Psicopatologia della guerra

di Fabio Troncarelli (*)

L’anno in cui scoppia la seconda guerra mondiale, il 1939, è anche l’anno della morte di Sigmund Freud.

Il 1° settembre Hitler invade la Polonia. Ventidue giorni dopo scompare, al termine di una lunga e dolorosa malattia, il padre della psicoanalisi. Una semplice coincidenza? Una connessione meramente simbolica? No: tra i due eventi c’è un legame profondo. La guerra scoppiata nel 1939 non è stata solo distruzione di città, cancellazione di milioni di vite umane, incalcolabili devastazioni materiali, deportazioni di masse sterminate. È stata anche un’immane catastrofe psichica che si è abbattuta sull’umanità. Per la prima volta nella storia umana, la Seconda guerra mondiale introduce il rischio dell’annientamento totale. Per la prima volta gli uomini comprendono crudamente l’inarrestabilità dei meccanismi distruttivi di un conflitto moderno che non risparmia i civili, i bambini, le donne, le minoranze etniche, i vinti e i vincitori. Per questo con la guerra scatenata da Hitler si apre un nuovo capitolo nella storia della psicoanalisi, degli psicoanalisti e dei loro pazienti. E non è casuale che a un tale scatenamento di violenza totale corrisponda, simultaneamente, la frantumazione e la dispersione del movimento psicoanalitico freudiano con la chiusura forzata delle due sedi di Vienna e Berlino e l’emigrazione della maggior parte degli analisti (quasi tutti di origine ebraica). Dunque, da una parte l’umanità osserva inorridita la messa in scena di uno spettacolo tragico imperniato sul sadismo, dall’altra è costretta ad assistere all’umiliazione, alla fuga, all’esilio senza ritorno di quei pochi, nobili eroi della psiche, che fino ad allora promettevano agli uomini un sollievo rispetto a quell’istinto di morte che sembra avere il sopravvento.

Eppure, lo scontro feroce tra vecchio e nuovo, la temporanea distruzione di ogni rimedio e ogni consolazione per la parte più ferina dell’uomo apriva un varco inatteso a un’evoluzione, a una metamorfosi cupa e terribile, che finirà col ribaltare in modo insospettato una realtà invivibile. Infatti, l’eccezionalità dei traumi subiti indistintamente da militari e civili provocò una serie di reazioni a catena dal punto di vista psicologico ben più ampie e inquietanti delle pur tragiche forme di “nevrosi di guerra” sperimentate nel corso del primo conflitto mondiale. D’altro canto, il movimento psicoanalitico freudiano e più in generale la psicoanalisi (legata o meno a Freud) reagì alla sfida mortale elaborando nuovi strumenti concettuali adatti alla novità della situazione, senza lasciarsi travolgere dal vortice della guerra. Com’è naturale, uno dei temi più urgenti da affrontare era proprio il disagio psichico di un’umanità che andava molto oltre i limiti morali fino a quel momento conosciuti ed era incapace di tollerare perfino il ricordo degli orrori della guerra.

