Pronipoti di schiavi deportati nel Nuovo Mondo

di Diego Battistessa (ripreso da https://ogzero.org/)

 

Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone africane deportate durante lo schiavismo è rimasto sistema in tutti gli stati in America latina e Caraibi. In questo articolo il quadro di riferimento storico, geografico e culturale quando si parla di America latina e Caraibi comprende il gruppo di paesi considerato dalla Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños – Celac. I paesi membri della Celac sono 33: Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile, Dominica, Ecuador, El Salvador, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Giamaica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Suriname, Trinidad e Tobago, Uruguay e Venezuela. 

«La popolazione afrodiscendente dell’America latina e dei Caraibi è composta principalmente da discendenti di popoli africani ridotti in schiavitù durante la tratta degli schiavi operata nella regione per quasi 400 anni. Sebbene si tratti di gruppi umani diversi, risultanti dal processo di schiavitù e dalla riproduzione delle disuguaglianze consolidate a partire dalla creazione dei nuovi stati della regione, le popolazioni afrodiscendenti latinoamericane soffrono senza distinzione il razzismo e la discriminazione strutturale. Nonostante il contesto avverso, gli afrodiscendenti hanno resistito e combattuto in modo permanente, riuscendo a posizionare le loro rivendicazioni storiche nelle agende internazionali, regionali e nazionali, principalmente nel secolo attuale. Uno dei corollari di questo processo è il Decennio Internazionale per gli afrodiscendenti istituito dalle Nazioni Unite per il periodo 2015-2024, basato su tre pilastri: riconoscimento, giustizia e sviluppo».

Cepal, 2017

Una persona su quattro in America Latina e nei Caraibi si riconosce come afrodiscendente ma, nonostante ciò, questo gruppo etnico è sicuramente la minoranza più invisibile della regione. Lo certifica tra gli altri, la Banca Mondiale, che in un report del 2018 contabilizza in 133 milioni gli appartenenti alla comunità afrodiscendente presenti nella regione latinoamericana. Sono il Brasile, il Venezuela, la Colombia, Cuba, il Messico e l’Ecuador a concentrare la maggior parte della popolazione afrodiscendente ma, anche in tutto il resto della regione, la presenza dei discendenti di coloro che furono portati in catene nel Nuovo Mondo, è parte dell’eredità storica e culturale nazionale.

Resistere per esistere

Anacaona è stata l’ultima Principessa dei Caraibi e resistente del popolo Taino. Morì nel 1503 a soli 29 anni, dopo una lunga lotta contro il dominio delle flotte spagnole che avevano saccheggiato e messo in schiavitù l’intera popolazione Taino. Condannata a morte, le fu proposto di aver salva la vita se si fosse offerta come concubina in un galeone spagnolo, Anacaona rifiutò e pertanto fu impiccata senza pietà.

Quella delle persone afrodiscendenti con l’America latina è una relazione carnale, costruita sui loro corpi – e con i loro corpi, templi di resistenza immolati alla causa della libertà. Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La tratta degli schiavi in America Latina e nei Caraibi ebbe inizio per sopperire a un massacro perpetrato dai conquistadores nei confronti delle popolazioni indigene. I primi a soccombere di fronte al massivo sfruttamento dei nativi da parte dei nuovi arrivati furono i due popoli indigeni Taino e Caribe – da cui deriva il nome di Caraibi – e il loro destino si trova ben descritto nel volume di Sebastián Robiou Lamarche Taínos y caribes: Las culturas aborígenes antillanas (Editorial Punto y Coma, 2003). Le Antille spagnole, nome attribuito alle isole dell’arcipelago delle Antille facenti parti dell’impero spagnolo (dal 1492 al 1898) si trasformano fin da subito in una fonte di grande ricchezza per la Spagna e più tardi anche per altre potenze europee.

Durante tutto il periodo della colonia l’espansione capitalista guidata dalle politiche e dagli interessi delle metropoli del vecchio continente si è basata su una crescente e pressante richiesta di mano d’opera da sfruttare per le attività agricole, l’allevamento, i lavori di costruzione, di estrazione di risorse naturali e anche per le guerre. Come già riportato per il caso dei Taino e dei Caribe, la popolazione indigena fu falcidiata in pochi anni dagli incontri/scontri con i colonizzatori a causa della riduzione in schiavitù, dalle malattie importate dal Vecchio Continente e dalle guerre. Il collasso demografico conseguente a questa situazione portò le potenze europee a concentrare la loro attenzione sull’Africa, nello specifico sul Golfo di Guinea, conosciuto tra il XVII e XIX secolo come la Costa degli Schiavi.

