Povertà

Un’analisi di Cecco Bellosi (*)

L’irruzione sul campo della crisi del 2008, la prima del nuovo millennio, ha indotto l’esplosione delle povertà, accentuato le diseguaglianze, diffuso gli stati di sofferenza mentale e la dipendenza da sostanze.

Banche e Borse l’hanno provocata e hanno prontamente ripreso speculazione e traffici, lasciando le pareti del corpo sociale più deboli, fragili e vulnerabili a sopravvivere drammaticamente tra le macerie.

La Grecia è il Paese che è stato costretto a subire più di tutti le conseguenze di quella pandemia finanziaria.

Ma anche in Italia e in molti altri Stati d’Occidente il reddito e l’abitare sono diventati una grande questione sociale; le droghe sono tornate a essere una grande questione sociale; le migrazioni si sono caratterizzate come una nuova, grande questione sociale.

Nel 2010 Aldo Bonomi in “Sotto la pelle dello Stato” delineava la comunità del rancore, la comunità operosa e la comunità di cura come i corpi vivi della società postmoderna, attraversati dalla lotta di classe, dalla contrapposizione di genere, dai conflitti etnici.

L’incertezza dominante nella crisi ha determinato sia la diffusione batterica della comunità del rancore sia l’approdo disperato alla comunità della cura delle derive sociali, familiari e individuali derivanti dall’erosione delle forme di integrazione sociale che la lotta di classe aveva faticosamente conquistato.

Il senso di insicurezza naviga tra i fulmini covati e improvvisi di una scala gerarchica rinserrata nell’aggressività dell’invidia sociale verso il basso fino all’ultimo gradino dei penultimi contro gli ultimi e l’esclusione, con indotta autoesclusione obbligata, degli ultimi.

Scriveva Bonomi: «Da questo punto di vista, i soggetti emblematici della fragilità (l’anziano solo, la donna vittima di violenza, il matto, il tossicodipendente, la persona senza dimora) sono altrettante personificazioni dello stato di crisi permanente che sembra pervadere la dimensione sociale contemporanea e che fa dire ad Alda Merini: “Io mangio solo per nutrire il mio dolore”, proprio perché la fragilità tende a porci di fronte alle viscere nauseabonde della vita umana, suscitando quell’indifferenza che David Foster Wallace ha riassunto nella “difficoltà di notare quello che vedi tutti i giorni”».

Bonomi auspicava l’alleanza tra comunità di cura e comunità operosa come vaccino efficace per neutralizzare la carica virale del rancore, ma temeva la congiunzione poco astrale tra comunità operosa e comunità del rancore. Che, nella logica conservativa e avida del capitalismo antico e postmoderno, si è puntualmente verificata, a confermare che le prospettive di fuoriuscita dalle crisi virano sempre, con qualche lodevole eccezione come il 1917 sovietico, verso destra.

Poi, a ben guardare, rancore, operosità e cura contengono semi delle altre due comunità.

Il rancore, oltre all’odio aggressivo vomitato in particolare sui social media, sussume anche le parti d’impresa avvinghiate allo sfruttamento arroccato delle rendite di posizione e coinvolge la dimensione della cura che si esprime nella logica selettiva, escludente e assistenzialista.

A sua volta, l’operosità si dipana tra il lamento querulo del rancore e le aperture ristrette verso la cura, come le forme ambivalenti di welfare aziendale.

A sua volta ancora, la cura si snoda tra le forme gerarchiche delle istituzioni totali e pulsioni egalitarie verso la comunità di destino.

Questa foresta intricata ha convinto il Gabbiano a percorrere le strade della resistenza e dell’esodo attraverso un nuovo progetto sociale. La resistenza, non la resilienza che significa solo adattarsi subendo, è necessaria per vivere l’esodo non solo come fuga dal potere costituito ma come cammino impervio e faticoso alla ricerca magari non di una terra promessa ma di un mondo diverso.

Che continua a essere possibile.

Siamo usciti dalla nicchia delle comunità terapeutiche per rispondere alle domande che ponevano gli abitanti delle periferie, i giovani randagi, i migranti in cerca di futuro, i detenuti senza patria, aprendoci a nuove forme di accoglienza.

Provando a rinnovare allo stesso tempo le comunità, che sono abitate comunque da ospiti provenienti da quegli ambiti.

Il progetto sociale del Gabbiano è diventato navigazione in mare aperto, avendo come unici strumenti di bordo l’accoglienza e la condivisione.