La cesura rappresentata dal conflitto non indica tanto una rottura senza rimedio, quanto un doloroso cambiamento che pone, drammaticamente, altri problemi sul tappeto. Del resto tale trasformazione era già iniziata prima della guerra con il radicale rovesciamento delle regole del gioco della società civile e l’avvento di regimi totalitari che fondavano il loro consenso sullo sfruttamento delle pulsioni più violente delle masse. Le forze oscure della psiche, i bisogni elementari negati da società apparentemente solide e sicure, prendevano il sopravvento. Il disordine sociale e i nuovi modelli di Stato proponevano tumultuosamente una nuova concezione dell’esistenza. Solo chi era capace, sia pure demagogicamente, di sfruttare il profondo bisogno di sicurezza e la cieca aggressività delle grandi masse, come fecero i nazisti, poteva resistere all’urto della realtà. Era questa un’intuizione psicologica, che presupponeva una visione dell’uomo e della società molto meno “nobile” di quella della generazione precedente. In tale prospettiva non meraviglia che, a onta della loro stessa ideologia basata sul mito della forza e della virilità, i nazisti dimostrassero interesse per le conquiste della psicoanalisi e cercassero di usufruire dei suoi risultati. Così, nello stesso momento in cui i libri di Freud venivano portati al rogo e la psicoanalisi veniva condannata come degenerazione ebraica, il nazismo permetteva che si istituisse nel 1936 a Berlino un centro statale per la ricerca e la terapia psicologica, a cui aderivano scienziati e medici favorevoli alla psicoanalisi, se non addirittura allievi di allievi di Freud. A capo dell’ente verme posto il cugino di Hermann Göring, Matthias Heinrich, probo scienziato, tollerante e cautamente aperto alle conquiste freudiane. Il ritratto di Freud e quello di Hitler rimasero sospesi fianco a fianco per due anni nella sede dell’Istituto, che sopravvisse, nononostante tutto, fino al 1945. Ad esso aderirono tutti i più significativi rappresentanti della psicoterapia, con l’esclusione ovviamente degli ebrei.

Sul piano teorico l’Istituto Göring fu piuttosto eclettico e confuso, mescolando insieme istanze psicoanalitiche, psicologiche e psichiatriche sviluppando soprattutto interventi settoriali e limitati, terapie brevi, consulenze, attività culturali. E tuttavia, pur all’interno di tali limiti e dell’ovvia contraddittorietà della sua posizione, riuscì a far progredire la scienza. Protetti dal nome stesso di Göring, gli studiosi prendevano posizione contro diffusi pregiudizi sui malati di mente e riuscivano perfino a limitare la brutalità nazista nei confronti dei più “deboli”, come gli omosessuali, i bambini, in qualche raro caso addirittura gli ebrei.

Gli psicoterapeuti tedeschi “curavano” chi riuscivano a curare, evitando a volte deportazioni o esecuzioni immediate. Tra i loro pazienti ci furono anche ufficiali delle SS, sconvolti dall‘atrocità delle loro azioni; aviatori in crisi per i bombardamenti; membri delle famiglie delle alte gerarchie naziste distrutti dalla disumanità del regime. Importante fu poi il tentativo di giustificare e alleviare lo scoramento dei soldati al fronte, dopo l’esaurimento della cosiddetta “guerra-lampo”. Infatti, le progressive difficoltà di un conflitto esteso su tutti i fronti e la fine del mito dell’avanzata inarrestabile dell’esercito germanico provocarono una profonda crisi, generalizzata.

Coloro che si erano recati al fronte con l’illusione di un potere immenso si ritrovarono deboli, impauriti, frustrati come prima dell’avvento del regime nazista. Gli psicoterapeuti più illuminati cercarono di comprendere questi sentimenti e proposero di andare incontro alle esigenze dei soldati o addirittura di curarne le nevrosi.

Anche se con l’inasprirsi della lotta dopo il 1943 tali proposte caddero definitivamente, il tentativo di intaccare la logica disumana dell’obbedienza cieca è meritevole di attenzione. Come pure meritevole di attenzione fu lo sforzo di qualche personaggio isolato di lottare direttamente contro il regime. Tale è il caso a esempio di Johannes Rittmeister, che fu per un breve periodo direttore dell’Istituto Göring. Nobile figura di scienziato e di umanista, il dottor Rittmeister era il più vicino a Freud tra tutti gli psicoterapeuti del Terzo Reich. Pur essendo emigrato in volontario esilio in Svizzera, decise di tornare nel suo Paese per non rinnegare i suoi doveri di solidarietà con i malati e di impegno umano e civile, in una tradizione di umanesimo romantico che si ispirava a Goethe e al Freud del Disagio della civiltà.

