Qualche scor-data fra 31 ottobre e 8 novembre

31 ottobre 1711: Laura Bassi

1 novembre 1931: quelli che dissero “no”

2 novembre 2001: Mortedison

3 novembre 1793: Come Olympe perse la testa

7 novembre 1919: il germe della pazzia (di Marco D’Eramo)

8 novembre 63 (a.C.): fino a quando abuserai?

Pochi mesi prima, il Collegio «dei dottori leggisti» di Bologna aveva rifiutato a una ragazza la laurea in legge. Ma il 17 aprile 1732 – con Laura Bassi – la “dotta” si arrende e per la prima volta una donna è ammessa nelle aule accademiche.

Bologna celebra con molte iniziative, fra cui una bella mostra, il terzo centenario (31 ottobre 1711) della nascita di Laura Bassi.

Figlia di un avvocato, studiò privatamente (le donne non erano ammesse all’università). Non solo si laureò in Biologia e Filosofia ed entrò a far parte della Accademia delle scienze ma fu la prima donna in Europa a diventare «professora e filosofessa» – questi i termini dell’epoca – nell’università. Ma soltanto nel 1776, poco prima della morte, le fu conferita la cattedra.

Si sposò con Giuseppe Veratti ed ebbe 8 figli: altro scandalo perché all’epoca le poche donne “studiose” erano destinate alla clausura. Con il marito divise passioni scientifiche e una vita fra impegno intellettuale e clamore permanente. Ebbe anche la fortuna di avere dalla sua il cardinal Lambertini (che poi divenne papa): piccolissima eccezione – e se si vuole tardiva riparazione storica – in una Chiesa cattolica che sempre osteggiò la scienza come ogni emancipazione femminile.

Fino al 13 novembre la sua città la ricorda con la mostra «Laura Bassi e le altre filosofesse di Bologna. Nelle vetrine si nota una medaglia d’epoca a lei dedicata: «L’unica donna che ha potuto vedere in faccia Minerva, la sapienza». Pensandoci bene è un gran complimento a lei ma un insulto a tutte le altre. Comunque lei non si accontentò del ruolo di «Minerva bolognese». Si gettò nel dibattito culturale e scientifico europeo (fra Voltaire, Beccaria e Volta) e ricercò in molti campi: mareee, gas, astronomia, elettricità, microscopi, calcolo integrale… Fu anche «disputante» alla funzione anatomica pubblica, una sorta di duello scientifico davanti a professori e studenti (tutti maschi appunto).

I suoi funerali furono davvero di popolo perché evidentemente una parte della città molto l’amò. Non tutti però. Trattati e poemi con titoli come «Le dottoresse ignoranti» o «Disgrazie di donna Urania» avevano lei nel mirino. Fra il 1771 e il ’72 si svolse a Bologna persino «la disputa sull’utero pensante» a partire da un libretto del medico Petronio Zecchino dove si sosteneva (ed era teoria diffusa) la dipendenza dell’intelletto femminile «dai movimenti dell’utero» e perciò «la necessità di una guida maschile per le donne».

In questo senso il manifesto che pubblicizza le iniziative per ricordarla è un capolavoro di ironia: in primo piano c’è il viso di Laura Bassi ma sotto la gonna è visibile il “teatrino” accademico riunito. Nei locali della mostra è possibile vedere anche spezzoni di «Laura Bassi, una vita straordinaria», un bel documentario di Enza Negroni. Ci sarà poi il convegno internazionale «Donne docenti. L’eredità di Laura Bassi» (all’università bolognese) e il seminario interdisciplinare «Mettere il genere in agenda» (san Filippo Neri).

Oggi un cratere su Venere porta il suo nome mentre a Bologna le sono intitolate una scuola e una via (altrove non risulta). Ma davvero, nell’anno a lei dedicato, almeno chi abita a Bologna la conosce? Piccolo test: 10 fra studenti e studentesse in zona universitaria, a casaccio. «Conoscete Laura Bassi? E Lazzaro Spallanzani?». Solo due hanno idea di chi fosse lei mentre 5 sanno qualcosa del suo allievo, cioè Spallanzani. Se Minerva era ed è donna sembra che l’informazione circoli poco.

