Prede e predestinate

di Giorgio Quartana

Nel bolognese un convegno e un progetto contro i matrimoni forzati:  perché le donne non siano più prede… e predestinate a lasciare la casa del marito solo quando muoiono. Testimonianze da Inghilterra, Germania, Turchia… C’è anche una piccola sorpresa: Giuseppe Verdi schierato per i diritti e per l’amore.  

E’ divertente (ma anche terribile per ignoranza e malafede) quello che Nursel Kilic racconta al convegno «Onore e destino: presentazione di linee guida per operatrici e operatori» il 28 febbraio a Bologna. «A un incontro internazionale sui matrimoni precoci nella delegazione turca c’erano pure 5 generali. Uno di loro interviene e spiega che non si possono paragonare le ragazze delle varie regioni perché “nella parte occidentale della Turchia c’è più sole e le ragazze maturano prima”. Non facciamo in tempo a pensare perché esistono idioti simili che anche una ministra della delegazione ribadisce il concetto».

Poco prima la sala era stata scossa da un brivido quando Meena Patel aveva ricordato che lei, come molte donne di origine asiatica, era stata cresciuta così: «una volta sposata non potrai lasciare quella casa se non da morta». Lei è una di quelle che si è ribellato a quell’antica legge-minaccia e l’ha sconfitta.

Offrendo un prezioso opuscolo (56 pagine) con «Linee guida per la prevenzione e il contrasto ai matrimoni forzati» il 28 febbraio si conclude il progetto «Contrasto ai matrimoni forzati in Provincia di Bologna: agire sul locale con prospettiva internazionale» (http://www.tramaditerre.org/tdt/indices/index_271.html) realizzato da Trama di Terre e da ActionAid con il contributo della Fondazione Vodafone. In realtà il lavoro continua anche se, come si vedrà, si scontra con l’annoso problema dei pochi fondi e della sordità istituzionale (in questo caso non della Regione Emilia-Romagna che per ora si è mostrata attenta al tema).

«Izzat e kismet, Honour and Fate, Onore e destino» è il titolo dell’incontro che così si presenta: «In tutto il mondo, i diritti delle donne vengono violati, specialmente quando le donne rifiutano l’imposizione di regole e comportamenti ingiusti, non rispettosi della loro volontà. Una di queste violazioni riguarda il diritto delle donne a scegliere se, quando e con chi sposarsi: i matrimoni precoci e i matrimoni forzati imposti dalle famiglie infatti trovano profonde radici nelle disuguaglianze di genere, in quegli stereotipi e in quelle leggi che rispecchiano l’idea che la donna debba ricoprire un ruolo sociale tradizionale, subalterno e regolato da modelli patriarcali; infatti il persistere dell’esistenza di queste pratiche è connesso al consenso legato al controllo sociale sul corpo e sulle scelte sessuali delle donne. Molti Stati, per evitare la condanna internazionale rispetto al fenomeno delle spose bambine, hanno iniziato a introdurre nelle proprie legislazioni il divieto di celebrare matrimoni precoci, tuttavia i matrimoni forzati trovano ancora legittimazione culturale e giuridica presso vari popoli e nazioni. Anche in Italia bambine, adolescenti e giovani donne immigrate, spesso nate e cresciute nel nostro Paese, vedono troppo spesso violati i propri diritti da famiglie che scelgono di sottoporle a matrimoni precoci o forzati. Si tratta di casi che talvolta finiscono alla ribalta della cronaca nera, quando le giovani che tentano di sottrarsi vengono punite con violenze fisiche oppure uccise. O quando tentano il suicidio. Tuttavia, in molti altri casi le giovani semplicemente spariscono da scuola o dall’Italia, senza che la loro richiesta di aiuto sia stata accolta o senza aver trovato il coraggio di chiedere aiuto. Non esistono dati certi o ricerche in merito salvo quella condotta da Trama di terre (e redatta da Daniela Danna) nel 2009 in Emilia-Romagna dalla quale emergevano 33 casi di matrimoni forzati (in 3 casi le vittime erano uomini): una sintesi è nelle linee guida citate ma anche sul sito di Trama di terre.