Rittrneister fece parte di un gruppo clandestino di resistenza al regime, venne arrestato e giustiziato nel 1943. Una fine altrettanto oscura toccò in quegli anni ai pochi psicoanalisti ebrei che non erano emigrati dopo il 1933. Tra essi spicca sicuramente l’eroico Karl Landauer, collaboratore di Abraham a Berlino: deportato a Bergen-Belsen non esitò, fino alla morte di stenti, a tentare di alleviare le sofferenze dei suoi compagni di sventura con la terapia psicoanalitica, esercitata nei limiti della situazione.

Il coraggio di Landauer non era cieco: se c’è una vittima della guerra che ha necessità assoluta di aiuto in chiave psicoanalitica questo è infatti l’internato in un campo di concentramento. Le testimonianze raccolte da analisti dopo la guerra fino ai giorni nostri concordano infatti in questo senso: non solo per l’ovvio ed evidente motivo che chi subisce un’esperienza del genere subisce uno choc terribile, ma soprattutto perché le conseguenze psicologiche del trauma subito sono del tutto inedite nella storia umana. L’elemento nuovo e sconvolgente dal punto di vista dell’economia psichica è l’aver vissuto nella minaccia quotidiana dell’annientamento, sottoposto contemporaneamente a ogni sorta di pressione per indebolire le difese dell’Io. La normale reazione al pericolo è immediata e tende ad attivare tutte le forze che ci permettono di sfuggire alla distruzione o alla sofferenza: mentre invece nel campo di concentramento avviene esattamente il contrario per un periodo di tempo illimitato. Le umiliazioni sistematiche, la denutrizione, lo spettacolo ossessivo della morte rendevano i prigionieri larve umane incapaci di reagire, morte interiormente prima della vera e propria esecuzione. Con la conseguenza che i pochi sopravvissuti hanno continuato a vivere dopo la liberazione con una personalità completamente destrutturata, priva dei più elementari meccanismi di salvaguardia, a volte perfino oppressi da un mortale senso di colpa per essersi salvati rispetto a tanti altri, come il protagonista del film L’uomo del banco dei pegni.

Nel corso del trattamento analitico di reduci dei campi sono emersi una serie di squilibri tipici di quella che si definisce la “sindrome del sopravvissuto”. La caratteristica fondamentale di tale terribile disagio psichico è l’impossibilità di rielaborare i traumi subiti: il sopravvissuto continua, per così dire, a “stare nel campo” anche anni e anni dopo la sua liberazione, nonostante il suo reinserimento nella vita normale. Nella psiche del reduce si opera una profonda trasformazione caratterizzata dall’esistenza simultanea di due aspetti dell’Io: una parte continua a “vivere” nel campo di sterminio, spogliata da ogni difesa, e l’altra parte, adattata alla nuova realtà, si comporta come se potesse ancora in apparenza amare, lottare, fare progetti. L’equilibrio tra le due parti è estremamente instabile: l’Io attuale è continuamente invaso dall’Io del passato, con violente manifestazioni di ansia, incubi, stati depressivi, manifestazioni paranoidi, tendenza all’isolamento, alterazioni del senso dell’identità, alterazioni della memoria e perfino della percezione del tempo e dello spazio.

Di fronte a tali sistematici squilibri dell’Io è assai difficile intervenire fino in fondo. In un articolo apparso nel 1984 sulla Rivista di psicoanalisi lo psicoanalista argentino Juan Carlos Suárez confessa il suo smarrimento ed il parziale scacco della terapia di fronte al caso terribile di un sopravvissuto di Auschwitz. L’uomo vede scomparire nel campo suo padre e sua madre e riesce a salvarsi per una serie di circostanze casuali, tra cui anche la relazione coatta con un kapò omosessuale, vissuta con un’umiliazione supplementare nell’umiliazione complessiva. Ad un certo punto della cura, di fronte all’invincibile terrore del paziente, l’analista confessa di avere infranto la regola del distacco con l’analizzato, di avergli preso le mani e carezzato la fronte, senza neppure rendersi conto che era la stessa cosa, che la madre gli faceva da bambino.

