Profezia: l’Africa di Pasolini

di Monica Macchi
In occasione del Festival della Letteratura di Mantova, segnaliamo la rassegna organizzata da CineAgenzia su documentari recenti dedicati alla letteratura e alla poesia e in particolare le proiezioni di «Profezia: l’Africa di Pasolini» di cui presentiamo la recensione.

«Profezia. L’Africa di Pasolini»
A cura di Gianni Borgna
Supervisione artistica Enrico Menduni
Sceneggiatura: Gianni Borgna, Angelo Libertini
Fotografia: Sergio Salvati
Montaggio: Carlo Balestrieri
Musiche originali: Marco Valerio Antonini
Voci : Dacia Maraini (voce narrante), Roberto Herlitzka (voce di Pier Paolo Pasolini), Philippe Leroy (voce di Jean-Paul Sartre)
Durata: 77 minuti
Produzione: Produzione Straordinaria s.r.l., Cine città Luce
Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà
Premi: Premio “Bisato d’oro” della Critica indipendente alla 70esima Mostra internazionale di Venezia, Gran premio della Giuria al XVII “Terra di Siena” Film Festival
Film riconosciuto di interesse culturale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Direzione generale per il cinema)

«Africa, unica mia alternativa!» (Pier Paolo Pasolini, «Frammento alla morte»)
«Mai convenzionale, mai pittoresco, ci mostra un’Africa autentica, per niente esotica e perciò tanto più misteriosa del mistero proprio dell’esistenza… Pasolini sente l’Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano». Così Alberto Moravia su “Appunti per un’Orestiade africana”.

Si chiama colore la nuova estensione del mondo
Dobbiamo ammettere l’idea di figli neri o marroni
dalla nuca ricciuta
Pier Paolo Pasolini: «La rabbia»

«Se fossi stato francese, avrei girato Il Vangelo secondo Matteo in Algeria così forse avreste capito che è un’opera nazional-popolare in senso gramsciano… Cristo è un sottoproletario che va con i sottoproletari».
Pier Paolo Pasolini

Il documentario, proiettato in anteprima mondiale alla 70esima Mostra di Venezia nella sezione “Venezia Classici”, racconta il rapporto poetico, intellettuale e politico fra Pasolini e l’Africa, luogo e insieme archetipo di viaggi, ispirazioni e film tra cui «La Rabbia» (1963), «Edipo Re» (1967), «Appunti per un’orestiade africana» (1968-1973) e altri progetti rimasti irrealizzati come «Il padre selvaggio».
Se infatti Pasolini negli anni Cinquanta dedica i suoi romanzi «Ragazzi di vita» e «Una vita violenta» al mondo delle borgate romane in cui nasce il suo primo film («Accattone»), il boom economico e l’industrializzazione degli anni Sessanta stravolgono completamente questo microcosmo omologandolo al modello borghese. Pasolini si rivolge così a quell’Africa che si stava liberando dal giogo coloniale delle potenze europee (influenzato anche dal libro di Fanon «I dannati della terra» dove si prende coscienza del Terzo mondo come nuovo protagonista della
storia) e la rielabora come «concetto che convive anche nelle periferie di Roma e che ha una radice comune nel mondo arcaico contadino» fino a profetizzare «Alì dagli Occhi Azzurri» (titoloripreso da un recentissimo film di Claudio Giovannesi in cui Nader, in bilico fra la cultura egiziana e quella italiana, ha gli occhi neri e lenti a contatto azzurre) insieme speranza nella rivoluzione e profezia delle masse che via via approdano e irrompono nel “nostro” Occidente.
Dedicato a Giuseppe Bertolucci, «Profezia» si articola così come un film-saggio attraverso sequenze di molti film di Pasolini arricchiti da frammenti di cinegiornali,
immagini di repertorio, interviste sia dell’epoca che contemporanee (divertente quella a Bernardo Bertolucci che racconta quando, tredicenne, ha pensato che lo sconosciuto dall’aspetto poco raccomandabile che chiedeva del padre Attilio fosse un ladro. Quando molti anni dopo, diventato assistente di Pasolini, gli racconta l’episodio, Pasolini risponde serafico: «Cosa c’è di più bello per uno che ha raccontato dei giovani ladri romani che essere scambiato per uno di loro?»).
I testi originali sono letti da Dacia Maraini e le poesie recitate da Roberto Herlitzka con una lunga parentesi dedicata al rapporto di Pasolini con Sartre, unico intellettuale laico francese ad avere difeso «Il Vangelo secondo Matteo» dallo sprezzante commento di Michel Cournet, critico del Nouvel Observateur («è un film fatto da un prete per i preti»). Sartre invece, pur ammettendo che spesso i temi religiosi favoriscono idee conservatrici, denuncia l’ambiguità della sinistra francese che dovrebbe avere preso co(no)scenza del sottoproletariato tramite la guerra di Algeria e sostiene che è giunto il momento di porre il problema del Cristo come una fase della storia del proletariato. E anzi Sartre suggerisce a Pasolini di proiettarlo insieme a «La
ricotta» (un «film della fame in cui il ladrone buono muore perché finalmente ha mangiato a sazietà») per meglio mostrare il suo percorso stilistico e per svelare finalmente che il razionalismo francese manca di critica al razionalismo …con l’unica eccezione di Jean-Luc Godard. Del resto, il fil rouge dipanato dagli autori parte da un’Africa che non è un concetto storico o sociologico ma una rappresentazione mitologica e poetica dell’alterità che porta con sé la «trasformazione delle Erinni in Menadi» cioè il passaggio da una società primitiva, dominata dall’irrazionalità, a una comunità statale guidata dalla ragione, da leggi e regole. Mquesto processo non deve essere filtrato dai modelli politici e ideologici dell’Occidente, né essere uno
sradicamento dal passato ma si sarebbe configurato come la resistenza dei sottoproletari di quella «metà del mondo che non fa la storia, ma la subisce, ma che intanto è alla testa della comune lotta, in quanto resistente e armata». Mondo arcaico e contadino contrapposto a quello industrializzato, globale e massificato (pur con delle sacche, a esempio gli sfollati del Polesine o i baraccati romani per cui «società dei consumi è una frase misteriosa ed incomprensibile») dove Roma diventa lo specchio in cui contemplare l’Africa.
Ma il film tratta anche del rapporto tra letteratura e cinema; in particolare il documentario parte dalle recensioni ad «Accattone» definito «una storia scritta con la macchina da presa, un film che non nasce dal cinema ma da un’esperienza poetica» ma soprattutto contiene un’intervista in cui Pasolini spiega la sua scelta di passare dalla letteratura al cinema. Il cinema non è una tecnica ma un linguaggio transnazionale e transclassista immediatamente comprensibile senza bisogno di codici o simboli e si esprime attraverso la realtà stessa. Proprio per questo viene messa in risalto la presenza della macchina da presa, per rendere visibile l’operazione tecnica che genera l’immagine e dunque la realtà. E anzi Bernardo Bertolucci ricorda che quando è stato assistente di Pasolini ne percepiva l’animo da pioniere in modo tale che la prima scena girata da Pasolini per lui «è stato il primo piano della storia del cinema». La rivoluzione pasoliniana è stata quella di non narrare né le periferie romane né il Terzo Mondo con lo sguardo di un soggetto borghese ma far parlare direttamente le situazioni attraverso la forma del frammento, del documento, della testimonianza decolonizzando l’immaginario per usare l’espressione di Latouche. In questo senso ricorrere ad attori non professionisti esprime ed esalta quell’autenticità che manca alla parola scritta.
PS – Particolarmente interessante il contenuto extra nella versione dvd «Pasolini, un ritratto inconsueto» un montaggio di spezzoni dei cinegiornali conservati nell’Istituto Luce che mostrano cosa i benpensanti pensavano di Pasolini.

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