L’obiettivo del progetto «CONTRASTO AI MATRIMONI FORZATI IN PROVINCIA DI BOLOGNA» – promosso da Trama di Terre in collaborazione con Actionaid Italia e finanziato dalla Fondazione Vodafone – è dare un contributo per una migliore comprensione del fenomeno dei matrimoni forzati e fornire a operatori e operatrici indicazioni e strumenti utili a garantire l’effettiva protezione di donne e bambine, con la consapevolezza di essere solo all’inizio di un percorso complesso, contraddittorio e poco o per nulla esplorato in Italia».

Programma ambizioso ma realizzato. Chi ha partecipato alla densa giornata di lavoro sa che la strada è lunga ma i primi passi sono stati fatti. Fondamentale il contributo delle ospiti straniere – Meena Patel dell’associazione Southall Black Sisters (di Londra), Nursel Kilic di Femmes Solidaires, International Free Women Alliance (di Parigi), Corinna Ter-Nedden del Centro Papatya (di Berlino) – a confronto nel pomeriggio con Tiziana Dal Pra di Trama di Terre (donne native e migranti che da 17 anni lavorano inseme a Imola e che dal 2009 sono impegnate anche sul tema dei matrimoni forzati) e coordinate da Cristina Cattafesta del Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afghane).

Si parte al mattino con oltre 100 persone in sala (solo una dozzina gli uomini). Non troppo rituali i saluti di Teresa Marzocchi, assessora alle Politiche Sociali della Regione Emilia-Romagna.

Beatrice Costa, capo dipartimento programmi ActionAid Italia, racconta con le slides che ogni anno nel mondo almeno 14 milioni di ragazze sono vittime di matrimoni forzati. ActionAid interviene in 12 Paesi (7 africani e 5 asiatici).

Per niente banale l’intervento di Antonio Bernardi della Fondazione Vodafone e rallegra perché, come purtroppo sa chi frequenta questi convegni, è frequente ascoltare frasi roboanti quanto vaghe invece di parole consapevoli. Qualche ingenuo si chiederà come mai le Fondazioni finanzino questi progetti se poi se ne interessano così poco; i motivi si possono brutalmente riassumere in “immagine” e “scaricare tasse”. Ma evidentemente questo non è uno di quei casi.

Di leggi si inizia a parlare con Barbara Spinelli, avvocata, consulente legale del centro anti-violenza di Trama di Terre. Sono assai diversi gli approcci culturali e legislativi. Su un punto l’accordo internazionale è totale: se manca il consenso è violenza. Non sempre è facile capire la differenza tra un matrimonio combinato (dunque con i due sposi in qualche modo coinvolti) e uno forzato (con ragazze che magari vedono il marito solo il giorno delle nozze). Spinelli rimanda all’opuscolo dove sono spiegati in dettaglio gli accordi internazionali a partire dalla Cedaw – ovvero Convention for the Elimination of All Forms of Discrimination against Women – ma anche della risoluzione Onu del 2013 e della Convenzione di Istanbul che gli Stati firmatari (fra cui l’Italia) hanno l’obbligo di applicare. Più facile contrastare i matrimoni forzati in Paesi dove esistono già sistemi, reti e leggi contro la violenza sessista…. di conseguenza meno facile in Italia dove purtroppo si è in un eterno (e sospetto) ritardo.

Barbara Spinelli si dilunga fra i diversi approcci europei (in Danimarca a esempio rispetto a Svezia e Inghilterra) ma poi ci riporta in Italia spiegando come sia pericoloso il mix di ignoranza, burocrazia e ritardi nel nostro Paese. Non è facile rendere comprensibili le complicazioni – e contraddizioni – delle leggi ma Spinelli ha fatto centro.
Strano il titolo – «Altro modo non c’è di prendere l’amore» – della appassionata relazione di Tiziana Dal Pra, presidentessa di Tdt cioè Trama di Terre. Solo sfogliando le «linee guida» si trova questa frase di M. (17 anni) una donna aiutata da Tdt e vale citarla. «Le donne pakistane, come la generazione di mia mamma, pur non avendo scelto il marito sono contente di essere sposate e di fare mille bambini. Questo è quello che vedo. Noi di questa generazione pensiamo invece di dover scegliere noi il marito e quindi scappiamo via, altro modo non c’è di prendere l’amore».