Sebbene per Suárez questa sia un’ammissione di fallimento dal punto di vista analitico, perché il rapporto affettivo prende il posto di quello terapeutico, non sono mancati altri analisti che hanno rivendicato il valore terapeutico di quest’iniziativa, come ]acqueline Amati Mehler in una nota apparsa sullo stesso numero della rivista. Di fronte all’impossibilità dell’elaborazione del lutto da parte del paziente, l’unico sollievo possibile proviene dalla possibilità di condividere l’ esperienza delle emozioni e del dolore: di sentirsi contenuto all’interno di un rapporto, in modo da poter continuare in seguito l’analisi stessa.

La “sindrome del sopravvissuto” non è l’unica forma di alterazione psicologica tra i civili che subiscono gli effetti del conflitto. Gli studiosi hanno individuato varie categorie di “vittime innocenti”, a cominciare soprattutto dai bambini. I disturbi del comportamento e della personalità dei bambini attribuibili all’influenza della guerra sono molteplici. Anche in questo caso non è sufficiente arrestarsi al livello più ovvio: cioè agli choc devastanti prodotti dal coinvolgimento diretto in un evento bellico, dalla morte tragica dei genitori, dalla paura di morire. Accanto a tali drammatiche esperienze ve ne sono infatti anche altre, meno evidenti a prima vista, ma non meno devastanti. L’inconscio di ciascuno e in particolare quello dei bambini prende spunto da situazioni estreme per esprimere pulsioni interne, con un processo di appropriazione selettiva del reale, più o meno distorta, rispetto agli stimoli esterni. Tutto ciò è ben esemplificato in un classico della psicoanalisi, L’analisi di un bambino di Melanie Klein. La celebre psicoanalista ha pubblicato il resoconto della terapia di un bambino con tratti psicotici, svolta durante la guerra, col pericolo delle bombe tedesche minacciosamente presente. Il piccolo paziente era tormentato dall’immagine terrificante di Hitler e delle bombe, ma la sua angoscia aveva radici più profonde e più antiche dei pericoli immediati. La figura spaventosa di Hitler era la maschera attraverso la quale l’inconscio esprimeva la paura per la figura del padre, a cui venivano attribuite intenzioni crudeli e spietate. È naturale che la tensione provocata dalla guerra offrisse materiale di prima scelta all’ansia del bambino, come del resto a quella di tutti: eppure si avrebbe torto a giudicare le sue ossessioni come semplici trascrizioni di problemi reali, trascurando il complesso gioco di riformulazione del reale nel vissuto del singolo.

È proprio contro un analogo fraintendimento, fonte di equivoci penosi, che dovettero schierarsi i più illustri psicoanalisti inglesi nel periodo più duro della guerra. Il governo aveva predisposto lo sfollamento di una gran massa di bambini, per sottrarli agli effetti dei bombardamenti. Separati dai genitori e affidati a personale specializzato, i bambini godevano di una condizione apparentemente privilegiata, sia dal punto di vista della incolumità sia da quello dell’assistenza e dell’alimentazione. Eppure, come fecero notare eminenti studiosi come Donald Winnicott e John Bowlby, i risultati della separazione coatta dai genitori producevano un’inquietante destabilizzazione della psiche infantile. I bambini vivevano l’allontanamento come una terribile punizione, di cui non potevano neppure lamentarsi perché erano assistiti perfettamente e invitati a non piangere. In alcuni di loro si producevano alterazioni del carattere o del comportamento, come per esempio in quei bambini che si chiudevano completamente in loro stessi, con rituali ossessivi al limite dell’autismo. Nello stesso tempo, anche i genitori, in particolare le madri, vivevano con estrema angoscia l’allontanamento, sviluppando la convinzione inconscia che i figli erano lontani perché i genitori non erano capaci di proteggerli. La difesa del “bambino deprivato”, anche a dispetto del buon senso, divenne un cavallo di battaglia degli psicoanalisti inglesi più illuminati, che mostrarono a un’opinione pubblica assai poco sensibile a tali problemi, i rischi dell’operazione dello sfollamento. Non ultimo l’incremento delle tendenze antisociali e criminali latenti nei bambini, che rispondono con un comportamento violento alla violenza che subiscono. Da questo punto di vista va sottolineata la coraggiosa posizione di Winnicott che cercava di spiegare la tendenza al furto nei minori come il tentativo di riappropriarsi simbolicamente della madre assente: e dunque come una forma di reazione più sana, anche se deviata, rispetto all’isolamento e alla totale disperazione.

