Primo libro su Sandino pubblicato in Nicaragua

di Bái Qiú’ē

descubren a Sandino leyendo un libro destinado a destruirlo: Sandino o el calvario de Las Segovias. […] Leyendo estos textos Fonseca y sus compañeros intuyen la existencia, detrás del bandolero, del «verdadero Sandino», y empiezan a buscarlo (Giulio Girardi, 1986).

In un módulo del Centro Comercial Managua, forse il più antico del Nicaragua, c’è una libreria intitolata a Rigoberto López Pérez, il ragazzo che giustiziò il primo Somoza a León nell’ormai lontano settembre del 1956. Fondata dallo storico ed ex ambasciatore negli anni Ottanta Aldo Díaz Lacayo. È una delle poche ancora esistenti nella capitale, forse l’unica se si fa eccezione per quella di Hispamérica, dietro la Universidad Centroamericana, che per sopravvivere vende soprattutto telefonini e altri prodotti tecnologici simili. Resta comunque, per i più incalliti lettori, la rivendita di libri usati al mercato Roberto Huembes. Rispetto agli anni Ottanta del secolo scorso, ormai quasi nessuno legge neppure i quotidiani, né quando ancora circolavano in forma cartacea né nei siti web. Per cui, la regressione culturale e ideologica è più che evidente, in tutte le fasce d’età. E peggiora costantemente, quanto meno a livello popolare. Ma questa è un’altra storia.

Abbiamo perso il conto dei libri acquistati nel corso degli anni in questa storica libreria e pure delle lunghe chiacchierate a ruota libera con «Aldila», nel suo studio sul retro dove è sempre intento a scrivere o a leggere. Però, interrompe volentieri i suoi studi per ricevere i compagni internazionalisti, dondolandosi sulla tradizionale abuelita, la sedia a dondolo tipica di Niquinohomo. Sorride ogni volta che, sapendo della nostra nazionalità italiana, ci ricorda la sua sigla (che è pure la sua mail), mettendo l’accento sull’ultima lettera. Anche la casa editrice da lui fondata ha lo stesso nome. Forse con un leggero tocco scaramantico, ma di certo con un riferimento al «Siempre más allá» con cui Sandino concludeva tutta la propria corrispondenza a partire dal 1933, dopo la fuga dei marines con la coda fra le gambe.

Non conosciamo esattamente la sua età, ma grosso modo dovrebbe avere 85 anni. Giorno più giorno meno, poiché una volta ci disse: «I miei primi 43 anni li ho vissuti tutti, dal primo all’ultimo, sotto il somozismo». E, sorridendo, aggiunse: «È facile fare lo storico parlando di fatti che si sono vissuti sulla propria pelle, non trovi chele?» Particolari ignoti o poco conosciuti della storia più o meno recente del Nicaragua li dobbiamo a lui. Vera enciclopedia vivente, un inestimabile patrimonio di sapere. Le ultime volte che lo abbiamo incontrato, ci è parso sempre più smagrito. Ma la carica era immutata.

Ricordiamo la nostra meraviglia quando, in una giornata piovosa e buia di una delle tante stagioni delle piogge che anno dopo anno si susseguono, bevendo un caffè sotto il porticato esterno della biblioteca ci raccontò che verso la fine del lontano 1955, dopo il diploma e mentre studiava in Messico, un esule politico gli propose di giustiziare Tacho Somoza. Nell’aprile dell’anno prima, un ennesimo tentativo era fallito e una ventina di cospiratori civili e militari erano stati assassinati dopo la cattura. Ufficialmente furono dichiarati morti in combattimento, proprio come nel 1953 accadde ai guerriglieri del «Movimiento 26 de Julio» con l’assalto alla caserma Moncada di Santiago de Cuba.

«Ero molto giovane, allora. Già da un paio di anni, forse tre, avevo iniziato a occuparmi di politica e, come tutti i giovani impegnati, sognavo di fare qualcosa per il mio Paese». Il progetto che prevedeva il suo coinvolgimento non fu messo in opera: abortì, secondo il termine usato da Aldo. Lo realizzò Rigoberto un anno dopo con l’idea di «cercare di essere colui che dà l’avvio all’inizio della fine di questa tirannia», come scrisse nell’ultima lettera alla madre.

Aldo sospettava che l’idea del 1955 fosse stata sospesa in quanto nota alla dittatura grazie a un infiltrato, poiché quando rientrò a Managua nel febbraio del 1956 per recarsi alla casa dei genitori nel barrio San Sebastián, fu subito arrestato e torturato nelle segrete della Casa Presidencial. Dopo alcuni mesi, quattro o cinque non ricordiamo esattamente, fu scortato all’aeroporto «Las Mercedes» ed espulso in El Salvador. Dove entrò in contatto con gli esiliati nicaraguensi che si opponevano a Tacho. In quello stesso periodo pure Rigoberto viveva a San Salvador pubblicando poesie e articoli su un quotidiano della capitale, il Diario Latino (attualmente Diario CoLatino), ma Aldo non ci ha mai voluto dire se conobbe personalmente El Chino, come Rigoberto era soprannominato.

Ci raccontò però che nel 1958, con il grado di tenente, entrò nel piccolo gruppo guerrigliero fondato dall’anziano generale Ramón Raudales che aveva combattuto con Sandino fin dal 1927: nel giro di un mese, con facilità, fra settembre e ottobre la Guardia Nacional riuscì a distruggerlo. Il 24 giugno dell’anno successivo, sei mesi dopo il trionfo della rivoluzione cubana, partecipò alla battaglia di El Chaparral (in Honduras), nella quale morirono nove combattenti e rimase gravemente ferito al polmone destro Carlos Fonseca (tanto che inizialmente lo si credeva morto), assieme ad altri quattordici giovani. Questo nuovo gruppo guerrigliero, integrato da alcuni cubani, fu organizzato a La Habana direttamente dal comandante Ernesto Guevara e si denominò «Movimiento 21 de Septiembre», il giorno in cui Rigoberto sparò al primo Somoza. Il Frente Sandinista non esisteva ancora, e Aldo ci disse che era l’epoca nella quale si faceva opposizione, anche armata, ma non rivoluzione.

«Sai, chele, all’epoca in cui mi proposero di uccidere Tacho, in Nicaragua poco o nulla si sapeva di Sandino. Avevano fatto di tutto per cancellare qualunque ricordo del muchacho de Niquinohomo. Per venti anni lo avevano sequestrato e falsificato. Eppure, non ti so dire il perché, la maggior parte dei movimenti politici di sinistra erano diretti da persone che avevano combattuto con lui. Chi ne parlava, lo faceva come semplice indicazione storica, senza alcun riferimento al suo pensiero rivoluzionario. Fu Gregorio Selser, il giornalista argentino, a pubblicare proprio nel 1955 il suo libro Sandino, general de hombres libres. Un compagno esule in Honduras che era stato a Buenos Aires, me lo fece leggere e da allora abbiamo iniziato a “recuperarlo”. Credo di essere stato uno dei primi a “riscoprire” la sua lotta antimperialista, la storia dell’Ejército Defensor de la Soberanía Nacional e soprattutto le sue idee. Ma fu Carlitos Fonseca a studiare a fondo il suo pensiero, trasformandolo nell’ideologia del Frente: Sandino non era solo un soldato, un capo guerrigliero, ma anche un pensatore. Altro che il chapiollo presentato da Tacho. Sai, proprio adesso sto preparando una nuova edizione di quel vecchio libro, che farò stampare a breve». Le ottocento pagine le pubblicò nel febbraio del 2004, settantesimo anniversario dell’assassinio a tradimento dell’eroe di Las Segovias.