Su questo mare mosso si è innestata la “Linea d’ombra” non della febbre tropicale, ma del corona virus. Un tempo solo apparentemente sospeso: principi, valori, problemi e cose sono comunque in movimento. Anche uomini e donne sono in movimento, dentro di loro, con un’accelerazione delle paure, del coraggio, delle sofferenze.

Tra queste ultime, la povertà si sta muovendo con una velocità inaudita, complementare a quella del virus: come povertà assoluta, relativa e come impoverimento sul piano materiale; come povertà delle relazioni; come mal di vivere delle persone, delle famiglie e di una parte della società.

Solo dove ci sono tracce di comunità si riesce a sentire la forza del noi che vince le solitudini imposte.

A partire dagli ospedali, dalle carceri, dai territori più colpiti.

Le diseguaglianze, già al limite della insopportabilità e della insostenibilità, stanno implodendo.

La situazione non è uguale per tutti.

A parte gli avvoltoi che, come i mercanti della borsa nera in tempo di guerra, si arricchiscono speculando su un dramma collettivo epocale, non è la stessa cosa poter contare su un reddito magari decurtato ma continuativo e trovarsi senza risorse; poter usufruire a fatica e in ritardo degli ammortizzatori sociali o non disporre di alcun paracadute; sopravvivere in piccoli locali fatiscenti o poter disporre di spazi vitali.

Il rischio reale è di uscire da questa situazione, quando si uscirà, ancora più deprivati, più sofferenti, più disorientati.

Il nodo della povertà va aggredito subito.

Su almeno tre linee di intervento: l’abitare, il reddito, le solitudini.

L’abitare

Abitare un luogo vuol dire poter avere radici: magari deboli, spesso rattrappite, o fragilmente vissute. A partire dalle radici è possibile gettare lo sguardo verso i rami, senza rimanere obbligatoriamente fissati sulle suole usurate o sui cartoni dove passare la notte.

L’housing first non può trovare la soluzione nella sosta notturna in un dormitorio: in questi giorni solo a Milano oltre duemila persone vi accedono per una risposta anche quantitativamente insufficiente, ma il ricovero temporaneo non è la dimora. E non lo è, neanche, l’isolamento obbligato o da paura in condomini corrosi più dall’incuria che dal tempo di desolate periferie. Le solitudini però si possono anche trasformare in filiere solidali, in cui chi può fare qualcosa, anche solo la spesa, può farlo anche per l’altro.

E spesso accade.

Si può anche diffondere come strumento di coesione l’esperienza delle portinerie sociali. Non ha alcun senso essere i portinai dell’indigenza, ma lo ha, con una carica intensa, diventare i portatori collettivi di una nuova socialità, aprendo e varcando le soglie dell’isolamento.

Isolani, con il senso di comunità di un’isola, e non isolati.

Gli enti responsabili dell’edilizia popolare dovrebbero promuovere queste esperienze, innovando anche sulla ristrutturazione degli appartamenti inabitabili.

Un solo esempio: alcuni anni fa, nel 2015, è stato firmato un protocollo tra Regione Lombardia e ministero della Giustizia in cui si prevedeva, con uno stanziamento paritario di risorse, di mettere al lavoro i detenuti. Quel protocollo è rimasto una carta scritta. Ma può essere trasformato in una opportunità concreta, con i detenuti che sistemano quegli appartamenti: la pena come attività utile e non come tempo inutile, e che, in cambio, possono usufruire di un’abitazione, anche condivisa, nel momento dell’uscita dal carcere.

Vi è, infine, il problema di valorizzare, nelle nuove costruzioni ma anche in quelle esistenti, gli spazi comuni, spesso desolatamente vuoti o in rovina, trasformandoli in luoghi vissuti delle relazioni di vicinato.

Lavoro e reddito

Il secondo punto, strettamente correlato al primo, è quello del reddito di sopravvivenza.

Quello che papa Francesco chiama il diritto al reddito universale.

La povertà sostenibile e non la miseria insostenibile.

Occorre anche in questo caso superare la logica assistenzialista che finisce per passivizzare i fruitori e rendere indifferenti gli erogatori in un vuoto a perdere senza speranza, arrivando a individuare attività utili per il bene comune.

Il Covid-19 ha incontrato ben pochi ostacoli sulla sua strada; ha trovato invece davanti a sé una prateria sconfinata in una società segnata dalle diseguaglianze estreme: le ville e le favelas metropolitane; un ambiente soffocato dall’inquinamento; una natura del tutto trascurata.

