé si basa su questa ambiguità, questa ipocrisia: la loro legittimità dovrebbe essere popolare anche se servono il potere. Questa prova non è più discutibile in Francia, la terra della torta alla crema repubblicana, né a Tunisi, Madrid o San Paolo.

 

A cosa serve la polizia?

Il campo delle attività delle forze di polizia è particolarmente vasto e diversificato. Segnalano veicoli mal parcheggiati o fermano i ladri, giocano a fare i cowboy con proiettili di difesa e fanno la guerra alla droga, una minoranza più accorta risolve omicidi o controlla gli oppositori mentre altri respingono i migranti al confine, terrorizzano i manifestanti, proteggono l’Eliseo (il palazzo del presidente della Repubblica) o accorciano i free party. Sono usate per qualsiasi cosa, e questo è certamente il motivo per cui la Francia ne impiega più di 250.000.

Ma in fondo a cosa serve tutta questa polizia? A che servono tutta questa meticolosa quadratura del territorio, tutta questa sorveglianza dei comportamenti, tutta questa brutalità istituzionalizzata? Ciò che la polizia difende con tutti i mezzi a sua disposizione non è l’ordine e la società, è un certo ordine e la sua società. Su cosa si esercita il suo ricatto di paura e sicurezza, non è la libertà umana che si tratterebbe di regolamentare, sono gli individui soli, diseredati e quindi deboli prodotti dal mondo dell’economia. Ciò che la sua violenza controlla e reprime sono corpi e spiriti vivi e quindi insoddisfatti. La polizia non è solo il braccio armato dello stato e del governo, è la garanzia che ognuno rimanga al posto che gli spetta.

Siamo magnanimi. Se possiamo dire che tutti i poliziotti sono semanticamente bastardi, possiamo anche immaginare che alcuni non siano bastardi, prepotenti o addirittura abbrutiti. La polizia stessa deve avere i suoi outsider, la squadra finanziaria, la tutela dei minori e perché no l’IGPN (il reparto addetto agli atti illeciti dei poliziotti). Sì, la polizia è disprezzata, ma, non si obietta con la stessa regolarità che svolge anche compiti utili? Può capitare di gioire quando mette la mano sul collo di Balkany o intercetta Sarkozy, quando perquisisce gli uffici del ministro della Giustizia o si appropria di sms che dimostrano che in passato il ministro dell’Interno ha abusato dei suoi poteri per ottenere favori sessuali. Ma, anche quando queste inchieste non finiscono allo sfascio come nell’ultimo caso citato, questa furtiva soddisfazione è presto turbata dall’evidenza che questi regolamenti di conti all’interno delle classi dominanti, questo conflitto tra istituzioni dominanti non mette affatto in causa il dominio e i poteri costituiti ma al contrario ne attestano la vitalità: se questi casi possono avere conseguenze spiacevoli per alcune persone in realtà detestabili, stabiliscono anche la legittimità di istituzioni che lo sono ancor di più, dimostrando di essere capaci di correggere le loro disfunzioni.

E quando la polizia impedisce un serial killer (jihadista o maniaco o entrambi) dall’uccidere ancora, uno stupratore o un pedofilo dal continuare a reprimere, forse non ci lamentiamo, ma anche qui il nostro sollievo non può che essere di breve durata poiché la risposta penale e la repressione da sole non impediranno mai alcuno stupro e non arretreranno in alcun modo la cultura che li produce, mentre la geopolitica globale e il razzismo di stato (per cui la polizia lavora) non hanno finito di creare psicopatici sociali pronti a scongiurare la loro pulsione di morte di orpelli religiosi. La polizia non fa nulla per combattere l’insicurezza sistemica poiché ne è una parte essenziale.

C’è qualcosa di molto sorprendente nella situazione in cui stiamo vivendo in questo momento. La polizia non è mai stata così centrale nel dibattito pubblico. Ad ogni manifestazione, i social network divampano in reazione ai video ormai sistematici della brutalità della polizia: infermieri molestati, i loro occhi accecati, folle soffocate dal gas, percosse con i manganelli. A Redon, per impedire a qualche centinaio di giovani di commemorare la morte di Steve Maia Caniço, il prefetto invia, tra gli altri, il GIGN[2]. Immediatamente, le immagini dei gendarmi incappucciati che picchiavano sul materiale musicale sono diventate virali. A Saint-Denis, qualche giorno prima, c’erano le immagini di una madre che urlava perché non riusciva più a trovare il figlio di due anni. Veniva da un funerale che la polizia ha ritenuto opportuno affogare nei gas lacrimogeni. Ad aprile, 8 giovani accusati di aver dato fuoco ad agenti di polizia a Viry-Châtillon nel 2016 sono stati finalmente assolti: gli inquirenti avevano falsificato i verbali delle udienze. Al momento in cui scriviamo, Bagui, fratello di Adama Traoré, morto per mano della gendarmeria a Persan, è stato appena assolto dopo 5 anni di reclusione. I tribunali hanno dovuto ammettere che non aveva partecipato ai disordini seguiti all’assassinio di suo fratello. Con i molteplici e ricorrenti scandali di corruzione, in tutti i commissariati di polizia, e in grandi quantità, come nel caso del BAC di Marsiglia che ha assalito gli spacciatori, o su scala difficilmente immaginabile, con l’organizzazione, da parte degli Stups (antidroga), del narcotraffico mondiale in collaborazione con i maggiori spacciatori internazionali. Con tutti questi racconti in continua evoluzione, la leggenda d’oro della polizia che macina la TV per i vecchi retrocede costantemente a favore di una storia di corruzione e violenza degna delle serie americane più calde. Mentre il nome “guardiani della pace” è caduto in disuso, e nonostante il martellamento negazionista di Macron e del suo seguito, la nozione di “violenza di polizia” s’è ora installata nel linguaggio dei media, introducendo l’idea che la violenza è costitutiva dell’esercizio della professione dell’operatore di polizia. Gli stessi media più inclini a sostenere l’ordine delle cose sono costretti a prestare attenzione agli abusi polizieschi. Ma nonostante tutto, non tutti detestano ancora la polizia, come i manifestanti costantemente cantano dopo il movimento del 2016 contro la legge El-Khomry (la parola d’ordine più ripetuta in tutte le manifestazioni è Tout le monde déteste la police). Anche se l’odio diffuso si sta diffondendo, solo molto raramente è accompagnato da una comprensione strutturale e sistemica di cosa sono le forze dell’ordine, cosa rappresentano e a cosa servono, anche quando non lo sono. Naturalmente, il primo fattore della radicalizzazione “anti-sbirro”, come dicono i suoi sostenitori, è la polizia stessa: cosa sarebbe stato del movimento dei gilet gialli senza lo shock della brutalità della polizia? -, ma la semplice critica agli eccessi, agli oltraggi e alle famose bavures (illeciti) di un corpo di polizia altrimenti troppo concentrato sul voto RN (il partito di Le Pen), ci lascia in mezzo al ponte.

Nelle società statali in genere e, in Occidente, fino alla fine dell’età classica, era chiaro e comunemente accettato che gli uomini d’arma fossero lì per primi per fare regnare la legge del più forte, cioè del signore e del sovrano. Con le rivoluzioni democratiche borghesi cominciò a prevalere l’idea che “la legge è uguale per tutti”, principio tanto più affermato nei testi (e in Italia nelle aule giudiziarie) quasi sempre di fatto negato. Certamente, dal bobby disarmato ben integrato nel paesaggio britannico allo sbirro davanti al quale tutta la strada tace nel sud Italia, era diffusa tutta una serie di atteggiamenti, secondo l’etica religiosa di cui era intrisa la società, il senso civico protestante o cattolico al quale lo Stato democratico sarà per sempre estraneo. Insomma, il poliziotto era più o meno rispettato a seconda di quanto la società fosse vicina allo stato. Ma anche dopo le rivoluzioni borghesi, qualunque siano le variazioni geografiche, da nord a sud, la divisione di classe è rimasta determinante, e la piccola borghesia inglese può benissimo amare la sua polizia, i Cockney spontaneamente l’hanno odiata. Infatti, finché la classe operaia è stata una classe pericolosa, una certezza è rimasta saldamente ancorata negli strati popolari: lo sbirro è la prima fila del nemico sul fronte della lotta di classe.