La fine della guerra non pose fine alle sofferenze psichiche dei sopravvissuti. E non pose fine neppure ai tentativi degli psicoanalisti di alleviare il dolore dei loro pazienti. Tra le rovine di Berlino, Schultz-Hencke, uno dei pochi psicoterapeuti dell’istituto diretto da Göring che conservasse ancora un certo prestigio e una certa credibilità, individuò nella Fehrbelliner Platz un edificio ancora in piedi nonostante i danni e decise di far rinascere la piccola clinica per malattie mentali creata nel 1920 da due protagonisti del movimento psicoanalitico, Max Eitingon ed Emst Simmel. Fu l’inizio stentato e difficile di una rinascita della psicoterapia istituzionale, in un contesto democratico: nei limiti della realtà miserevole del tempo, i medici dell’anima cercavano di intervenire e di curare gli esseri che si aggiravano come spettri nella città in macerie. Anche altrove, dovunque, a poco a poco, la psicoterapia e la psicoanalisi uscirono dalla clandestinità o dalla ristretta cerchia di esiliati in cui la ricerca era rimasta confinata. Negli Stati Uniti la psicoanalisi ebbe un successo crescente tra il 1940 e il 1950, con la copertura preoccupante del potere accademico universitario e medico, integrata in larga misura nella professione psichiatrica. La scomparsa fisica di molti pionieri della psicoanalisi emigrati negli Stati Uniti, come Otto Fenichel ed Ernst Simmel, la progressiva integrazione del sapere psicoanalitico nel sistema scientifico americano, la ricerca di strumenti terapeutici di efficacia più rapida ed immediata di quelli tradizionali e la stessa diaspora internazionale del movimento psicoanalitico, diviso in scuole a volte contrapposte, realizzarono di fatto, sia pure in modo diversissimo e con ben altro spirito, un ridimensionamento e in parte un addomesticamento di una teoria per tanti versi eversiva.

Nello stesso tempo, tuttavia, l’affermazione della psicoanalisi in Paesi come l’Italia che erano rimasti privi della ventata di rinnova-mento culturale dell’inizio del secolo, insieme allo sviluppo e all’approfondimento teorico della disciplina in altri Paesi come l’Inghilterra o alla sua divulgazione conflittuale e alla sua rielaborazione in Francia, contribuirono a delineare un quadro nuovo di interpretazione dei fenomeni, che compensava in parte la perdita di smalto in altri Paesi.