Nel 1960 è pubblicato a Cuba il manuale del comandante Guevara, nella cui introduzione scrisse: « La guerra di guerriglia è stata utilizzata un numero incalcolabile di volte nel corso della storia, in condizioni diverse e con fini diversi. […] In America si è fatto ricorso alla guerra di guerriglia in diverse occasioni. Si può citare l’esempio di César Augusto Sandino, in lotta contro le forze di spedizione yankee in Nicaragua». Nel 1961 Fonseca e altri fondarono il Frente di liberación nacional (FLN), che solo l’anno successivo divenne “sandinista” (FSLN).

Un giorno, mentre stavamo bighellonando tra le scaffalature ricolme di libri nuovi e soprattutto vecchi alla ricerca di qualcosa di interessante, ci vide e uscì dallo studio, abbracciandoci alla maniera sandinista. Discutendo della situazione politica del momento e, scherzando sull’allora presidente Churruco Bolaños e sul suo insulso slogan che compariva in centinaia di cartelloni enormi in tutto il paese «Sí, se puede» che ci ricordava il napoletano «Se po’ fa’», ci muovevamo all’interno della libreria, fermandoci di tanto in tanto per sfogliare un libro. Ci capitò l’occhio su uno, con oltre cinquecento pagine ormai quasi ingiallite dal tempo. L’autore era nientemeno che A. Somoza: El verdadero Sandino o el calvario de Las Segovias. Tutto un programma, quel disegno sulla copertina. In alto, un machete insanguinato. Il rosso sangue colava in basso e andava a coprire buona parte di una carta geografica del Nicaragua. Da quella immagine non era difficile comprenderne il contenuto.

La data della prima pubblicazione era il 1936, due anni dopo l’assassinio del Generale degli Uomini Liberi. Però quella che stavamo sfogliando era una riedizione del 1976, per quanto esattamente uguale, fatta ristampare dal figlio Tachito con uno scopo ben preciso, dichiarato nel prologo: «Poco si può aggiungere alla realtà, cupa e tenebrosa, che questa documentazione getta sullo pseudo-eroe. Essa chiarisce la falsa immagine che una propaganda fraudolenta e malintenzionata, scatenata da elementi sovversivi e nemici della nostra Patria, ha cercato di presentare al mondo nel caso di Sandino. Costui non fu altro che un volgare bandolero, che per lunghi anni devastò con i suoi accoliti la fertile regione settentrionale del Nicaragua».

Dalla sua pubblicazione nel 1936 fino alla fine degli anni Sessanta, El verdadero Sandino o el calvario de Las Segovias, fu forse l’unica opera disponibile in Nicaragua che trattasse del sandinismo, per quanto si tratti di una raccolta per lo più fantasiosa di atrocità attribuite al Generale degli Uomini Liberi e ai suoi luogotenenti. La copertina originaria, ci informò Aldo, rappresentava un corte de chaleco, ossia il taglio della testa dei nemici, mediante un machete. La barbarie così esibita è una evidente messa in scena dello scopo dell’opera: rimuovere definitivamente Sandino dalla storia nazionale, cancellandone la memoria. «Questo era l’immaginario collettivo dei nicaraguensi, fino alla fine degli anni Sessanta, giustificandone l’eliminazione fisica e storica da parte della Guardia Nazionale».

La narrazione è integrata da numerosi documenti dell’Ejército Defensor de la Soberanía Nacional e con un centinaio di fotografie dell’epoca. I personaggi principali sono ovviamente Sandino con il suo Pequeño Ejército Loco, Tacho Somoza con la Guardia Nacional e i marines statunitensi. «E iniziò una campagna propagandistica, ben orchestrata ed esagerata, che in Nicaragua non ebbe risonanza alcuna, poiché tutti eravamo convinti che, beh, eravamo tutti convinti che l’eroe da romanzo fosse semplicemente un individuo senza criteri propri, a capo da varie bande di personaggi provenienti da diversi paesi del mondo, i quali si preoccupavano non di combattere lo straniero invasore come volevano far credere fuori dai nostri confini, ma solo dei saccheggi, degli incendi e degli omicidi, in modo spietato e brutale», aveva scritto El autor come prefazione rivolta al popolo del Nicaragua, presentando la propria ricostruzione come la vera e autentica storia di quel periodo. «Imparziale» è il termine usato.