Questa sana convinzione ha cominciato a indebolirsi quando gli eredi della socialdemocrazia e dello stalinismo si sono tuffati nella ricerca della rispettabilità democratica, mentre progrediva la frammentazione della classe operaia e la scomparsa della sua controcultura, per finire in questo discorso sull’amore della polizia democratica forza che è ormai quella di tutte le democrazie occidentali. Nell’ideologia largamente dominante, l’odio per la polizia sarebbe ora riservato agli antisociali e agli psicopatici. Torna però una certa lucidità. A cosa serve un controllore nel metrò? Non per far muovere i treni, ma per fare in modo che i più poveri non possano muoversi. A che servono le migliaia di giovani che ogni anno finiscono in prigione per aver fatto un po’ di soldi vendendo hashish? Non per mantenere lo stile di vita sano del cittadino medio, ma per imporre continue pressioni disciplinari nei quartieri più poveri e per ricordare ai recalcitranti che, per guadagnarsi da vivere, bisogna essere sfruttati in una fabbrica, da un’agenzia interinale o da un’app Uber. E le migliaia di cadaveri che riempiono le acque del Mediterraneo con un’indifferenza quasi generale, a cosa servono? Per dissuadere i successivi ricordando loro il prezzo da pagare per entrare nel nostro piccolo inferno occidentale[3]. In prima e ultima istanza, la polizia non difende il debole, né la vedova, né l’orfano, né la donna maltrattata. La polizia difende brutalmente il mondo dell’economia e la sua conditio sine qua non: l’accaparramento da parte di alcuni del territorio e degli sforzi di tutti. La presa del territorio da parte di pochi e l’impegno di tutti. La necessità della polizia è una bufala, la sua esistenza un’usurpazione.

 

Perché la polizia?

La storia della polizia in Francia, sua città natale, è abbastanza semplice: in primo luogo, è la storia dello Stato. Per produrre e garantire la sua sovranità, s’è cominciato prima a trovare gente per riscuotere le tasse, poi persone armate per impedire la rivolta dei poveri, assicurare il flusso delle merci e garantire la protezione dei ricchi – e della loro ricchezza. Né uno né due, il concetto di Stato e la sua attuazione pratica, la polizia, hanno fatto il loro fragoroso ingresso sulla scena della storia. L’idea che una piccola parte della gente dovrebbe essere usata per mantenere la schiavitù degli altri con la violenza è abbastanza recente. Così, l’istituzione di polizia può ben presentarsi come naturale, senza tempo e insuperabile: è solo parassitaria, evanescente e presa in prova.

Quello che dobbiamo capire ora è ciò che interessa alla polizia. Come riesce a far fronte all’odio che suscita e alla vergogna di se stessa? La risposta è crudele. La forza della polizia, ciò che la fonda quotidianamente, ciò su cui poggia il suo potere, non sono tanto i suoi numeri, le sue uniformi e le sue armi, quanto il nostro desiderio di polizia. Se accettiamo di essere brutalizzati e infantilizzati, è prima di tutto perché ci è stato insegnato ad avere paura.

Uno dei miti più potenti che giustifica questa oltraggiosa tolleranza è che saremmo pericolosi l’uno per l’altro, che senza la paura di finire i nostri giorni in prigione, ci uccideremmo a vicenda e ogni attività sarebbe fermata. Basta guardare un programma TV per scoprirlo. Ogni giorno, ore e ore di finzioni o “reportage” ci immergono nel cuore di indagini e altre operazioni frenetiche: si spara al terrorista, si smaschera degli assassini, si sgominano i reticoli della prostituzione. Non importa quanto piccola sia la quantità di lavoro della polizia che rappresentano questi spettacoli, si diffonde l’idea che la polizia ci sta proteggendo dagli altri. Non importa se il vero lavoro quotidiano della polizia è regolare il traffico di droga, ottimizzare i viaggi in macchina di lavoratori e villeggianti, inseguire la plebe che devia, dirimere le liti tra vicini e picchiare i manifestanti.

Povertà, violenza sessuale, rumori notturni, consumo di droghe, prostituzione, furti, epidemie, guida in stato di ebbrezza … Tutti questi comportamenti che la polizia pretende di regolare e reprimere quotidianamente, è anche l’ultima a poterne trovare una soluzione.

L’immagine che il poliziotto ha di sé e alla quale si attiene è un miraggio. Corre come un criceto nella sua ruota alla velocità richiesta dalla politica dei numeri[4], sapendo che non avrà assolutamente alcun effetto sulle cause di ciò che sostiene di combattere. Il poliziotto non combatte contro la delinquenza, fa la guerra ai poveri e mantiene la povertà.

 

Ma chi è la polizia?

Dati statistici e studi sociologici consentono di conoscere il profilo tipico dell’operatore di polizia in servizio. È prevalentemente bianco, maschio e di origine popolare. L’80% proviene da aree rurali o piccoli e medi comuni di provincia e oltre il 60% aderisce a idee di estrema destra. Automaticamente c’è una minoranza di persone e donne razzializzate, figli di cittadini benestanti e persino un sindacalista SUD (simile ai sindacati autonomi). Questo è tutto il problema della sociologia: al di là dell’osservazione oggettiva, fatica a illuminarci.

Quello che sappiamo anche è che gli operatori vanno molto male, si sentono disprezzati dai passanti tanto quanto dai loro superiori, che le loro condizioni di lavoro sono abominevoli e il loro salario umiliante. Secondo un recente sondaggio condotto dalla Mutuelle Générale de la Police, il 24% di loro afferma di avere pensieri suicidi, 6,7 volte più degli altri lavoratori (Le Monde, 06/07/2021). La polizia sarebbe quindi la prima a voler porre fine alla polizia.

Come possiamo spiegare una tale propensione per la morte? Gli istituti di sanità pubblica ovviamente propongono le loro piccole spiegazioni: la cattiva atmosfera, l’aria condizionata dell’auto serigrafata che non funziona più, le ore di straordinario mai pagate, ecc. Ma dobbiamo affrontare i fatti, queste cattive condizioni di lavoro sono presenti in quasi tutti i mestieri, non possono quindi apparire fattori sufficienti. Bisogna poi avanzare un’altra ipotesi per cercare di capire come il poliziotto possa odiarsi così tanto.

Se, come abbiamo accennato nell’introduzione, la diffusione mondiale dello slogan “tutti i poliziotti sono bastardi” è dovuta alla sua efficacia nel mostrare l’ipocrisia della funzione dell’ufficiale di polizia – che pretende di difendere il popolo, di emanare da esso, mentre serve essenzialmente solo a difendere l’economia, lo Stato e i relativi interessi – come non immaginare che tutto ciò non passi attraverso la polizia stessa? È perché la sua esistenza è insostenibile che è disprezzato e spregevole, e lo sa. La sua unica attività sociale è mimetizzarsi nell’uniforme. Pertanto, deve raccontare storie per immaginare di essere qualcosa di diverso da questo relitto.

Il poliziotto non è né un guerriero né un mafioso: il beneficio della violenza che prodiga quotidianamente non gli torna mai, è gratuito. Se molesta, estorce o brutalizza, non è mai a proprio vantaggio, è perché gli viene ordinato di farlo. I misfatti che deve compiere quotidianamente non rispondono alla propria etica ma a idee vuote, lontane e astratte: violenza legittima, sicurezza, pace civile, ordine delle cose… Egli può ben servirsi della sua libera volontà, per scegliere le sue vittime secondo i suoi gusti personali, per rivolgersi o familiarizzare con coloro che controlla, ma ciò che la sua uniforme copre è la sua irresponsabilità fondamentale. L’unica grandezza che gli è accessibile è quella di obbedire agli ordini, la sua unica libertà è incarnare su scala microscopica e derisoria la ragion di Stato[5].

“Ma dietro l’uniforme c’è un essere umano!” No, quello che c’è è un soggetto irresponsabile delle sue azioni, un burattino immorale, un artista dal cuore freddo. Ciò che rende così odiosa la vita del poliziotto è la banalità e la vacuità di tale male.

 

Violenza legittima e brutalità della polizia

Mentre la polizia diventa sempre più a suo agio nell’arena pubblica e dei media, sentiamo ciò che rimane dell’indignazione “di sinistra” per l’emergere di uno stato di polizia. Se non c’è un essere umano dietro l’uniforme, non c’è nemmeno una nobile istituzione statale dietro l’iniquo stato di polizia. Se è consuetudine definire lo Stato come l’istituzione che detiene il monopolio della violenza pubblica legittima, significa che a carico di questa violenza ci sono la polizia e l’esercito. Da quel momento in poi, ogni stato è fondamentalmente una forza di polizia. L’unico margine che gli rimane è riuscire a mascherare, più o meno efficacemente, la violenza che l’ha sempre costituito, dando vita alle finzioni democratiche che conosciamo. Man mano che queste finzioni si disfano o perdono credibilità, l’apparato repressivo si svela.

Se in tutto questo testo abbiamo spesso preferito parlare di brutalità poliziesca piuttosto che di violenza, non è stato per sostituire una parola con un’altra. Nel 1977, Jean Genêt scrisse una bellissima prefazione ai “Testi dei prigionieri della Frazione dell’Armata Rossa”, in cui si proponeva di distinguere violenza e brutalità: “Se pensiamo a qualsiasi fenomeno vitale, anche secondo il suo significato più stretto che è: biologico, capiamo che violenza e vita sono praticamente sinonimi. Il chicco di grano che germoglia e spacca la terra gelata, il becco del pulcino che rompe il guscio dell’uovo, la fecondazione di una donna, la nascita di un bambino sono accuse di violenza. E nessuno incolpa il bambino, la donna, il pulcino, il germoglio, il chicco di grano. “Al contrario, la brutalità è “il gesto teatrale o la gestualità che pone fine alla libertà, e ciò per nessun altro motivo che il desiderio di negare o interrompere un libero compimento. Il gesto brutale è il gesto che spezza un atto libero”.

Da una parte, quindi, la violenza vitale e spontanea, quella dei manifestanti che invadono le strade e i palazzi, le vetrine delle merci che si rompono, i corpi liberi che si scontrano con gli scudi del potere. E dall’altra la brutalità organizzata che assume «le forme più inaspettate, non immediatamente rilevabili come brutalità: l’architettura delle case popolari, la burocrazia, […] la priorità, nel traffico, data alla velocità sulla lentezza dei pedoni, l’autorità della macchina sull’uomo che la serve, la codificazione delle leggi prevalenti sulla consuetudine, […] l’uso del segreto che impedisce la conoscenza di interesse generale, l’inutilità delle schiaffi nelle stazioni di polizia, il dare del tu da parte della polizia a coloro che hanno pelle bruna, […] la marcia del passo dell’oca, il bombardamento di Haiphong, la Rolls-Royce da quaranta milioni…”

È qui che l’infinita denuncia della violenza della polizia può rivelarsi una trappola. C’è ovviamente un problema nel rendere visibile a quante più persone possibile ciò che le forze di polizia stanno cercando di coprire quotidianamente. Pensiamo subito al prezioso lavoro di censimento e verifica svolto durante lo spostamento dei gilet gialli dal giornalista David Dufresne. Tuttavia, quando guardi il suo documentario Un pays qui se tient sage, non puoi fare a meno di essere a disagio. Le immagini e le testimonianze di brutalità si susseguono, i poliziotti imbarazzati si giustificano come possono da quello che tutti abbiamo visto per strada o sugli schermi dei nostri cellulari. Ma il film è ossessionato da un’assenza. Puoi vederlo, la brutalità sfrenata, sullo schermo gigante, ma quello che non vedi mai è contro cosa è. Non i corpi gonfi o mutilati dei manifestanti, ci sono anche loro. No, quello che manca è la violenza, la rivolta, la voglia che il mondo finalmente cambi. Ciò che la polizia ha soppresso nel sangue e nei gas lacrimogeni durante il movimento dei gilet gialli non erano corpi inerti, non era una popolazione obbediente e docile, ma un popolo che si stava ribellando. Ciò che ha fatto tutta la sua potenza e l’ha allontanata anni luce dal “movimento sociale”, dai suoi cortei sfiniti con le sue febbrili pretese che nessuno si stanca nemmeno di ascoltare, è che, nelle rotonde, nei centri cittadini e sugli Champs Élysées, volevamo combattere con il potere una volta per tutte. Ciò che fonda la polizia, ciò che la rende indispensabile a qualsiasi stato, a qualsiasi governo, è il rischio di insurrezione, la potenziale violenza del popolo. Non c’è lo stato, poi la repressione poi la popolazione, c’è la gente, poi lo stato e il suo bisogno di repressione. Il potenziale dell’insurrezione è primario: la polizia la rincorre. C’è la violenza emancipatrice che crea mondi migliori e la brutalità che fa di tutto per impedire che accadano. Prima c’è la vita, poi ciò che la costringe, la reprime, la danneggia[6].

Coronapolizia

Da un giorno all’altro, con gli arresti domiciliari per metà della popolazione mondiale, l’evento Covid ha permesso questo: la forza lavoro, ad eccezione di quella dei decespugliatori ancora non sostituibili dai robot, si trova come mai prima d’ora individualizzata, isolata, fissata sul luogo chiuso della sua riproduzione, e sempre più disponibile. Riservando lo spazio esterno al capitale, alle sue macchine fotografiche e alle forze del suo ordine, abbiamo fatto apparire con accecante chiarezza l’utopia del capitalismo digitale, in via di realizzazione da diversi decenni: i suoi algoritmi che si occupano di catturare la nostra attenzione per approfittare di quasi tutti i nostri momenti di veglia, in attesa di trovare il modo di fare altrettanto con il nostro sonno, assicurando insomma in tutto automatismi e con lo stesso impeto la macchinazione dell’uomo e la riproduzione allargata del capitale. Ma mentre gli espedienti capitalistici ci prendono la testa, perché non c’è (ancora?) testa senza corpo, qualcuno deve prendersi cura della nostra carne: è qui che entra in gioco la polizia. Ecco cosa cerca di imporsi: mentre le nostre teste apparterrebbero al GAFAM (l’acronimo delle 5 maggiori multinazionali dell’IT occidentali), i nostri corpi sarebbero sempre più curati dalla medicina e dalla polizia. Abbiamo visto con quale ottusa brutalità (sebbene non priva di discriminazione di classe (cfr. il trattamento differenziato del 93 e del XVI secolo), la polizia francese e tutte le polizie del mondo prendessero parte a questo programma. Abbiamo anche visto che ciò non avveniva senza la resistenza dei corpi (né delle teste). In Francia, quando arriva l’epidemia di Covid, il legame di fiducia tra la polizia e la sua popolazione, come dicono sondaggisti e politici, è già piuttosto logoro. Ma mentre milioni di persone sono infette, e centinaia muoiono ogni giorno, mentre tutti devono rimanere chiusi in casa, e il sistema ospedaliero è vicino al collasso, che significa che mancano le mascherine, cosa sta facendo la polizia? O meglio, per cosa decide il governo di utilizzare le sue centinaia di migliaia di scagnozzi? Perché il governo Macron ha perso l’occasione per tornare a questo benedetto momento post-attacco quando “baciare un poliziotto” non era solo uno sfogo di ubriachezza, ma un desiderio condiviso, a quanto pare, da molte persone? Perché non mettere la polizia al servizio dei bisogni primari della popolazione? Sarebbe bastato chiamare due o tre tv che hanno familiarità con il giornalismo embedded per mettere in scena uno spettacolo affascinante a beneficio dell’intero paese dove la polizia sarebbe stata vista portare la spesa alle nonne. In termini di propaganda, sarebbero sicuramente valsi 200 episodi di Julie Lescaut. È stata scelta una direzione molto diversa. I poliziotti, li faremo girare per le strade per assicurarsi che nessuno esca di casa, chiederemo loro di dare la caccia a qualsiasi barbecue, di attraversare le foreste per inseguire i mountain biker, di controllare tutti i veicoli per prenderli, per assicurati che il loro movimento sia giustificato. Se la maschera viene indossata sotto il naso, un esercito di pandora è pronto per essere multato. Il contenimento sarà la realizzazione del sogno che ogni pattuglia porta con sé: dominare la città.

E siccome c’è comunque inventiva tra gli stolidi che ci governano, è arrivato il momento del certificato di viaggio. Oltre allo schieramento della polizia, spettava a tutti avere l’app. Per fare la spesa, portare a spasso il cane o passeggiare nel raggio di un chilometro e un’ora, dovevi essere preventivamente autorizzato. Chi avrebbe potuto immaginare un giorno un sistema di controllo così tautologico, infantilizzante e assurdo? Non dimentichiamo che migliaia di multe sono state distribuite agli sfortunati che si sono dimenticati di compilare l’auto-autorizzazione o hanno sbagliato la data. Questo pasticcio di minuti potrebbe essere stato deriso o diffamato, molti di noi si sono inchinati ad esso e ci si sono abituati. Per mesi abbiamo dovuto giocare a guardare noi stessi, a controllarci, a diventare, sulla scia dell’autoimprenditorialità, autocontrollo. Il resto del tempo, nella tradizione vichy ancora viva (lo stato fascista francese durante l’occupazione tedesca), ci si poteva fidare dell’istinto informatore di chi non era abbastanza autoinflitto. Queste cattive abitudini hanno permesso a Emmanuel Macron di annunciare nell’estate del 2021 che tutti i nostri viaggi in luoghi pubblici sarebbero ora subordinati alla presentazione di un lasciapassare sanitario. Oppure la comparsa di migliaia di piccoli confini invisibili che permettono di discriminare chi è in regola e chi no. Che gli autoproclamati rappresentanti della protesta contro queste nuove misure siano parassitari dall’estrema destra o da stravaganti convinti che i rettiliani vogliano inserire chip 5G nel nostro cervello, è prima di tutto una manna per il governo, che può così creare un diversivo polarizzando il conflitto tra vaccinati e non vaccinati. Ma dietro questa falsa alternativa si fa strada il potere. Compresi i gretti dirigenti che ci governano, era ovvio che manovre del genere non potevano che allargare un po’ il divario tra gran parte della popolazione e la polizia. Ma per capire perché queste pratiche prettamente repressive si siano subito imposte, è necessario comprenderle meno in termini di razionalità che di emozioni e passioni. Il primo motivo della scelta del manganello era che corrispondeva, per usare un termine bourdieusiano, all’habitus della polizia. Verso la fine del secolo scorso e l’inizio di esso, durante i periodi in cui i governanti della post-sinistra sono subentrati per garantire l’aggiornamento degli standard ultraliberali della società francese, abbiamo assistito a varie fantasie intorno alla “polizia locale”, questo folle progetto di riunire la popolazione dei quartieri a basso reddito e la polizia. Ma già nel 2002, con Sarkozy, queste ambizioni umanitarie sono state abbandonate. L’amico di Bolloré e Gheddafi (cioè Sarkozy), con la volgarità e l’arroganza che sono il suo marchio di fabbrica, si è preso la briga di ricordare che i poliziotti non sono educatori. Ritorno a un’identità secolare: si bastona per bastonare. La continuazione di questo programma, la sua applicazione moltiplicata, aveva tanto più ragione di essere fatta in quanto l’autonomia delle forze di polizia non cessava di crescere poiché i governanti dovevano fare affidamento su di essa per far fronte alle crisi – l’ultima e la più grave, quella dei gilet gialli, avendo consacrato la messa sotto controllo del ministero dell’Interno da parte dei sindacati polizieschi più reazionari. Nell’unico campo in cui sono addestrati a inventare, quello della pubblicità e della propaganda (nel loro gergo, “comunicazione”), i manager hanno comunque fatto questa scoperta: il 29 marzo, l’oggetto mediatico più spaventoso del decennio compare sui social. Booba, boss del rap esagonale da 25 anni, icona della periferia seguita da milioni di giovani su tutte le piattaforme, trasmette “Coronatime”, un video in cui invita i “giovani” a rispettare il confinamento e i gesti di barriera. Per l’occasione ha anche scelto di intervistare a lungo un ospite sorprendente: Bernard Squarcini, ex direttore della Dgsi (servizi segreti) non meno mafioso dei suoi conoscenti. Unire un ex capo della sicurezza interna e il rapper “pirata” di riferimento che arruffa la polizia con forza, questo è il tipo di trasgressione (“disturbo” nel loro gergo) a cui gli inserzionisti che ci governano sono affezionati. Ma questo dice più di quanto vorrebbero. Degna dei migliori manuali di controinsurrezione, questa scoperta rivolta a una parte specifica della popolazione ritenuta difficile da controllare fa pensare che, dietro la gestione prettamente poliziesca dell’emergenza sanitaria, ci fosse senza dubbio un’altra ragione: la paura.

Se si trattava ufficialmente di far rispettare misure sanitarie ancora ampiamente comprese e accettate dalla stragrande maggioranza, la gestione repressiva della pandemia aveva sicuramente un motivo, che tocca la profonda psicologia di chi era al potere: lo spegnimento della macchina economica era ai loro occhi teso con minaccia.

Perché c’erano molti malati, persone che morivano negli ospedali, famiglie imprigionate nei loro piccoli appartamenti, persone che perdevano la strada o la loro fonte di reddito. C’era il telelavoro, con email zelanti dalle 7:00 alle 23:00. C’era infatti un abbozzo dell’imposizione dell’utopia capitalista del lavoro rinchiuso, isolato di fronte al capitale. Ma c’erano anche gli uccelli che avevano ripreso a cantare nelle città, l’aria che era tornata respirabile, i dipendenti che finalmente avevano potuto prendersi cura dei loro giardini, gli amici che avevano inventato nuovi modi di incontrarsi. Per la prima volta, gran parte del pianeta è stata in grado di smettere di funzionare. Immaginiamo per un secondo che questo arresto globale della macchina capitalista non sia stato accompagnato dall’isolamento forzato di tutti nelle loro case da parte della polizia. Immaginiamo che questa libertà di stare insieme, liberati dall’alienazione del lavoro, possa essere estesa ed essere vissuta da tutta la popolazione per un periodo che la popolazione avrebbe voluto prolungare… Immaginiamo… Come impedire alla fantasia di fare il suo lavoro? Come possiamo evitare che diventi una forza materiale?