Finora si è parlato di leggi e teorie, adesso ci si cala – e molti occhi in sala iniziano a luccicare – nelle pratiche e dunque si parla di persone concrete, di giovani donne in cammino verso una non facile libertà. Attraverso un servizio radiofonico di «Inviato speciale» (programma di Radiouno Rai) si ascolta la storia a lieto fine di una ragazza a lungo ospitata da Trama di Terre. Altre vicende arrivano dalla viva voce di Dal Pra. Fra i successi, il dolore dei sentimenti lacerati e gli errori inevitabili qual è il filo della “trama”? La dignità delle donne. «Non crediamo al relativismo culturale neutro» e quanto all’occidentalizzazione è una frase vuota di senso se non altro perché ignora che «in molti Paesi non occidentali le donne da sempre lottano, rischiano, spesso muoiono per i diritti di tutte».

Difficile riassumere le storie così fuori dagli stereotipi. Sorprende anche che in un caso al commissariato bolognese (il quarto chiamato in causa perché i primi 3 si sono “tirati fuori”) di fronte a un’emergenza i poliziotti mostrino di aver capito quello che gli operatori dei servizi sociali fanno finta di non vedere. La fragilità dei sentimenti non sempre si accorda con i princìpi e con i diritti. Per tacere dei soldi che non si trovano per progetti di questo tipo. Eppure è ottimista Tiziana Dal Pra: non sempre il destino è scritto, non sempre la donna è condannata da un’idea violenta e assassina dell’onore.

La mattinata si chiude con Tiziana Zannini, dirigente ufficio Affari generali e sociali del dipartimento Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. Spiace dirlo ma è soprattutto “aria fritta”. Non è un problema della Zannini: è evidente che chiunque rappresenti qualcuno dei governi italiani così “disattenti” (a dir poco) su questi temi o viene a raccontar balle oppure cucina il nulla con qualche spezia. Nel breve intervallo del convegno una coppia commentava così: «dovrebbero essere obbligati i rappresentanti istituzionali a indicare un sito o un documento dove spiegano quali soldi sono stati spesi e come. Non se ne può più di sentire di grandi cifre stanziate per poi scoprire, magari anni dopo, che non sono state spese oppure che all’ultimo minuto vengono dirottate altrove».
Il dibattito che chiude la mattinata ribadisce fra l’altro che il «piano» contro la violenza sessista del governo (meglio: dei vari governi che si rincorrono) è una scatola vuota, un castello senza fondamenta. E invece a una domanda precisa su cosa fa la Regione Emilia-Romagna, Andrea Fachini risponde con precisione. Chi vuole saperne di più trova sul sito della Rer la s
cheda di sintesi del programma regionale – 11 marzo 2013 – di interventi per la prevenzione delle Mgf (cioè le mutilazioni genitali femminili; questo era l’ambito di finanziamento nel quale poi ci si è mossi sui matrimoni forzati) stipulato d’intesa con il dipartimento Pari Opportunità.

Pomeriggio vivacissimo. Prima di moderare il dibattito Cristina Cattafesta racconta con passione del Cisda (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afgane) in particolare rispetto ai matrimoni forzati. Più in generale la «situazione è sempre drammatica visto che Karzai si sta accordando con i Talebani ma qualcosa si riesca a ottenere. Di recente è stata bocciata una legge che reintroduceva la lapidazione. Ma la situazione resta così orribile che molte ragazze preferiscono darsi fuoco che sposarsi in un Paese dove la violenza contro le donne è regola quotidiana».

Apre il giro di interventi la battagliera Meena Patel che mostra anche il video di una recente azione (del tutto improvvisata) contro i rastrellamenti “etnici” a Londra. Non c’entra con il tema di oggi ma è per far capire come in Inghilterra la situazione si stia deteriorando con tanto di ricompense statali a chi denuncia i clandestini.

«Nel Regno Unito la maggioranza dei casi di matrimonio forzato riguarda ragazze e bambine; non si conoscono le reali proporzioni del problema, ma nel 2012 l’Unità che se ne occupa ha trattato 1485 casi; di questi, l 82% riguardava donne e bambine così ripartite per fasce d età: il 13% minore di 15 anni, il 22% sui 16-17 anni, il 30% fra i 18 e i 21 e il 19% fra i 22 e i 25. Sono numerosi i gruppi etnici minoritari in cui si praticano abitualmente matrimonio forzati: il maggior numero dei casi e anche di quelli trattati da noi riguardano persone originarie dell’Asia meridionale o del Medioriente» spiega Patel.

Nel 2000 – racconta – l’allora ministro degli Interni Mike O Brien affermò, a proposito di matrimoni forzati: «la sensibilità multiculturale non può essere un pretesto per la cecità morale». Fu approvato un nuovo approccio al problema, basato sul rispetto dei diritti umani. «Da allora sono state introdotte diverse misure significative finalizzate a rafforzare l’efficacia nel contrasto ai matrimoni forzati: fra queste il miglioramento dell’azione dell’Unità governativa contro il matrimonio forzato per sostenere all’estero le persone con cittadinanza inglese o doppia».

Nel 2005, il governo ha aperto una consultazione sulla proposta di “penalizzare” il matrimonio forzato. Grazie all’azione delle Black Sisters e di molte altre ong femminili, la scelta finale è stata di «non introdurre una fattispecie penale specifica, che sarebbe stata controproducente, poiché avrebbe dissuaso le vittime in situazione di vulnerabilità dal denunciare, con l’effetto di occultare maggiormente il problema». Invece «ampio sostegno dell’opinione pubblica nel 2007 alla legge sulla protezione dal matrimonio forzato in sede civilistica. Consente alle vittime, e anche alle terze parti che le rappresentano, di ottenere ordini di protezione dal matrimonio forzato (Forced Marriage Protection Order, Fmpo) e ha introdotto linee-guida vincolanti, per sancire esplicitamente il principio che in questi casi le parti non debbono ricorrere alla mediazione». Nel 2011 però la nuova coalizione di governo ha annunciato di voler introdurre il reato di matrimonio forzato. «La penalizzazione è questione controversa nel Regno Unito: da un lato, si sostiene l’importanza di dare un messaggio forte e chiaro di condanna del matrimonio forzato come una pratica ripugnante e moralmente sbagliata. Ma questo messaggio come sarebbe accolto? E le agenzie statali (polizia etc) risponderebbero adeguatamente, garantendo condizioni di sicurezza? Le ragioni della nostra opposizione alla penalizzazione si fondano su 33 anni d’esperienza sul campo con donne e bambine soggette a violenza e abuso, a cominciare dal matrimonio forzato e da altre pratiche lesive all’interno della famiglia. Molte giovani donne con cui abbiamo parlato hanno ribadito con forza di non voler avviare un azione penale contro la propria famiglia, che continuano ad amare e rispettare, anche se non sono d’accordo sulle decisioni prese per il loro futuro. Sperano che col tempo i genitori giungeranno ad accettare le loro scelte. Noi pensiamo che penalizzare il reato di matrimonio forzato sarebbe un messaggio forte e giusto rivolto ai gruppi etnici minoritari: ma avrebbe ricadute negative, in quanto dissuaderebbe le vittime dal denunciare, con l’effetto di rendere il problema ancor più sommerso e invisibile».

Prima di dare la parola a Corinna Ter-Nedden (del centro tedesco Papatya) Cristina Cattafesta ricorda che anche in Italia la strada è stata lunga e difficile: prima della rivolta di Franca Viola era normale in molte zone che le donne rapite e stuprate “perdonassero” (o fossero “perdonate” paradossalmente) con l’obbligo di un matrimonio “riparatore”.