Prendiamo la natura e l’ambiente.

Guardo in questi giorni da casa la Grigna, il Lago, la strada Regina.

Il Grignone non è mai stato così vicino, nel cielo terso. Le montagne e i paesi si riflettono nell’acqua a disegnare un grande quadro impressionista. Il Lago, senza barche, motoscafi e battelli è diventato patrimonio comune di anatre, cigni e gabbiani.

Soprattutto gabbiani.

I tuffi delle anatre, l’incedere regale dei cigni, il volo radente dei gabbiani respirano libertà.

La strada Regina non è più l’inferno di un traffico nervoso che ci obbligava a ingorghi e code quotidiane fino a ieri.

Vuota, come quando ero bambino e nell’intervallo a scuola tra il mattino e il pomeriggio giocavamo a pallone sulla strada con un accenno di porte che toglievamo infastiditi al passaggio delle rare macchine.

Ogni quarto d’ora.

Tutto questo ha il suo rovescio.

Il silenzio viene rotto dall’urlo lancinante delle sirene, che sembra diffondere solo due parole: corona virus.

Le campane delle chiese rintoccano le ore, mai così piene all’ascolto; ma scandiscono anche le morti, mai così lontane.

Nell’impossibilità di trovarsi vicini.

E la vecchia Regina era vuota di automobili, ma sciamava di popolo che si incontrava aggrumandosi in una socialità naturale.

Oggi invece, recandomi al lavoro, attraverso i paesi vuoti, in cui i rari passanti camminano solitari e circospetti, agghindati con improbabili maschere che spesso pensano protettive.

Per loro, non per gli altri.

La paura del contagio non può diventare il contagio della paura.

Sarebbe un ritorno a ieri, quando rancori e paure rinchiudevano l’io in una fortezza vuota.

Come dice Nicola, un ragazzo di sedici anni, parlando dei suoi coetanei: «Gli adolescenti lo sanno: cambiare prima e accorgersene dopo è un conto, ma cambiare accorgendosene è un altro».

Viviamo l’intensità di un silenzio pieno che ci ricorda “Inverno” di Fabrizio De André: «Sale la nebbia tra i prati bianchi, come un cipresso nei camposanti. Un campanile che non sembra vero segna il confine tra la terra e il cielo».

Scrive Gianni Tamino: «Il Covid -19 è una reazione allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta e quindi, per prevenire nuovi eventi simili, dobbiamo ridurre le alterazioni dell’ambiente, favorendo processi produttivi basati sull’economia circolare, sostenibili, con ricorso a fonti energetiche rinnovabili.»

Il Covid-19 può colpire tutti, ma non colpisce tutti nello stesso modo.

Non fa lo stesso vivere redditi asciugati fino alla fame o continuare a navigare in un insopportabile superfluo. Non fa lo stesso non avere nessuno e nulla per imparare o poter apprendere a distanza.

Dilagano i drammi della sopravvivenza provocati dal virus.

Non è mai stato così attuale parlare di reddito universale: il problema è farlo, in un periodo in cui spuntano miliardi, veri e virtuali, come i soldi del Monopoli: non basta più continuare ad aspettarlo come Godot.

Ci sono esperienze estreme che possono diventare risvegli.

Per uscire da questa pandemia e costruire barriere efficaci alla diffusione di nuove forme di contagio, è necessario rispettare la sostenibilità del rapporto tra uomo e natura; prendersi cura dell’ambiente; ridurre sensibilmente le diseguaglianze che producono discariche sociali.

C’è bisogno di un grande piano di ricostruzione sociale, di tutela della natura e di difesa dell’ambiente. Per questo è opportuno mettere al lavoro tutte le risorse umane disponibili, con il riconoscimento del loro valore e della loro dignità: un New Deal delle piccole opere quotidiane in grado di produrre valore condiviso.

Gli stati di sofferenza individuale e familiare

Questo tempo sospeso ha prodotto nel breve periodo anche pratiche positive di mutuo aiuto.

Che, nel medio periodo, vanno valorizzate e non dimenticate.

Ma già oggi le domande di ascolto delle sofferenze umane, materiali e relazionali richiedono risposte di aiuto pronte e adeguate.

Il soccorso come intervento immediato nell’emergenza sanitaria. Ma anche il soccorso come conforto delle parole: le solitudini non possono più essere lasciate sole. Altrimenti il disorientamento, gli stati di sofferenza psichica, il mal di vivere esploderanno come e più che nella Grecia della crisi finanziaria mondiale.