Domande angoscianti per il potere, che a volte suscitavano risposte angosciate. In alcuni episodi repressivi, come cacciare escursionisti in alta montagna o spazzare spiagge con il supporto di droni, non si può fare a meno di percepire uno strano misto di frenesia ossessiva e giochi di ruolo controinsurrezionali. L’odio del partito che si è manifestato nella folle repressione dei rave-party o dei raduni spontanei, l’invio del GIGN in tenuta antiterrorismo mascherata per vessare i relatori: tutto questo non ha altra razionalità che quella della paura.

È vero che le feste migliori spesso finiscono in sommosse e viceversa. Chi ci governa lo sa tanto meglio che a volte ha causato loro dei brutti cambiamenti. Prevenire un’epidemia di saccheggi dei supermercati, sicuramente anche a questo serviva la gestione delle forze dell’ordine del Covid. Centinaia di migliaia di persone stipate in alloggi scadenti, l’economia parallela chiusa, i lavoratori temporanei in disparte: il governo ha guardato i sobborghi francesi come bidoni in fiamme.

Se il governo ha schierato centinaia di migliaia di poliziotti, ciò potrebbe essere principalmente dovuto al timore che lo spegnimento della macchina economica riveli comportamenti ingovernabili[7]. Era quindi necessario che i confinamenti e le restrizioni fossero vissuti in primo luogo non come un esercizio di autodisciplina liberamente acconsentito, ma come un momento punitivo dal quale si tratterebbe di uscire quanto prima per ritrovare la normalità, cioè ordinaria alienazione. Il capitalismo non ama la gioia, vuole la resilienza[8].

 

Destituire la polizia

La prima trappola che la polizia ci tende è quando ci trattano come nemici e scatenano il risentimento reciproco dentro di noi. Ecco perché dobbiamo subito prendere la strada opposta, rifiutare la simmetria. La lotta contro gli sbirri non si riduce a questi tafferugli che ormai accompagnano le manifestazioni, e che rallegrano quando permettono loro di sfuggire alla vigilanza della polizia e dei sindacati affinché tutti possano sparpagliarsi in città, occupare luoghi, legare, ribaltare simboli, affermare rabbia e gioia, talvolta deprimente quando ridotta a rituali di gas lacrimogeni. La lotta agli sbirri ha qualche possibilità di successo se gioca sulla natura bastarda di quest’ultimi, accentuando la confusione che la caratterizza. Se si appoggia dove fa male: la contraddizione tra la loro cultura popolare e la loro guerra contro il popolo, sulla riflessione che gli danno gli irregolari. Questo non sarà fatto con i fiori, siamo d’accordo. Il 5 gennaio 2019, Christophe Dettinger, “lo Zingaro di Massy”, avanza sulla passerella Léopold-Sédar-Senghor e inizia a boxare a mani nude i gendarmi super attrezzati che avevano appena bloccato la folla e picchiato a terra un manifestante. La scena viene filmata e vista da milioni di francesi, le immagini si illuminano alle 20: nasce una stella. Identificato dalla polizia, si è arreso 3 giorni dopo e si è trovato imprigionato. Un crowdfunding (di raccolta fondi) raccoglie 117.000 euro in meno di 24 ore. L’ondata di entusiasmo non è il risultato di un pensiero strategico, è un’emozione suscitata dalla bellezza del gesto, dal tranquillo coraggio di un individuo. Dove la polizia ha eretto un muro, Christophe Dettinger vede un sentiero. Elimina gli ostacoli e apre la strada. Se è stato necessario incarcerarlo, trascinarlo nel fango sulle tv, chiudere la sua pentola di appoggio e creare un concorrente a sostegno della polizia, non era solo per punirlo per il suo ”essere difeso e per aver difendeva i suoi simili”, ma perché era necessario distruggere la sua immagine e la gioia che inevitabilmente procurava a tutti coloro che erano stati sottoposti per settimane o anni all’onnipotenza della polizia. L’esempio è altrettanto valido per la ZAD di Notre-Dame-des-Landes[9]: se lo Stato ha mobilitato mezzi così enormi per schiacciarla, è perché era inaccettabile che esistesse sul territorio nazionale uno spazio dove la polizia fosse caduta in disuso. Dobbiamo seguire la strada aperta da Christophe Dettinger. Molto più dei suoi pugni, ciò che ha ferito i poliziotti è stato l’aver mostrato di avere dalla sua parte le virtù di cui si vantano: il coraggio, la freddezza, l’uso ragionato della violenza al servizio della protezione dei più deboli. Ha suonato su una corda profonda nel cuore delle persone, nel cuore delle donne e degli uomini che, per quanto poco possiedano, avranno sempre quello, a cui a volte si aggrappano a costo della propria vita: la loro dignità. Questa è la linea di fondo: i poliziotti non hanno onore. I poliziotti devono vergognarsi di loro. Nel libro che ha dedicato loro, Valentin Gendrot, un giornalista che si è infiltrato nella loro casa attraverso l’accademia di polizia, racconta un “errore” coperto da tutta la sua pattuglia, lui compreso. Inizia con un’umiliazione inflitta a un bambino e continua perché il bambino si rifiuta di subire senza batter ciglio. Ci si può interrogare sulle ragioni di fondo del comportamento del poliziotto sbavando, sull’assoluta arbitrarietà delle sue provocazioni a danno di un ragazzino che non ha nulla di illegale in sé e tace perfettamente. In primo luogo, ovviamente, c’è una questione di godimento. A causa dello scarso potere che gli conferisce la sua divisa, il vile poliziotto, quello che dobbiamo sovvertire, è continuamente vegliato da questa passione malvagia: il piacere di umiliare, di ferire. Ma è necessario precisare cosa porta questi uomini e queste donne a sfogare tanto odio: il disprezzo in cui loro si sentono trattenuti. Ciò che colpisce nella storia di Gendrot come nei libri dei sociologi, nei commenti fatti all’interno dei gruppi Facebook delle forze dell’ordine o anche nelle discussioni su WhatsApp di poliziotti apertamente fascisti rivelati dalla stampa, è la sensazione tra molti di essere disprezzati, tanto dai loro superiori quanto da buona parte della popolazione. Il poliziotto di base è frustrato e, come tante persone frustrate di tutte le professioni, la sua frustrazione si trasforma in fascismo e razzismo. Fascismo: Se sono una merda, potrei anche concedermi il piacere di trattare di merda gli altri. Razzismo: io sono una merda ma gli altri, gay o razzializzati o donne o intellettuali, l’elenco potrebbe continuare, sono anche peggiori merde.

Durante il movimento contro la legge El-Khomri, il nostro amico editore Eric Hazan ha pubblicato in mattinata un testo dal titolo: “Sulla polizia, un’opinione di minoranza”. Ha proposto di incontrare la polizia più demoralizzata per cercare di radunarli nel movimento. Se il testo ha suscitato qualche scherno negli ambienti cosiddetti radicali, ha comunque toccato un punto essenziale. Non ci sarà vittoria possibile finché una parte sostanziale delle forze dell’ordine non deciderà di abbassare le armi. Ciò su cui non siamo d’accordo, tuttavia, è come ottenere questa resa delle truppe. Il 14 luglio 1789, se la Bastiglia fu presa, fu perché, il giorno prima, 48.000 elettori avevano formato milizie e saccheggiato i depositi di armi. Nel 2011, se le forze di polizia di Mubarak e Ben Ali hanno finito per disertare le strade, è stato perché gli insorti hanno saccheggiato e bruciato le stazioni di polizia a centinaia e la polizia è stata giustamente percepita come l’incarnazione di questi due regimi dittatoriali.