«Chele, non pensare che Tacho sia davvero l’autore. ¡Figurense!, a malapena sapeva leggere e scrivere. Dei giornali ese cabrón guardava solo le foto, soprattutto le sue». Ci disse il nome del vero autore, ma lo abbiamo dimenticato. Ricordiamo, però, che era un graduato della Guardia Nacional.

«Rispetto all’edizione originaria, in questo c’è un prologo del generale Francisco Mendieta… quello del Zumen».

Il Centro Commerciale Zumen, ci informò, fu fondato nel 1978 da due generali somozisti: Zúñiga e Mendieta, appunto. «Purtroppo qui a Managua esistono ancora troppi ricordi della dittatura: la Colonia Salvadorita, moglie di Tacho; il barrio René Schick, presidente fantoccio; la zona residenziale 5 de Septiembre, giorno della nascita di Tachito; il barrio Largaespada, sindaco di Managua; il barrio Campo Bruce, un pilota dell’aviazione gringa nel periodo di Sandino; la calle 27 de Mayo, giorno del golpe di Tacho nel 1936…» Per non parlare del più recente barrio 3-80 dopo la rotonda del Periodista in direzione del Siete Sur. Era il numero di matricola del colonnello Enrique Bermúdez, il capo militare della contra, quando era allievo dei marines nella famigerata School of Americas di Panama.

«Se è per questo, mi pare che circolino ancora alcuni nostalgici», ci venne da dire, aggiungendo un aneddoto personale: «Parecchi anni fa, forse era l’87 o l’88, fermai un taxi e quando dissi che mi doveva portare alla sede della Juventud Sandinista a pochi metri dalla casa di Daniel, il taxista mi guardò storto e mi disse due sole parole: “Soy somocista”. Se ne andò lasciandomi come un ciula sul marciapiede». Non ricordiamo con esattezza come traducemmo quella milanesata, probabilmente con dundo, però ridemmo su quella piccola ma indicativa dis-avventura e riprendemmo a parlare del libro e della storia.

Tacho aspirava alla presidenza, ma non poteva partecipare alle elezioni poiché la Costituzione allora vigente lo impediva, in quanto direttore della Guardia Nacional. All’interno del parlamento, allora monopolizzato dai liberali e dai conservatori nonostante l’esistenza di vari partiti, si formò una sorta di coalizione bipartisan contro le pretese del generale. «Che faccia il militare, difenda i confini, tuteli l’ordine pubblico e lasci stare la politica», pare avesse detto un deputato, secondo il racconto di Aldo.

Quando il 27 maggio 1936, alla testa di una ribellione militare, Tacho diede avvio al golpe contro il debole e incapace presidente Juan Bautista Sacasa, fratello della moglie Salvadora e capo ufficiale delle forze armate, il Paese era scosso da numerose proteste di piazza e viveva una costante instabilità socio-economica. Il 6 giugno Sacasa presentò le dimissioni e il giorno successivo Tacho entrò gongolante nella Casa Presidencial. Il 9 giugno, i deputati legittimarono il golpe, nominando un fantoccio provvisorio alla presidenza della Repubblica.

In settembre uscì il “suo” libro, scritto sotto dettatura del Dipartimento di Stato Usa, come palese tentativo politico di crearsi una sorta di aureola in quanto salvatore della Patria, ma non poteva ancora candidarsi alla massima carica istituzionale. Così, del tutto pro-forma, in novembre si dimise dal comando della Guardia Nacional, mettendo un altro fantoccio sulla sua sedia. L’11 dicembre vinse trionfalmente le elezioni, con quasi l’80% delle preferenze. Il 1° gennaio 1937 entrò in carica come presidente, dando inizio alla dinastia che governò il Paese per 43 anni consecutivi, raramente interrotti dai classici fantocci sempre disponibili e sempre pronti all’uso.