 

Una simbolica porta sull’isola di Goré, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive un carico di schiavi catturati come manodopera per i campi oltreatlantico (foto scattata nel 1998).

La struttura gerarchica, classista e razzista dell’epoca coloniale determinò fin da subito una posizione di estrema subordinazione della popolazione africana in America Latina e nei Caraibi, posizione assimilabile a quelle delle popolazioni indigene in termini di povertà materiale ed esclusione sociale e politica. Bisogna sottolineare che questa subordinazione non ha avuto termine con la liberazione delle persone afrodiscendenti dalla condizione di schiavi, ma estende la sua ombra fino ai giorni nostri e si manifesta attraverso il razzismo strutturale che relega queste comunità in una situazione di maggiore tasso di povertà, minor accesso all’educazione, minor accesso ai centri di salute, minore accesso al lavoro degno ed esclusione dagli spazi di decisione politica. A questo si aggiunge un elemento di negazione storica della presenza di persone afrodiscendenti nella regione e della loro partecipazione tanto nei processi di liberazione dal potere coloniale così come nello sviluppo sociale e culturale delle nazioni latinoamericane (Cepal, 2017).

Cosa identifica il termine afrodiscendente ?

«Lo studio della popolazione afrodiscendente presenta numerose sfide, a cominciare dalla mancanza di consenso su chi è e chi non è afrodiscendente, anche all’interno dei contesti nazionali. Il termine è stato adottato per la prima volta da organizzazioni regionali di discendenza afro all’inizio degli anni 2000. La parola descrive persone unite da un’ascendenza comune (ma che vivono in condizioni abbastanza dissimili), che vanno dalle comunità afroindigene, come i Garífuna del Centro America, fino a enormi segmenti della società maggioritaria, come i pardos del Brasile. Negro, moreno, pardo, preto, zambo e creole, tra i tanti altri, sono termini molto più vicini alle nozioni di razza e relazioni razziali dei latinoamericani. Comunemente, queste categorie hanno stigmi e pregiudizi associati, come risultato di una lunga storia di discriminazione e razzismo. Nella maggior parte dei paesi, l’adozione del termine afrodiscendente è ancora parziale. In Venezuela, la maggioranza della popolazione morena (di razza mista) spesso rifiuta il termine e le sue implicazioni, mentre nella Repubblica Dominicana la maggioranza degli afrodiscendenti di razza mista preferisce identificarsi come indigeni».

(Banca Mondiale, 2018)

Le difficoltà per identificare, mappare e censire le persone di ascendenza africana nei paesi latinoamericani sono legate a doppio filo con la negazione della discriminazione razziale da parte degli stessi, oltre allo storico tentativo di rendere invisibile la pluralità etnica nella regione. Questa volontaria cecità sociale è figlia dell’opera di conseguimento dell’immagine europea di sviluppo e modernità, chimera vissuta dai governi liberali dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento in America latina. In questo schema di emulazione politica e sociale, le popolazioni indigene e gli afrodiscendenti erano visti e interpretati come elementi di disturbo, di arretratezza e di un passato da “pulire” con un’opera di blanqueamiento – lo “sbiancamento razziale”, ovvero quella pratica sociale, politica ed economica utilizzata in molti paesi postcoloniali per raggiungere un supposto ideale di bianchezza. Il termine si origina in America latina e può essere considerato sia in senso simbolico che biologico. Simbolicamente, lo sbiancamento rappresenta un’ideologia nata dalle eredità del colonialismo europeo, descritto dalla teoria della colonialità del potere di Aníbal Quijano, che si rivolge al dominio bianco nelle gerarchie sociali. Biologicamente, lo sbiancamento è il processo realizzato sposando un individuo dalla pelle chiara per produrre una prole dalla pelle non più scura.

Per raggiungere questo scopo venne favorita, da numerosi paesi latinoamericani (basti citare il Venezuela come esempio esplicativo), una massiccia immigrazione di persone dall’Europa: regione vista come culla della civiltà, Mater culturae e fornitrice di intellettualità, creatività, professionalità e soprattutto di pelle bianca. Successivamente, durante il XX secolo e con l’affermazione di identità nazionali fluide e plurali, si diffuse in America Latina la falsa percezione di aver raggiunto una sorta di giustizia sociale multietnica. In quel contesto, l’identificazione di una parte della popolazione come afrodiscendente venne interpretata come un elemento di fomento al razzismo e di conseguenza nessun dato su questa popolazione appariva nelle statistiche latinoamericane. A testimonianza, la Banca Mondiale ci ricorda nel suo report che negli anni Sessanta del XX secolo, solo il Brasile e Cuba includevano delle variabili etniche nei loro censimenti…

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