Corinna Ter-Nedden riassume che da circa 15 anni la situazione delle donne migranti è al centro dell’attenzione nel dibattito tedesco sull’integrazione. «Spesso i casi di violenza d ‘onore, di matrimonio forzato e abbandono vengono considerati indicatori evidenti di una mancata integrazione oppure considerati in modo banale come episodi isolati e marginali che possono verificarsi in qualunque contesto di famiglie problematiche. Che il matrimonio forzato non fosse un problema marginale era ancora da dimostrare». Ma un’indagine che ha coinvolto i consultori di tutto il Paese ha fatto emergere 3400 casi nel 2008, molti di più di quanto le autorità non si aspettassero. «Noi di Papatya siamo certe che il fenomeno sia ancora largamente sommerso». Nel 2011 la Germania ha introdotto modifiche legislative in materia di matrimonio forzato, trasformandolo in reato penale. I diritti delle bambine e delle ragazze nate in Germania sono stati rafforzati, mentre indebolita risulta la posizione delle donne immigrate col matrimonio. «Nei dibattiti si fa distinzione tra matrimonio forzato e combinato. A Papatya ci stiamo orientando verso una prospettiva sempre più critica: quello combinato è accettabile unicamente se i partner hanno la possibilità di conoscersi prima e non semplicemente incontrarsi una volta sola alla presenza dell’intera famiglia, se possono rifiutarsi di contrarre matrimonio e se è garantita la possibilità del divorzio; e comunque i matrimoni combinati non sono mai accettabili per le persone minorenni». Nel 2004 la Corte suprema tedesca (il corrispettivo della Corte Costituzionale) ha emanato una sentenza che fissa dei limiti al «relativismo culturale», affermando che la differenza di standard morali motivata da una diversa origine etnica non può considerarsi circostanza attenuante.

«Noi di Papatya abbiamo imparato molto dai nostri errori. All’inizio, nel 1986, pensavamo che la mediazione dei conflitti familiari fosse uno strumento positivo per risolvere le controversie, ma ben presto abbiamo realizzato che, sotto la pressione della situazione, i genitori facevano promesse che non volevano o non potevano mantenere. Oggi continuiamo a incoraggiare i contatti fra le ragazze e le loro famiglie, ma senza farci illusioni. Lo facciamo perché siamo tenute per legge a farlo in caso di minorenni, ma anche perché esiste una sorta di ambivalenza e la maggior parte delle ragazze spera, con la fuga, di riuscire a far cambiare idea alla famiglia. Dal modello della mediazione siamo approdate a un modello di confronto, insieme allo staff che prende le parti delle ragazze». Sul sito di Trama di Terre saranno disponibili schede sulla legislazione tedesca rispetto ai matrimoni forzati e sull’esperienza di Papatya.

Il terzo intervento è di una donna kurda, Nursel Kilic delle «Femmes Solidaires» di Parigi.

«Il matrimonio forzato è una piaga che colpisce le ragazze e le bambine. Voglio rendere omaggio alle centinaia di vittime innocenti dei “costumi” dei clan che ordinano di ucciderle qualora rifiutino di obbedire alle leggi ancestrali che le forzano a sposarsi».

Kilic cita molti dati, ripresi da Unicef e Consiglio dei diritti umani dell’Onu. Nel 2012, nel 55% dei matrimoni combinati, le donne non hanno incontrato il marito fino alla notte del matrimonio. In Asia del Sud: il 48% delle giovani è stata obbligata a sposarsi prima dei 18 anni. In Bangladesh: il 27,3% prima dei 15 anni. In Africa: il 42% prima dei 18 anni. In Kirghizstan il 21,2% e in Kazakhstan il 14,4% delle ragazze è costretta a sposarsi prima dei 18 anni. Spesso in India o Afganistan sono costrette a portare una cintura di castità.

«Il matrimonio forzato è un incitamento al suicidio, sempre più diffuso tra le numerose giovani donne, in particolare nel Medio Oriente. A Batman per esempio, città del Kurdistan turco, centinaia se non migliaia di donne ogni anno mettono fine alla loro vita in seguito alle violenze cui sono sottoposte quotidianamente. Per la stessa ragione donne iraniane si immolano. Secondo le statistiche del 2012 del ministero degli Interni turco in questi ultimi tre anni 134.629 minorenni sono stati/e vittime di matrimonio forzato di cui 5.763 ragazzi e 128.866 ragazze».