Qualche lettore penserà alla nostra buona dose di follia masochistica, necessaria per leggere un libro simile. Non avrebbe tutti i torti, ma sapevamo che proprio da quelle pagine Selser e Fonseca avevano avviato la riscoperta degli scritti e delle idee del Generale degli Uomini Liberi. Lessero e studiarono quel libro su Sandino, scritto con l’intento di distruggerne la memoria storica, ricavandone invece la sua visione rivoluzionaria, come scrisse Girardi. Per cui, ci sentivamo in ottima compagnia.

Del resto, già nell’aprile del 1888 Friedrich Engels, parlando di uno scrittore di tendenze monarchico-legittimiste ed estremamente conservatrici, per non dire reazionarie, in una lettera alla scrittrice inglese Margaret Harkness scrisse: «Balzac […] ci dà nella Comèdie humaine un’eccellente storia realista della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che, dopo il 1815, si era ricostituita ed era ritornata a inalberare, nei limiti  delle sue possibilità, il vessillo della “vieille politesse française”». E aggiunse: «intorno a questo quadro centrale raggruppa una storia completa della società francese dalla quale io, perfino nelle particolarità economiche (a esempio la ridistribuzione della proprietà reale e personale dopo la Rivoluzione francese) ho imparato più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statisti di professione di questo periodo messi insieme».

Purtroppo, c’è sempre nella sinistra non solo italiana una fetta più o meno ampia di duri e puri, gli immacolati e illuminati propagandisti che definiscono traditore e venduto chiunque non pensi esattamente come loro, che si considerano l’avanguardia di quello che non c’è ancora o che non c’è più da tempo e, per principio (?!), rifiutano di confrontarsi con le idee diverse, con le critiche anche aspre e le analisi forse a volte sopra le righe, conoscendole solo per sentito dire o con una semplice quanto superficiale sniffata. Per cui, con quel tipico infantilismo così ben fustigato da Lenin un secolo fa, questi rappresentanti della vera e autentica sinistra, autoproclamantesi non pantofolaia né divanaia, riescono a utilizzare solamente slogan preconfezionati, stereotipati e riciclabili per ogni occasione, destinati a convincere i già convinti. Il classico vestito che in un modo o nell’altro si ricollega a un inguaribile complottismo, buono per tutte le stagioni e ormai logoro per quanto rattoppato giorno dopo giorno. La classe politica della sinistra perde costantemente di credibilità (e i giornalisti non fanno eccezione), scordando che le rose non sono borghesi e con ciò destinandosi inevitabilmente all’estinzione o, tutt’al più, alla semplice testimonianza di ciò che potrebbe essere ma non riuscirà a sbocciare proprio a causa di questa mentalità settaria e autoreferenziale. Seguire il primo che passa per la strada e fa il discorso apparentemente più rivoluzionario (?!) non è altro che una chiusura a riccio e conduce soltanto a leccarsi le nuove ferite che costantemente si producono.

«Ah, i puri!… Tutte le idee, tutti i partiti hanno di questi custodi della purità, isterici e fanatici, ragazzacci masturbatori o zitelloni inaciditi, che sono profondamente convinti di aver avuto la missione di propagandare il vero cristianesimo, o la vera repubblica, o il vero socialismo, e salvano ad ogni momento le animucce dai contatti peccaminosi, e schiacciano gli eretici sotto il peso della santa immacolata loro indignazione» (Antonio Gramsci, 11 marzo 1916).

Inutile continuare a mentire a sé stessi e agli altri: ricostituire una sinistra che abbia davvero la forza di essere alternativa al sistema (e non alternativa a sé stessa, come quella esistente oggi), passa anche, se non soprattutto, attraverso l’abbandono di antiche e rugginose chiusure mentali, con l’apertura verso tutto ciò che è diverso e a prima vista pare altro rispetto alla nostra incancrenita visione di un mondo diviso in bianco e nero. Smettendo di nascondere sotto il tappeto tutti i grigi che, volenti o nolenti, esistono e non possono essere ignorati. «Una cosa semplice, difficile a farsi» (Bertolt Brecht).

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