A differenza di molte altre professioni, quella dei poliziotti vieta che nell’esercizio delle loro funzioni si trovi con loro qualsiasi lotta comune che li porti fuori dalle loro cattive passioni. Grazie al movimento dei gilet gialli, molti spiriti che vi erano entrati con sproloqui nazionalisti, cospiratori, ecc., a forza di buoni incontri, si sono arresi. Niente del genere è possibile con i poliziotti. L’unico rappresentante della polizia, a nostra conoscenza, che abbiamo visto schierarsi con i gilet gialli e combattere al loro fianco, un gendarme, non ha più futuro in questa professione. Nel 2016, ai poliziotti arrabbiati che hanno marciato sulla scia delle proteste antisindacali, non avevamo altro da dire loro se non questo: non siate più bastardi.

O più precisamente, non essere più bastardi di poliziotti. Perché è ora di ammetterlo: non abbiamo nulla, in linea di principio, contro i bastardi. Anche noi siamo preoccupati per i nostri ruoli sociali, assumendo di essere un padre, un artista, uno spazzino per la società, ma molto più contro di essa. Piuttosto che rivendicare una purezza irrintracciabile, di fronte ai poliziotti, la nostra strategia deve essere questa: essere più bastardi di loro. Sapendo giocare su tutti i fronti. Ciò significa, ad esempio, non rifiutarsi di combattere sulla base delle garanzie legali, quando non le rispettano, pur non chiudendosi nel legalismo. Sapendo sostenere, davanti a loro, dove fa loro male: il disonore di aver scelto una professione del genere. Ti senti disprezzato? Ma è perché sei spregevole! Nonostante i tuoi salari molto più alti di quelli degli operai, e le incessanti lusinghe dei tuoi capi (che però ti disprezzano quanto noi e tu lo sai), la tua condizione è dura? Bene, lavoreremo per renderla ancora più dolorosa, come lavoreremo per rendere la diserzione sempre più desiderabile.

Dopo il movimento di George Floyd, negli Stati Uniti è sorto intero il problema su cosa fare con la polizia. Abolirla per i più radicali, ridurne i finanziamenti per i più timidi, riformarla per i repubblicani francesi. Ma questi dibattiti ideologici e incombenti sembrano soprattutto favorevoli a produrre e legittimare ipotesi astruse. Ricordiamo che in Francia l’unico movimento di massa che ha preso sul serio la questione della polizia è stato quello dei gilet gialli, che a priori non aveva nulla contro la polizia in quanto tale, anzi. Ma affrontandola, scoprendo la bassezza e la crudeltà dietro le sue azioni, i Gilet sono passati rapidamente da “La polizia con noi” a “Tutti detestano la polizia”. Perché nello slancio del loro movimento, non volevano più essere sorvegliati.

Mettere fine alla polizia significa trovare i mezzi per destituirla e rimuoverla non è picchiarla con la forza o abolirla in astratto, è renderla inoperante.

Risolvere il problema della polizia è trovare una via d’uscita in mezzo alla sua onnipresenza. Ciò implica poterla respingere, eludere, disperdere e disorientare le sue forze come hanno fatto le migliaia di rotonde affollate, per rendere la sua esistenza ancora più insostenibile e vergognosa di quanto non sia mai stata. Far esistere i legami e i mondi all’interno dei quali non avrà mai più il suo posto.

 

NOTE

[1] Si tratta del 93, cioè il dipartimento Seine-Saint-Denis, ossia la banlieue di Parigi categorizzata dai media e dall’opinione dominante anche fra sociologi ecc. come la “peggiore”, quella che “pone più problemi” di ordine pubblico ecc. Di fatto è una delle banlieue le più razzializzate e criminalizzate di Francia. Vedi: https://www.cairn.info/journal-herodote-2016-3-page-55.htm;  https://www.cairn.info/revue-herodote-2016-3-page-99.htm;  https://www.nouvelobs.com/rue89/rue89-nos-vies-connectees/20150130.RUE7659/pourquoi-toujours-le-9-3.html.

[2] Animatore di 24 anni ucciso durante la carica della polizia ritrovato, in avanzato stato di decomposizione, nella Loira un mese dopo la scomparsa. Del ragazzo si erano perse le tracce dopo la brutale carica della polizia alla Festa della Musica: https://www.agi.it/estero/ragazzo_morto_francia_carica_polizia-5939537/news/2019-07-30/. Il GIGN, Groupe d’intervention de la Gendarmerie nationale (GIGN) è un’unità d’elite della Gendarmeria nazionale francese specializzata in azioni antiterrorismo.

[3] È il messaggio di “lasciar morire” dei paesi d’immigrazione ai migranti (vedi Umanità a perdere. Sindemia e resistenze, da chiedere a info@osservatoriorepressione.info)

[4] Si allude qui al sistema imposto da Sarkozy (il “sarcometro”) per misurare la produttività dei poliziotti in base al numero di arresti, denunce, controlli d’identità, metodo adottato anche in Italia e che si rifà alla logica liberista di pretendere di misurare la produttività di tutti (vedi Polizie, sicurezza e insicurezze, 2021).

[5] Su questo punto mi permetto di segnalare che una parte degli operatori delle polizie interiorizza categorie e idee reazionarie che corrispondono a comportamenti brutali contro soggetti sociali che disprezza sino al punto che vorrebbe eliminarli (al pari dei nazisti). Il suicidio di alcuni potrebbe essere spiegato come profonda crisi rispetto alle illusioni di essere un operatore dello stato per il bene del popolo, oppure a seguito di mobbing da parte di superiori e colleghi (vedi Polizie, sicurezza e insicurezze, 2021).

[6] Questo punto è importante: se la polizia francese è diventata la più la brutale d’Europa è in reazione alle rivolte dei gilets gialli, delle banlieues, delle manifestazioni come quelle contro la riforma della legge sul lavoro e di quella delle pensioni. Laddove come in Italia le lotte sono meno incisive la polizia sembra essere meno brutale ma questo non esclude che possa subitaneamente diventarlo.

[7] Ricordiamo che a più riprese capi della polizia e ministre dell’interno italiani hanno allertato a tale proposito. Di fatto tutte le polizie di tutti i paesi sono state messe in allerta rispetto ai rischi di rivolte.

[8] Sin dagli anni ’90 il discorso della resilienza è diventato dominante innanzitutto come antitesi alle resistenze rispetto ai disastri sanitari, ambientali ed economici (vedi https://www.researchgate.net/publication/323884247_Resistenze_ai_disastri_sanitari_ambientali_ed_economici_nel_Mediterraneo).

[9] È il caso più famoso in Francia, simile a quello dei NOTAV della Valsusa.

da qui

 

Il riformismo non è liberazione, è controinsurrezione

Non puoi abolire la violenza sistemica anti-neri e razziale-coloniale proteggendo il sistema stesso.

Questo articolo fa parte di Abolition for the People, una serie creata da una partnership tra Kaepernick Publishing e LEVEL, una pubblicazione Medium per e sulla vita degli uomini neri e “di pelle scura”. La serie, che comprende 30 saggi e conversazioni nell’arco di quattro settimane, punta alla conclusione cruciale che polizia e carceri non sono soluzioni per i problemi e le persone che lo stato considera problemi sociali, in essa si reclama un futuro che metta la giustizia e i bisogni delle comunità al primo posto.

 

La logica della “riforma”

La riforma va meglio intesa come una logica piuttosto che un risultato: un approccio al cambiamento istituzionale che sostiene i sistemi sociali, economici, politici e/o legali esistenti, inclusi, ma non limitati a, polizia, politica elettorale bipartitica, eteronormatività, giustizia penale, e distruzione corporativa del mondo naturale.