Nel 2006 le Nazioni Unite – ricorda Kilic – hanno definito il matrimonio forzato come una forma di schiavitù moderna e dal 2002 l’Unione Europea ha emesso più di 11 direttive su questo tema. Eppure «questa pratica è tollerata in Turchia, nonostante la ratifica di diverse convenzioni delle Nazioni Unite e l’adozione di una legge che stabilisce a 17 anni l’età legale per sposarsi». Secondo una ricerca delle Nazioni Unite la Turchia è settima in questa brutta classifica. «Queste pratiche sono figlie di una mentalità arcaica e di un sistema basato sul dominio maschile, che oggi chiamiamo neo-liberismo. Questo sistema costringe le donne a sottomettersi a leggi non scritte. Il neoliberismo è un sistema che si basa su valori svuotati del loro senso come la libertà, l’uguaglianza, e la democrazia».

Kilic racconta del lavoro con le donne curde. Uno degli slogan era «Il nostro onore è la nostra libertà» per sensibilizzare sulla piaga dei crimini detti d’onore. Dall’8 marzo 2011 è cominciata una campagna «contro una realtà ancora sconosciuta alle autorità e alle leggi internazionali: il femminicidio».

Nel caso dei matrimoni forzati è importante sensibilizzare in primo luogo le famiglie, conducendo una campagna di educazione popolare non sessista. «Noi abbiamo creato “case della vita”, preferiamo chiamarle così che rifugi, perché le donne hanno bisogno di recuperare un’intera vita persa per vincoli ai quali sono state costrette senza il loro consenso». Un riferimento al dramma delle donne in Siria, «oppresse sia dal regime di Bachar el Assad, sia dai jihadisti».

«Dobbiamo impegnarci – conclude Kilic – sapendo che noi non saremo libere senza la liberazione delle donne del mondo intero».

Tirare i fili del convegno spetterebbe alle “padrone di casa” e dunque a Tiziana Dal Pra che però preferisce tornare sui nodi aperti e sul futuro. La discussione si accende e in parte si frammenta (anche in discorsi più teorici o tecnici) ma verso la fine il dramma torna in primo piano. Una ragazza rom racconta fra le lacrime la sua storia. Lei con grande fatica si è sottratta, a 13 anni, a un matrimonio forzato. Ma è stata una vicenda durissima. Oggi continua la lotta per tutte le altre ragazze scontrandosi anche con il razzismo della società italiana. «E’ il modo più drammatico ma più giusto – così sintetizza Cristina Cattafesta – per ricordarci che dobbiamo rimetterci a lavorare da domattina».

 

Curiosità finale. Chiacchierando nell’intervallo si scopre che se mai i programmi di lotta ai matrimoni forzati dovessero avere un inno o una colonna sonora… ci si potrebbe riallacciare a una frase dell’opera «Teresa Miller» – libretto di Salvatore Cammarano e musica di Giuseppe Verdi – nel lontanissimo (o forse no) 1849. Eccone un passaggio: «sacra la scelta è d’un consorte / esser appieno libera deve / nodo che scioglier può solo la morte / ma dalla forza legge riceve. / Non son tiranno / padre son io / Non si comanda de’ figli al cor. / In terra un padre somiglia a Dio / per la bontade non per il rigor». Buona base di partenza ma i rapper di oggi potranno far meglio, se si impegnano.   

I materiali del convegno e molte altre schede o informazioni utili sono – o presto saranno – disponibili sul sito di Tdt: www.tramaditerra.org

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • Roberta mi prega di mettere questo suo commento, obbedisco. (db)

    articolo bellissimo, con solo due pecche:
    1. dà poco risalto alle SBS, cioè Southall Black Sister’s, che invece sono una miniera d’oro e fanno un discorso ben più complesso;
    2. la citazione verdiana contiene molti errori; ecco il testo esatto:
    «Sacra la scelta è d’un consorte,
    esser appieno libera deve:
    nodo che sciorre [da “sciogliere”] sol può la morte
    mal dalla forza legge riceve [ovvero: “è male che sia soggetto alla legge della forza”].
    Non son tiranno, padre son io:
    non si comanda de’ figli al cor!
    In terra un padre somiglia Iddio
    per la bontade, non perl rigor»

  • vi segnalo che Giorgio Quartana sullo stesso tema ha scritto anche «Spose senza volerlo: succede anche in Italia». Lo trovate su «Corriere delle migrazioni»

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