L’egoismo, cieco perché gli occhi sono fatti per vedere e abbracciare il mondo, non se stessi, deve cedere il passo alla dimensione del girotondo di Sergio Endrigo: con lo sguardo che si posa sugli altri e le mani che si intrecciano.

Costruendo un grande ponte e non un muro invalicabile tra l’io e il noi.

Con l’autoreferenzialità dell’io si finisce tutti inevitabilmente per terra.

E invece c’è bisogno di rialzarsi.

Sapendo che le strade saranno lastricate per lungo tempo di condizioni esistenziali difficili, di traumi a lungo rilascio, di sofferenze dell’anima.

Si dovrà passare dalle relazioni di cura alla cura delle relazioni.

Non c’è nulla da inventare, se non la valorizzazione mirata e condivisa della miriade di iniziative, proposte e percorsi in campo.

Dispersi nei propri orti.

Ma è necessario anche un cambiamento di paradigma da parte dei servizi sociali e di cura: bisognerà andare sul campo, nei territori, casa per casa, non limitarsi ad attendere chi ha bisogno di aiuto.

Consultori, SERT, CPS, organizzazioni del privato sociale dovranno essere costantemente in missione, non dentro e dietro le mura. Come è accaduto lo scorso anno, piccolo esempio, a Rogoredo, quando siamo andati a incontrare il popolo del bosco senza aspettare che arrivasse ai servizi, perché tanta, troppa era la strada da percorrere.

Le risorse umane ci sono. Quelle materiali servono, ma sarebbe sufficiente ampliare, intensificare, anche cambiare il modo d’essere e di agire quotidiano. Come hanno saputo e sanno fare medici, infermieri e tutto il personale sanitario nella fase acuta. La solidarietà riguarda tutti, a partire dalle famiglie. Il popolo curdo, con il suo confederalismo democratico, è già sul campo, pur oppresso dalla Turchia. Lì è iniziata la pratica delle famiglie gemelle, attraverso la quale le famiglie più abbienti “adottano” le famiglie meno abbienti per aiutarle a superare le difficoltà.

La svolta necessaria

Scriveva Bertolt Brecht nel “Libro delle svolte”: «La posizione dei medici si rivela nel modo più chiaro in guerra. Essi non possono far nulla per impedire la guerra, possono soltanto rappezzare le membra sfracellate. E nelle nostre città la guerra c’è sempre».

Noi dobbiamo diventare medici che combattono la guerra e cambiano le città.

E con esse la società.

Limitarci a rappezzare le membra sfracellate significa diventare complici del potere.

In campo oggi, come sempre ma in maniera diversa da sempre, ci sono, l’io, il tu, il noi, il contesto. L’io con le sue paure, il tu da tenere a distanza, il noi che sembra sullo sfondo, il contesto che oscilla tra il silenzio e il bisogno di comunicare.

Ma l’io e il tu sono la stessa cosa, perché il virus lo può avere l’io e non solo il tu, così come chi cura e non solo chi è curato. E la dedizione di chi cura e la speranza di chi è curato diventano un noi più saldo e vicino, in grado di superare le distanze.

Così come il contesto che oscilla tra inquietudine e solidarietà diffusa.

A partire dalla condivisione delle fragilità, che può diventare forza.

Alla fine di questa storia o ci aspetta un altro disastro epocale dell’uomo succube e complice della voracità del capitale o, già dentro questa storia, riusciamo a costruire tracce concrete di una comunità di destino, come direbbe Eugenio Borgna, o del Comune, come sostiene Toni Negri.

Scrive Miguel Benasayag: «L’esistenza è ciò che è sempre minacciato. Noi non possiamo domandare la fine della minaccia per esistere. Dunque, in questo senso noi dobbiamo reintegrarci a questa fragilità complessa, ed essere in amicizia con questo ecosistema che oggi stiamo massacrando. Un’amicizia interspecie, con la vita. Per vedere che non l’uomo fa la storia, ma che cosa può fare l’uomo dentro la storia, una volta che ritorni dall’esilio cui si è sottomesso».

La metafora concreta rimane l’Esodo, la fuga dall’Egitto del potere costituito.

Sostiene il filosofo sovversivo Paolo Virno in “Appuntamenti al buio”: «Si scorge a occhio nudo, ora, il problema con cui l’attività critica dei comunisti contemporanei dovrebbe ingaggiare un tenace corpo a corpo. Ai comunisti contemporanei spetta il compito di istituire un nuovo calendario, finalmente adeguato al tempo sociale uscito dai cardini.