Riformare un sistema significa aggiustare aspetti isolati del suo funzionamento al fine di proteggere quel sistema dal collasso totale, sia da parte di forze interne che esterne. Tali aggiustamenti di solito si basano sul presupposto fondamentale che questi sistemi devono rimanere intatti, anche se producono costantemente miseria asimmetrica, sofferenza, morte prematura e condizioni di vita violente per determinate persone e luoghi.

Mentre la polizia moderna è emersa attraverso la violenza istituzionalizzata dell’apartheid anti-nero e le lunghe eredità genocide della schiavitù dei beni mobili e della guerra di frontiera, gli sforzi contemporanei di “riforma della polizia” suggeriscono nondimeno che la polizia può essere magicamente trasformata in una istituzione non-anti-neri, non-sistema razziale-coloniale (“razzista”). Secondo la storia, questa magia bianca deve essere eseguita attraverso cambiamenti frammentari nell’amministrazione della polizia, nei protocolli, nella “responsabilità degli ufficiali”, nella formazione e nel reclutamento del personale.

La campagna #8CantWait campaign, ampiamente pubblicizzata sui social media dall’organizzazione no profit We the Protestors e dal sua Campaign Zero durante i primi giorni della ribellione globale del giugno 2020 contro la violenza della polizia anti-nera, esemplifica la frode fondamentale di questa magica ambizione. Basata su un’insostenibile, poco ricercata e pericolosa nozione che l’adozione delle sue otto politiche migliorate di “uso della forza” porterà la polizia a uccidere “il 72% in meno di persone“, l’agenda #8Can’t Wait ha attirato l’immediato e diffuso supporto di celebrità e funzionari eletti, tra cui Oprah Winfrey, Julián Castro e Ariana Grande. Tali avalli sono inseparabili dalla logica politica del complesso industriale nonprofit : l’infrastruttura della filantropia liberale mercifica le narrazioni semplicistiche di riforma in ordinate frasi audio/testo che possono essere facilmente ripetute, retwittate e ripubblicate da persone e organizzazioni rivolte al pubblico. Questa dinamica non solo insulta l’intelligenza di coloro che sono impegnati in forme di lotta serie e collettivamente responsabili contro la violenza di stato; glorifica anche la pigrizia in cerca di potere come sostituto dell’attuale attivismo (abolizionista).

Uno dei tanti problemi evidenti con #8CantWait – che sostiene la riduzione dell’escalation, “l’avvertimento prima di sparare”, il divieto di strozzature e l’installazione di un “continuum dell’uso della forza” – è che molte delle sue proposte di riforma sono state assorbite dai dipartimenti di polizia con più omicidi di neri negli Stati Uniti (incluso il famigerato Chicago PD) molto prima delle uccisioni di Breonna Taylor, George Floyd e tanti altri, sanzionate dallo stato. Contro tutte le prove storiche, #8CantWait tenta di convincere coloro che mettono in discussione e si ribellano a un sistema violento e che crea miseria che la polizia è riformabile, che può essere modificata e rinnovata per proteggere e servire gli stessi luoghi, comunità e organismi che ha storicamente sorvegliato, pattugliato, intimidito e sviscerato.

Come ha scritto la direttrice del Progetto NIA e organizzatrice abolizionista Mariame Kaba su New York Times editorial di giugno, “Non c’è una sola epoca nella storia degli Stati Uniti in cui la polizia non sia stata una forza violenza contro i neri”. Un recente amicus brief in Harvard Civil Rights-Civil Liberties Law Review fa eco alle Black radicali feministe and abolizionistcome Kaba, Rachel HerzingAlisa BierriaSarah HaleyBeth Richie, e Ruth Wilson Gilmore considerando come #8CantWait equivalga a un reazione liberale e al tentativo di appropriazione di un emergente movimento di massa globale che affronta radicalmente le logiche fondamentali anti-nere di genere della polizia moderna. Il brief suggerisce che “la decisione di Campagna Zero di andare avanti con una proposta di mezzo, proprio quando gli organizzatori abolizionisti hanno iniziato a raccogliere un maggiore sostegno pubblico nelle loro richieste di definanziare e abolire la polizia, è discutibile”.

È fondamentale chiedersi perché tali campagne di riforma emergano costantemente con particolare intensità in momenti storici di diffusa rivolta antisistemica. Le ribellioni globali del 2020 contro la polizia anti-nera, l’accelerazione dell’organizzazione abolizionista e proto-abolizionista e la diffusione dei radicalismi femministi e queer neri in mezzo a noi sono, come potrebbe dire il defunto Cedric Robinson, una totalità brillante, disordinata e bella che cerca di rovesciare condizioni di terrore. Queste condizioni sono sia profondamente storiche che acutamente presenti, e comprendono le forze mortali della criminalizzazione, dell’insicurezza abitativa e alimentare, dell’incarcerazione, dell’intossicazione ambientale mirata, della violenza sessuale e della demonizzazione culturale. Tuttavia, i movimenti di riforma tendono a oscurare e riprodurre contemporaneamente condizioni di terrore normalizzate rinviando e/o reprimendo il confronto collettivo militante con i fondamenti storici della violenza di stato anti-nero e razziale-coloniale di genere. In altre parole, se il fondamento di tale violenza è la polizia stessa piuttosto che atti isolati di “brutalità della polizia” o giustizia penale piuttosto che lo scandalo della “carcerazione di massa”, allora la riforma è semplicemente un altro modo per raccontare gli obiettivi di tale guerra domestica asimmetrica che devono continuare a tollerare l’intollerabile.

Cosa potrebbe significare, in momenti di diffusa ribellione contro condizioni normalizzate di terrore, concettualizzare campagne di riforma come #8CantWait come una counterinsurgency liberal-progressista? In che modo tali controinsurrezioni riformiste servono a minare, screditare o altrimenti interrompere le crescenti lotte dei popoli oppressi e in cerca di libertà (neri, indigeni, incarcerati, colonizzati) per le trasformazioni abolizioniste, anticoloniali, decolonizzanti e/o rivoluzionarie delle trasformazioni sociali esistenti, sistemi politici ed economici?

 

“Riformismo”

Il reformism – la posizione ideologica e politica che si fissa sulla riforma come motore primario, se non esclusivo, del cambiamento/giustizia sociale – è un altro nome per questa forma morbida di controinsurrezione. Il riformismo rinvia, evita e persino criminalizza gli sforzi delle persone per catalizzare un cambiamento fondamentale in un ordine esistente, spesso attraverso mandati dogmatici e semplicistici di “nonviolenza”, incrementalismo e conformità.

Inoltre, il riformismo vede nella legge l’unica forma legittima di protesta, espressione culturale/politica collettiva e/o intervento diretto su condizioni sistemicamente violente. (Vale la pena notare che l’interpretazione di atti violenti vs. atti non violenti richiede discussione e dibattito, in particolare in risposta a nozioni ossimoriche di “violenza sulla proprietà” che raramente spiegano la violenza di genere anti-nero e di stato razziale-coloniale.) Il riformismo limita l’orizzonte di possibilità politica a ciò che è visto come realizzabile entro i limiti delle strutture istituzionali esistenti (politica elettorale, capitalismo razziale, eteronormatività, stato-nazione, ecc.).

La controinsurrezione riformista fa perno sulla fervente convinzione che lo spirito di progresso, miglioramento nazionale e convinzione patriottica prevarranno su un ordine fondamentalmente violento. In pratica, questa credenza si avvicina a una sorta di pseudo-religione.