Le generazioni inquiete
del dopoguerra hanno cercato affannosamente rimedio all’angoscia
nella psicoanalisi: non solo attraverso la lettura delle divulgazioni impegnate
di autori come Jean–Paul Sartre o Herbert Marcuse, ma soprattutto
attraverso uno scavo introspettivo a partire da nuovi parametri, che
ponesse al centro dell’indagine l’esperienza di sbandamento e di crisi di
identità dei giovani nel nuovo, incerto, inquieto e inquietante mondo
sorto sulle rovine della guerra. Pochi sanno che il celebre film Rebel
without a cause (Gioventù bruciata) di Nicholas Ray, che poneva con
tanta forza questo genere di problemi, deriva il suo titolo e parte del suo
contenuto da un saggio-pamphlet di uno psicoanalista americano,
Robert Lindner, ammiratore di Fenichel e ribelle egli stesso rispetto all’establishment
scientifico nazionale.
Per quanto estreme e radicali fossero le sue concezioni, esse facevano
eco a quelle di tanti altri studiosi più posati e riflessivi, come a esempio
Donald Winnicott, che negli anni Sessanta intervenne in varie occasioni sui
problemi della “gioventù bruciata”, rivendicando il valore positivo dell’inquietudine
dei giovani e cercando di individuarne le ragioni più profonde.
In quello che definiva il “tempo della bonaccia”, la tensione della
guerra fredda, i giovani esprimevano un disagio acuto: «La bomba H sta
forse producendo mutamenti profondi […]. La bomba atomica incide
sui rapporti tra la società adulta e le generazioni di adolescenti perché
ciò significa che non ci sarà un’altra guerra. Non esiste perciò più nulla
che giustifichi una rigida disciplina. Non possiamo più
imporre questa disciplina ai nostri giovani e non possiamo trovare giustificazioni
a meno che non facciamo appello alla crudeltà o allo spirito
di rivincita. Tutto questo deve oggi nascondersi nella mistica del bar o
nell’occasionale tafferuglio in cui si fa ricorso ai coltelli. L’adolescenza
oggi deve frenare se stessa, come mai prima d’ora, e dobbiamo ammettere
che l’adolescenza ha un potenziale notevolmente violento».
Queste parole sono valide ancora oggi. La nostra psiche reca profonde
ferite non rimarginate inflitte dall’ultima guerra, che pure nella sua risoluzione
finale non ha davvero eliminato il dolore che ha suscitato, creando
nuovi elementi di inquietudine.

(*) tratto da «Il pane degli angeli», Aracne (2005)

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • Giuseppe Bruzzone

    Strano che l’ autore non citi Franco Fornari psicanalista freudiano- kleiniano, anche se non poteva analizzare nessuno dei vivi, provenienti dai campi di concentramento, per ragioni di età, essendo nato nel 1921. Il suo lavoro sul comportamento degli individui nei gruppi, in tempi nucleari mi sembrava degno di una citazione, che magari esisterà in qualche altra parte del libro, e non nella presente.
    L’ interesse umano dei psicoanalisti nominati nell’estratto, cancella quella considerazione superficiale degli stessi, dedicati solo al sesso.

  • Fabio Troncarelli

    La redazione della “Bottega” ha ricevuto un commento tardivo di questo articolo:

    “Articolo COMPLETAMENTE copiato dalla rivista “Storia illustrata” del 13-01-1989.
    Complimenti.”.
    Vittorio D’Elia.

    Ho l’abitudine di rispondere alle osservazioni che mi fanno e quindi ho deciso anche in questo caso di non sottrarmi a una presunta obiezione, anche se mi pare poco serena e inconsistente.
    Facciamo a capirci. L’autore dell’articolo su “Storia illustrata” sono io, quindi l’articolo non è stato “copiato”, ma “riprodotto”, cosa che è già avvenuta altre volte nella “Bottega” in pieno accordo con chi la pubblica. Detto questo, vorrei ricordare che sotto l’articolo riprodotto sulla “Bottega” c’è scritto che è stato tratto dal mio libro “Il pane degli angeli”, pubblicando addirittura la foto della copertina del volume del 2005. In questo libro ho detto, a p. 10, che molti articoli editi nel 2005 erano stati ripresi da diversi periodici, tra i quali anche quello che veniva da “Storia illustrata”, citando la fonte, con tanto di anno e numero (per la cronaca, visto che il saccente di turno non lo ricorda, c’è scritto che si tratta del numero 2027). Abbiamo deciso di citare in “Bottega” il volume del 2005 piuttosto che l’articolo del 1989 perché “Storia illustrata” non esiste più da tempo e l’articolo, sarebbe stato difficilmente reperibile per un lettore che avesse voluto consultarlo. Inoltre, visto che l’articolo era stato comunque rivisto ortograficamente e concettualmente in occasione della pubblicazione del 2005, tale pubblicazione costituisce il riferimento bibliografico più aggiornato. In ogni caso, anche se non ci fosse stata questa motivazione, sia io, sia la redazione eravamo (e siamo) obbligati a seguire le regole proprie di una rivista e quindi di pubblicare i riferimenti opportuni in rapporto agli standard di una rivista: un periodico non ha le stesse regole di una pubblicazione scientifica e non è tenuto a ricordare tutta la bibliografia esistente sullo stesso argomento (saremmo freschi!).
    Vorrei aggiungere una cosa. La riproposizione di un testo da parte dello stesso autore, che non guadagna soldi con questa operazione, ma si limita ad esporre le proprie idee, non è una frode, ma il modo di far circolare le proprie opinioni in diversi contesti, come quando faccio una conferenza esponendo quello che c’è già scritto in un libro che ho pubblicato. Ho appena fatto una conferenza appassionante a Palermo sul contenuto del libro “Il segreto del Gattopardo” (Roma, ed. Salerno, 2007) ripetendo le cose che avevo già scritto: nel pubblico c’erano persone che avevano letto il libro, che sono state felicissime di parlarne con l’autore e di chiarire alcuni dubbi che avevano avuto leggendo e di porre nuove domande sullo stesso tema. E’ stato giusto, dunque, riproporre le stesse idee e ricordare il libro che già esisteva: il contesto era diverso e anche le reazioni del pubblico, a distanza di anni dalla pubblicazione, sono state molto diverse da quelle dei primi lettori. Non è la prima volta che mi capita, di riproporre le mie opinioni a distanza di tempo (come capita a molti altri). Ho curato altri libri che contenevano articoli già pubblicati, perché in questo modo si raggiunge un pubblico più vasto (“Il segreto dietro la porta”, Bari, Adda, 2018 e “Lo studio della pietà”, Bari, Adda 2019). Anche in questo caso molti lettori hanno reagito in modo originale, al punto che, durante una presentazione del secondo volume a Roma, ho scoperto perfino cose nuove grazie ad altri studiosi interessati ai miei scritti. Lo stesso succede quando ripubblico i miei articoli sul portale “Academia edu.” come fanno tutti quelli che pubblicano in questa sede, che ripropongono i loro articoli già pubblicati altrove perché un certo pubblico li possa leggere facilmente, tutti insieme, sperando di suscitare reazioni nuove, diverse da quelle della prima pubblicazione. Si è sempre fatto così. L’esempio più illustre che conosco di questa prassi è quello di un grandissimo storico, Arnaldo Momigliano che ha ripubblicato continuamente i suoi articoli precedenti, nei famosissimi “Contributi alla storia degli studi classici”, 7 volumi, 1955-1984, uno dei pilastri degli studiosi di storia antica del Novecento. Se questo è vero, la prassi di ripubblicare un testo da parte dell’autore è un cosa ottima. Non capisco di conseguenza che significa far notare con petulanza che quello che ho scritto un articolo nel 1989, l’ho ripubblicato dopo averlo ricontrollato verificando refusi, eventuali errori o possibili modifiche, in un mio libro nel 2005, indicando la fonte e poi l’ho riproposto, a distanza di tempo, nel 2021 nella “Bottega”, indicando come nuova fonte il libro del 2005: sono le mie idee e le propongo e ripropongo quante volte mi pare, rispettando le regole di pubblicazione di chi decide di ripubblicare il mio testo. Non ho violato il diritto di autore, visto che l’autore sono io. Non ho fatto concorrenza sleale a un’altra rivista, perchè la rivista non esiste più. E neppure al libro del 2005, perché detengo io i diritti di autore e di riproduzione. Qual è il problema?
    Un’ultima cosa, se non ci sono più sputasentenze all’orizzonte: vorrei ricordare che in questo articolo parlavo della guerra e dei problemi piscologici che suscita. A mio sommesso parere è un argomento molto adatto per i tempi drammatici in cui viviamo, di cui bisogna parlare e riparlare in continuazione, anche ripetendo sempre le stesse cose, visto che molti le dimenticano troppo spesso . Forse le idee del 1989 sono ancora attuali e ancora meritevoli di essere conosciute.

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