Vent’anni fa abbiamo parlato insistentemente di lavoro cognitivo e di intellettualità di massa. Lavoro cognitivo, o intellettualità di massa, è anzitutto l’attività umana che, mai limitata alle ore trascorse in fabbrica o in ufficio, presidia l’intero tempo di produzione sociale. Intellettualità di massa, o lavoro cognitivo, è anche, in secondo luogo, general intellect, l’intelletto generale evocato da Marx, allorché esso non fa più tutt’uno con il capitale fisso, cioè con il sistema automatico di macchine, ma si incarna nella cooperazione linguistica di uomini e donne. Meritano questo appellativo i precari di ogni risma, gli operai della FIAT di Melfi, gli immigrati che raccolgono pomodori».

E, soprattutto oggi, a tutti coloro che hanno tenuto in piedi la nuda vita e la vita nuda: infermieri, operatori sociosanitari e di comunità, addetti alle pulizie, lavoratori della logistica, raiders.

Tutti quelli il cui lavoro si è rivelato improvvisamente fondamentale e sottopagato.

Le residenze sanitarie per anziani rivelano in questo momento il nocciolo della contraddizione, tra imprese mirate al profitto in cui lavoratori e pazienti sono merce e numeri e luoghi in cui il rapporto umano tra lavoratore e utente conosce empatia, sentimenti, linguaggi intrisi di dedizione all’altro. Occorre superare anche lì la deriva della cronicità, valorizzando il vivere comune di chi, attraversato dalla solitudine, è stato relegato in luoghi in cui gli anziani e, a volte, anche i non anziani, sono considerati come vuoti a perdere.

Comunità della cura e comunità realmente operosa sono chiamate a un salto di qualità importante, come la forza lavoro che si è trasformata in classe operaia. Sulla dimensione oggettiva deve innestarsi la consapevolezza soggettiva di essere coloro che, in questo periodo, hanno tenuto in piedi il mondo.

Non per farlo tornare come prima, ma per cambiarlo.

Sul piano politico, si uscirà da questa crisi epocale o con il dominio del fascismo postmoderno, già in campo prima con personaggi come Recep Erdogan, o con nuove forme di mutualismo convinto, fraterno ed efficace.

Con gli ultimi che diventano primi.

Con la lotta, la passione, la costruzione comune del futuro: tutto quello che è venuto a mancare verso la fine del secolo scorso, con la schiacciante vittoria del capitalismo sulla classe operaia.

Una vittoria che non è per sempre. Se si riattiva la Comune, con il suo sogno di fraternità e uguaglianza, con il principio di individuazione che coniuga la singolarità irripetibile della persona con quanto è massimamente condiviso.

L’individuo sociale di Marx.

Scrive ancora Virno: «Il materialismo storico si chiede con quale volto e con quali abiti, del tutto incomparabili al volto e agli abiti finora noti, sta per manifestarsi, o rivelarsi, l’eterno nel tempo».

La sostanza di cose sperate di cui parla Dante nel Paradiso.

Comunità, Comune. E, di nuovo, Comunismo.

C’è una considerazione di Vladimir Putin postata all’inizio del libro “Limonov” di Emmanuel Carrère: «Chi non rimpiange il comunismo è senza cuore».

E parla del comunismo sovietico, che non è certo stato, a parte i primi tempi, un grande esempio.

Poi Putin, da cinico detentore del potere, aggiunge che chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello.

Il comunismo, invece, è più che mai attuale nella traccia indelebile che dalle eresie pauperiste medievali porta alla guerra dei contadini in Germania e a Thomas Munzer teologo della rivoluzione, alla Comune di Parigi, alla Rivoluzione d’Ottobre.

Fino ai soviet di una nuova società futura.

13 maggio 2020

(*) Giovedì 18 giugno, alle 19, presso il circolo Arci Pessina di Chiaravalle a Milano, ci sarà una cena leggera cui seguirà, alle 20, l’incontro con Cecco Bellosi – militante sociale, politico e scrittore – a partire dallo scritto “Povertà” che è stato la base dell’intervista per il documentario “La cura” e sarà pubblicato sul sito diAnimazione sociale”. Dialogheranno con lui Maso Notarianni, Cecilia Strada e le persone presenti.

La vignetta qui sopra è di Giuliano Spagnul.

Redazione
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