Mentre le forme abolizioniste, rivoluzionarie e radicali di analisi e movimento collettivi creano spesso un confronto inconciliabile con istituzioni e sistemi oppressivi, il riformismo cerca di preservare gli ordini sociali, politici ed economici modificando aspetti isolati del loro funzionamento. Un’affermazione peculiare anima le forme contemporanee di questa controinsurrezione liberal-progressista: che le lunghe asimmetrie storiche, sistemiche, istituzionalmente riprodotte dalla violenza dei sistemi esistenti sono le sfortunate conseguenze di “disuguaglianze”, “disparità” risolvibili, “pregiudizi (inconsci o impliciti) ”, corruzioni e/o inefficienze. In questo senso, il riformismo presuppone che uguaglianza/equità/parità siano realizzabili — e auspicabili — all’interno dei sistemi esistenti.

La controinsurrezione riformista fa perno sulla fervente convinzione che lo spirito di progresso, miglioramento nazionale e convinzione patriottica prevarranno su un ordine fondamentalmente violento. In pratica, questa credenza si avvicina a una forma di fede liberale dogmatica, una sorta di pseudo-religione. Pertanto, l’aumento della “diversità” nel personale e nell’infrastruttura burocratica, i cambiamenti nell’apparato giuridico e politico e la “anti-bias trainings” (formazione anti-pregiudizi) individualizzata diventano alcuni dei metodi principali per alleviare la violenza di stato. C’è ancora un altro strato di presupposto fatale che struttura la posizione riformista: che coloro che sono presi di mira dalla miseria, dallo sfollamento e dalla morte prematura nell’ambito dell’ordine sociale esistente devono tollerare la sofferenza continua mentre aspettano che la “correzione” riformista prenda piede.

 

Abolition

Un’analisi abolizionista e una prassi collettiva, d’altra parte, offre una confutazione urgente all’incrementalismo in malafede della posizione riformista. Vale la pena sottolineare due parti della risposta abolizionista dilagante: in primo luogo, che la logica interna dell’ordine sociale, politico ed economico esistente (secondo Sylvia Wynter, chiamiamola “Civilization”) equivale a una lunga guerra storica contro popoli specifici e posti. In secondo luogo, che la trasformazione di un tale ordine non solo richiede il suo sconvolgimento, ma deve anche essere guidata dalla liberazione, dalla salute collettiva e dall’autodeterminazione dei popoli di origine africana, dei popoli indigeni e aborigeni, e di altri popoli e luoghi presi di mira dalla lunga storia della Civilizational war (la guerra civilizzatrice). Considerando la logica anti-Black, genocida e proto-genocida del capitalismo razziale, lo stato-nazione (USA), la supremazia bianca e la settler-colonialdomination, il riformismo non è semplicemente inadeguato al compito di abolire l’anti-nero, la guerra coloniale razziale; è fondamentale per l’espansione, la sofisticazione e la scadenza della Civilization.

Per essere onesti, alcune rare campagne di riforma cercano immediati aggiustamenti istituzionali che affrontino direttamente le vittime asimmetriche dell’anti-Blackness e della violenza razziale-coloniale. Gli Abolitionist approaches to reform (approcci abolizionisti per la riforma), ad esempio, approvano misure a breve termine che difendono l’esistenza di persone vulnerabili e oppresse, consentendo al contempo a organizzatori, insegnanti, studiosi e altri attivisti di costruire una maggiore capacità di ribaltare e trasformare completamente gli accordi sistemici esistenti. #8toAbolition, la risposta abolizionista a #8CantWait, esemplifica un tale programma di riforme locali immediate, che includono il definanziamento/ridistribuzione dei budget della polizia, la depenalizzazione delle economie e delle comunità incentrate sulla sopravvivenza, la decarcerazione delle carceri e l’accesso universale a un alloggio sicuro. Tuttavia, la campagna afferma comunque che “l’obiettivo finale di queste riforme non è creare polizie o carceri migliori, più amichevoli o più orientate alla comunità. Invece, speriamo di costruire una società senza polizia o carceri, in cui le comunità siano attrezzate per provvedere alla loro sicurezza e benessere”. La riforma è, nella migliore delle ipotesi, una tattica provvisoria di emergenza che gli abolizionisti intraprendono con precauzione.

Questo momento storico è segnato da molteplici cancellazioni del copione riformista: un numero crescente di persone, comunità e organizzazioni sta rifiutando con fermezza e militanza l’ordine sociopolitico ed economico contemporaneo. Siamo in un periodo animato da una diffusa rivolta dei neri e degli indigeni, visioni audaci di un futuro contro/dopo la civiltà e un disciplinato rifiuto di massa di arrendersi all’intimidazione dei reazionari di destra e all’aperta repressione dello stato. La proliferazione di attività di base, linguaggio, pensiero e apprendimento collettivo espongono le fragili rivendicazioni ideologiche del riformismo, che appassiscono di fronte all’arte, al movimento e alla poesia in aumento dell’abolizione, della rivoluzione, della riparazione e della comunità radicale che definiscono periodi come l’estate del 2020. I lettori di questo e altri contributi ad Abolition for the People potrebbero già essere coinvolti con tali comunità, ma se non lo sono, possono probabilmente cercare e trovare modi per collegarsi a tali collettivi con il minimo sforzo. (Altrimenti, possono contattarmi all’indirizzo dylanrodriguez73@gmail.com e farò del mio meglio per facilitare una connessione.)

Infine, in un momento in cui gli Stati Uniti stanno reagendo a questa ondata di umanità insorgente e autoliberante, muovendosi apertamente verso una versione del ventunesimo secolo del fascismo nazionalista bianco, è utile rivisitare le parole dello scrittore rivoluzionario nero, insegnante e organizzatore George Jackson, dal suo libro Blood in My Eye:

Non avremo mai una definizione completa del fascismo, perché è in costante movimento, mostrando un nuovo volto per adattarsi a qualsiasi particolare insieme di problemi che sorgono per minacciare il predominio della classe dirigente tradizionalista e capitalista. Ma se uno fosse costretto per motivi di chiarezza a definirlo con una parola abbastanza semplice da comprendere per tutti, quella parola sarebbe “riforma”.

La violenza di Stato fatale e terrorizzante non è contenibile in incidenti isolati. Attinge ed espande attivamente una lunga storia della Civiltà basata sull’eviscerazione e la negazione della vita nera; l’occupazione e la distruzione di popoli e luoghi indigeni; la criminalizzazione delle persone queer, trans e disabili; il fiorente danno della violenza sessuale autorizzata dallo stato; e l’ostinata onnipresenza della misoginia violenta, che sono l’ordine quotidiano delle cose nelle condizioni della guerra (domestica) normalizzata.

La riforma è nella migliore delle ipotesi una forma di gestione delle vittime, mentre il riformismo è controinsurrezione contro coloro che osano immaginare, attuare e sperimentare forme abolizioniste di comunità, potere collettivo e futuro. L’abolizione, in questo senso, è la giusta nemesi del riformismo, nonché la risposta militante, di principio e storicamente fondata alla controinsurrezione liberale.

 

L’abolizione non è un risultato.

Piuttosto, è una pratica quotidiana, un metodo di insegnamento, creazione, pensiero e un progetto di costruzione comunitaria insorgente (“fugitive“) che espone le insidie dell’avventura riformista. Demistifica la magia a buon mercato del riformismo ed evoca un abbraccio della dinamica tradizione radicale e rivoluzionaria nera che informa i collettivi di labors of freedom (lavori di libertà), struttura le nozioni di giustizia e autodifesa collettiva e induce un obbligo politico ed etico a combattere senza scuse, in qualunque modo sia disponibile, efficace e storicamente responsabile. Niente di meno: è una concessione alle logiche del genocidio anti-nero e razziale-coloniale.

da Level Medium

Traduzione e nota introduttiva a cura di Turi Palidda

da qui

(*) testi ripresi da www.osservatoriorepressione.info e effimera.org

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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