Psichiatri, apocalissi e un po’ di nulla

recensione a «La conquista di Ganimede» – Fanucci: 200 pagine per 17 euri – firmato da Philip Dick con Ray Nelson (*)   

Diavolo d’un P. K . Dick. Riuscì a tirar fuori meraviglie persino in uno dei periodi più bui della sua vita quando scrisse con l’ausilio di (sotto tutela, malignò qualcuno) altri autori. Grazie allora a Fanucci che recupera «The Ganymede Takeover» con bella introduzione di Carlo Pagetti e in una nuova traduzione (di Tommaso Pincio, dickiano come pochi). Era uscito nel 1967 e fu tradotto su Urania come «L’ora dei grandi vermi».

Nella prima pagina del romanzo la «resa incondizionata» della Terra è risolta in 4 righe. Poi il duo Dick-Nelson ci proietta fra i Gany (gli abitanti di Ganimede, i nostri nuovi padroni), l’ultima resistenza Neg (con il leader nero Percy X), psichiatri e collaborazionisti, ambiziosi razzisti e una contraddittoria giornalista.

«Io sono soltanto lo stregone, non il capotribù» si schernisce all’inizio il – diabolico, scopriremo poi – dottor Balkani, terrestre in grado di curare (o annichilire) sia la razza umana che i Gany. «Se non ci fidiamo di noialtri, di chi mai ci potremmo fidare?» è la domanda (senza risposta) a fine narrazione. In mezzo le illusioni usate come armi, le tentazioni dell’oblio, un alieno che diventa «anglo-cattolico», miscele malsane (di ambizione e paura), l’arrivo della «ragazza del nulla», la stranezza di uscirsene in tv con «qualcosa di davvero folle, tipo dire la verità». Qualche clichè della fantascienza (telepatia, nuove armi, mente collettiva) e molti tipici paradossi del nostro vivere che Dick (con l’aiuto di Nelson stavolta) rivela come se scherzasse: gli spot come geniale elaborazione artistica; la difficoltà a definire normale un mondo senza foglie; il capo dei ribelli che serve alla causa più da morto che da vivo; l’idea di «spegnere il sole e aspettare» e quella secondo cui «nessuno può liberare nessuno» perché ci si libera da soli oppure non può funzionare.

Parafrasando il dottor Balkani – «il numero delle persone che potenzialmente abitano in me è infinito» – si può giurare che il condominio mentale dentro Philip Dick era davvero affollato. Non è escluso che qualche buona pensata sia arrivata anche da Ray Nelson, scrittore poco prolifico ma al quale siamo debitori del geniale racconto che ispirò il film «Essi vivono» di John Carpenter. Sono dickiane le domande riproposte, fra un’avventura e l’altra, dal ganimediano aspirante “terragno”: «che ne sappiamo di quel che scarta la mente? E della parte di mondo che rifiutiamo di vedere?». Dickiane le paure che cessi una «separazione netta fra passato e futuro» o le sensazioni di sbigottimento nello scoprire quanto sia facile diventare schizofrenici. E visto che «La conquista di Ganimede» è stato scritto dentro una grave (l’ennesima) crisi sentimentale di Dick non fatichiamo a immaginare quanto di autobiografico ci sia nel desiderio di Joan, l’unico personaggio femminile, e di Paul Rivers, uno degli psichiatri, di reinventarsi e fondersi in una nuova identità sessuale.

Come sempre in P. K. Dick le complicazioni filosofiche e/o religiose scorrono sotterraneamente: in superficie una storia tutto ritmo, dove c’è spazio persino per la più inverosimile battaglia di tutti i tempi («apocalisse nella sua versione comica», secondo Pagetti) con il generale Lee, i vampiri, lesbiche, unicorni, aspirapolveri carnivori, «uniformi di ogni epoca e nazione».   

(*) Questa mia recensione è uscita – al solito: parola più, parola meno – il 23 dicembre sul quotidiano «L’unione sarda». Sarò sentimentale ma resto affezionato alla vecchia copia del romanzo soprattutto per la dedica – misteriosa, dunque dickiana – che mi fece Riccardo Mancini: «Testa sempre quella vecchia, arcobaleno e camino, carabinieri e castagna». Un pezzo di dedica forse può essere spiegata: pochi giorni prima mentre gironzolavamo Rik aveva “posteggiato” malamente e i carabinieri volevano multarlo. Alla domanda «come mai avete parcheggiato così?» rispondemmo con la verità: «c’era un bellissimo arcobaleno e volevamo raggiungerlo». Ne seguì una incomprensione cosmica fra noi e i caramba, seguita da molte risate (fra me e Rik). Decidemmo che era una piccola storia quasi degna di P. K. Dick. Si sa: l’importante è esagerare. Ma c’è di peggio: si può persino dire la verità. (db)

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Daniele, solo tu riesci a incuriosire in poche righe. Recensione turbofiga. Esagero? No, dico la verità.
    La storia di P.K. Dick con l’infermiere “letterario” non la sapevo.

Rispondi a Clelia Farris Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *