Processo Magherini, la sentenza che tutela la forza e non la vita

Un nuovo caso di mala giustizia dovuto a preconcetti sulla vittima. Le analogie con il caso Cucchi.

di Luigi Manconi e Valentina Calderone (*)

Ci siamo trovati a commentare, in questi anni, sentenze a conclusione di processi che hanno visto a giudizio uomini in divisa accusati di avere provocato, con il loro operato, la morte di alcune persone. È il caso di Riccardo Magherini, che nel 2014 venne fermato a Firenze da una pattuglia di carabinieri, assolti con formula piena dalla Corte di Cassazione tre giorni fa. Questi processi, tutti, hanno tratti sorprendentemente comuni e, verrebbe da dire, immutabili: la vittima è indagata nelle sue attività quotidiane, vengono scandagliate le sue abitudini, elencati i suoi consumi (tanto più quelli illegali), censurato lo stile di vita, messo in cattiva luce il rapporto con la famiglia.

Esemplare, in tal senso, la frase di un pubblico ministero nella requisitoria finale del primo processo per la morte di Stefano Cucchi: «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni». A parte il fatto che Cucchi 20 anni prima della sua morte di anni ne aveva 11, questo ci sembra un buon sunto del clima di quei processi e di come essere un «drogato» renda più sopportabile, quando non proprio legittima, la sua morte per mano delle forze di polizia. I due processi di primo e secondo grado per quanto accaduto a Magherini si sono conclusi con la condanna a sette e otto mesi per i tre carabinieri accusati di omicidio colposo. In questo caso, a supporto della tesi della sproporzione dell’intervento e dell’uso della coercizione, c’erano dei video, filmati da persone presenti sulla scena.

Grazie alle immagini e ai testimoni, si è potuto accertare che Magherini rimase ammanettato con le mani dietro la schiena, steso per terra a pancia in giù, con i tre carabinieri a gravare con le ginocchia sul suo corpo impedendogli di muoversi e respirare, per almeno un quarto d’ora. Quindici minuti in cui l’uomo gridava «aiutatemi», fino a quando ha smesso di parlare. Ma nemmeno il suo silenzio ha indotto i carabinieri a liberargli i polsi, tanto che all’infermiera arrivata con l’ambulanza è stato impedito di prendere i parametri vitali.

Magherini è morto così. E non è solo la sua memoria e i suoi famigliari ad avere subito un duro colpo, perché se la Cassazione decide di annullare senza rinvio la condanna affermando che «il fatto non costituisce reato», significa che tutti noi abbiamo più di un problema. Leggeremo le motivazioni, ma l’assoluzione piena fa pensare che sia stata sposata totalmente la tesi della difesa, per la quale i carabinieri «non sono dei medici»: impossibile per loro individuare le avvisaglie della mancanza di ossigeno.

Peccato che, solo il mese precedente alla morte di Magherini, il Comando generale dell’Arma avesse emanato una circolare a uso di tutti gli operatori in cui venivano esplicitate le linee di intervento nei confronti di fermati in stato di alterazione psicofisica «al fine di ridurre al minimo i rischi per l’incolumità delle persone». Per esempio, si evidenziava come fosse ritenuto importante scongiurare i «rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona» e si specificava di evitare «in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica», la quale «può costituire causa di asfissia posturale». Il comando dell’Arma, dunque, aveva individuato proprio quella posizione come altamente pericolosa, tanto da imporre una specifica formazione su questo aspetto agli operatori.

Parliamo al passato perché, nel frattempo, quella circolare è stata abrogata. Forse si è ritenuto che non fosse più vero che una persona agitata cui venga schiacciata la cassa toracica inevitabilmente smetterà di respirare; o si è pensato che da quegli operatori, titolari dell’uso legittimo della forza, non si dovesse pretendere anche la conoscenza dei minimi elementi di sicurezza indispensabili per evitare la morte delle persone fermate.

Non si propone qui l’obbligo della laurea in medicina per tutti i carabinieri, ma davvero ci pare estremamente pericoloso affermare che – a parte la velocità nell’inseguire i furfanti, la forza nel placcarli e la risolutezza nel trattenerli – non sia richiesta loro alcuna competenza per aiutarli a capire quando è il momento di fermarsi. Se per la Cassazione, evidentemente, il bene principale da tutelare è stata l’operatività di quei tre carabinieri al di fuori di ogni vincolo o limite, noi continuiamo a pensare che una vita, la vita di Riccardo Magherini, la vita di chiunque venga fermato da uomini in divisa, valga decisamente più di questo.

(*) articolo pubblicato dal manifesto e ripreso da Osservatorio repressione

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *