Processo Condor: ingiustizia è fatta

Sentenza discutibile: 8 ergastoli, ma anche 6 prosciolti e 19 assolti. A farla franca, tra gli altri, il torturatore Jorge Nestor Troccoli
di David Lifodi (*)

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La sentenza della III Corte di Assise di Roma, pronunciatasi sui 33 imputati responsabili del sequestro e della scomparsa di 23 cittadini di origine italiana nell’ambito del Plan Cóndor, il piano che tra gli anni ’70 e ’80 fu varato dai regimi militari del Cono Sur latinoamericano per assassinare gli oppositori politici, lascia molto amaro in bocca. Certo, ci sono state otto condanne all’ergastolo, ma anche 6 prosciolti, 19 assolti e, soprattutto, ad averla fatta franca c’è quel Jorge Nestor Troccoli il cui sguardo intimorisce ancora oggi i prigionieri di allora che riuscirono a rimanere in vita nei centri detenzione clandestini. Grande la delusione dei familiari delle vittime, espressa per tutti dal vicepresidente uruguayano Raúl Sendic, che aveva raggiunto l’Italia per sostenere moralmente i parenti dei desaparecidos. “È una vergogna”, ha ribadito Maria Victoria Moyano, i cui genitori furono entrambi desaparecidos in Argentina. Come ha scritto sul manifesto del 17 gennaio Andrea Oleandri, questo processo era importante perché, nonostante sia stato ignorato da gran parte della nostra stampa, individuava “un reato associativo transnazionale”, andando ad indagare proprio sul coordinamento criminale tra le diverse dittature americane.

Il coraggioso lavoro del pm Giancarlo Capaldo, che aveva avanzato la richiesta di 30 condanne all’ergastolo per ex alti vertici militari, ex ministri ed ex capi di stato responsabili di aver fatto scomparire o uccidere 6 italo-argentini, 4 italo-cileni e 13 italo-uruguayani, è stato fortemente ridimensionato. Se tra i condannati (in contumacia) figurano i sanguinari presidenti di Bolivia e Perù, rispettivamente Luis García Meza e Francisco Morales Bermúdez, insieme al boliviano Luis Arce Gomez (generale a capo dell’intelligence e poi ministro dell’Interno), Juan Carlos Blanco (ministro degli Esteri dell’Uruguay), il cileno Jeronimo Hernan Ramirez Ramirez, Valderrama Ahumada (colonnello cileno), Pedro Richter Prada (ex primo ministro del Perù) e German Luis Figueroa, (capo dei servizi segreti peruviani), sono molte le assoluzioni eccellenti. Quella che indigna maggiormente riguarda Nestor Troccoli, l’unico detenuto in Italia che, all’epoca, era alla guida del Fusna, l’unità dei fucilieri navali uruguayani. Tra i primi ad ammettere l’utilizzo di tecniche di tortura sui prigionieri, Troccoli è riuscito a mettersi in salvo ancora una volta, forse perché, come ha ripetuto più volte, non si è reso responsabile di alcuna uccisione. Fuggito in Italia dall’Uruguay, dove era riuscito a rifarsi una vita iscrivendosi come studente presso la Facoltà di Scienze sociali di Montevideo, prima di essere riconosciuto e smascherato dagli stessi studenti con un escrache, Troccoli si era rifugiato in provincia di Salerno, a Marina di Camerota, cittadina di cui era originario il nonno. Il piccolo passo avanti del comandante dei fucilieri navali, che nel 1998 scrisse il libro L’ira del Leviatano, in cui giustificava la repressione sostenendo che era l’unico modo per fermare l’avanzata del comunismo e al tempo stesso si scagionava giurando che si era limitato soltanto ad ubbidire agli ordini, è consistito soltanto nell’ammettere di essere un torturatore. Fino a pochi mesi fa, Troccoli negava anche quello, nonostante la testimone Beatriz Cristina Fynn Fernandez abbia più volte parlato dello sguardo di quell’uomo rimasto impresso nella sua memoria durante le sessioni di tortura.

“Il valore morale altissimo del processo”, così lo aveva definito il pm Capaldo, è stato purtroppo assai ridimensionato. Quale giustizia, ad esempio, per Juan José Montiglio, il giovane di origini italiane che faceva parte della scorta personale del presidente cileno Salvador Allende, ucciso dai militari agli ordini di Pinochet, o per Alfredo Moyano Santander, militante dei tupamaros uruguayani sequestrato in Argentina. La contraddizione della sentenza emessa dalla III Corte di Assise di Roma sta proprio qui: aver attribuito alcune condanne senza però preoccuparsi di fare realmente luce sulle finalità del Plan Cóndor, la cui responsabilità più grande fu quella di permettere ai servizi segreti dei paesi del Cono Sur dell’America latina non solo di scambiarsi informazioni sui “sovversivi”, ma di autoassegnarsi la licenza di uccidere viaggiando in lungo e in largo per l’intero continente. Organizzato da Manuel Contreras, il comandante della polizia politica pinochettista, il Plan Cóndor è stato processato anche in Italia a seguito delle denunce presentate dai familiari di otto cittadini di origine italiana desaparecidos. Perché, tra gli assolti, solo per fare qualche esempio, figurano torturatori quali l’uruguayano Pedro Antonio Mato Narbondo (tra gli uomini più spietati del centro di detenzione clandestina di Buenos Aires Automores Orletti), il peruviano Martín Martín Garay, o Daniel Aguirre, esponenti di primo piano dell’intelligence peruviana e cilena?

Giancarlo Maniga, avvocato dei familiari dei desaparecidos italiani, aveva dichiarato: “Questo processo ha tre punti fondamentali: fare giustizia: mantenere viva la memoria e contribuire affinché nei paesi dove si è sviluppato il Plan Cóndor si rafforzi la democrazia”. La sentenza della II Corte di Assise di Roma aiuta, piuttosto, a pensare che i torturatori possano farla franca, ma ciò che non muore è la memoria. Ni olvido ni perdón: le ragioni per ricordare tutti i desaparecidos né moriranno né saranno affossate da una pur discutibile sentenza.

(*) tratto da Peacelink – 18 gennaio 2017

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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