1 novembre 1931

«Giuro di essere fedele al re, ai suoi reali successori, al regime fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici. […] Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio». E’ il passaggio chiave dell’articolo 18 (toh, un 18 come quello del ministro Sacconi) del decreto-legge intitolato «Disposizioni sull’istruzione superiore» che prevede appunto: «I professori di ruolo e i professori incaricati sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente…». Dal 1 novembre 1931 bisogna firmare o si perde il posto.

Solo 12 (su 1250) professori universitari rifiutano. Ecco i loro nomi: Francesco ed Edoardo Ruffini, Fabio Luzzatto (erano tre giuristi), Giorgio Levi Della Vida (orientalista), Gaetano De Sanctis (noto storico), Ernesto Buonaiuti (teologo in odore di eresia, già nei guai per le critiche al Concordato), Vito Volterra (matematico), Bartolo Nigrisoli (chirurgo), l’antropologo Marco Carrara, un famoso storico dell’arte cioè Lionello Venturi, il chimico Giorgio Errera e Piero Martinetti (studioso di filosofia).

Chi più chi meno, tutti i 12 passarono i loro guai o lasciarono l’Italia. Le conseguenze non erano da poco: perdita della cattedra, pensione al minimo, persecuzioni e una vigilanza oppressiva.

Le loro storie restano nell’ombra anche dopo la caduta del fascismo. Solo dopo 70 anni escono, quasi in contemporanea, due libri: «Preferirei di no» di Giorgio Boatti e «Il giuramento rifiutato (I docenti universitari e il regime fascista)»del tedesco Helmut Goetz.

Una “sporca dozzina” di persone molto differenti per ceto sociale, carattere, idee politiche e interessi sociali: socialisti e liberali, repubblicani e monarchici, ebrei e cattolici. Non particolarmente sovversivi. Anzi i docenti più a sinistra seguirono il consiglio di Togliatti, il capo dell’allora Pci, che li invitò a giurare, così avrebbero potuto svolgere – si spiegò – un lavoro educativo utile al partito e all’antifascismo. Anche gli oppositori liberali del fascismo, in testa Benedetto Croce, scelsero di firmare mentre papa Pio XI (pare su idea di padre Gemelli) consigliò i docenti cattolici di giurare «ma con riserva interiore». Del resto il Vaticano era molto grato a Mussolini (definito «uomo della provvidenza») per il Concordato. E anche la disputa – proprio nel 1931 – sull’abolizione dell’Azione Cattolica si era chiusa, in pochi mesi, con un “compromesso”: lo Stato fascista riconosceva l’Azione Cattolica a patto che non accogliesse antifascisti.

Qualcuno conta 13 ribelli anziché 12 ricordando che da Cambridge l’economista Piero Sraffa, proprio il 1 novembre 1931, comunicò al ministro dell’Educazione Nazionale le sue dimissioni da ordinario di Economia politica a Cagliari. Anche un paio di antifascisti illustri scelsero la pensione anticipata piuttosto che giurare: bei gesti certo ma non dello stesso tenore. Fra i più esposti c’era il filosofo Martinetti che quando Lelio Basso (già condannato al confino di Ponza) si presentò all’esame gli aveva detto: «Io non ho alcun diritto di interrogarla sull’etica kantiana, resistendo a un regime di oppressione lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è lei. Vada pure, trenta e lode».

Dopo la Liberazione, i 12 (11 anzi, perché uno di loro era morto prima che cadesse il fascismo) non ebbero riconoscimenti, anzi trovarono in cattedra ben saldi molti fascisti dichiarati e per nulla pentiti. Fra i loro colleghi antifascisti alcuni si erano riscattati, durante la Resistenza, da quel giuramento mentre altri erano rimasti nel dorato castello delle idee. In ogni caso nessuna discussione pubblica: l’università – come del resto l’Italia – non gradisce le discontinuità. E forse non ama neanche il vero coraggio.

Particolare la vicenda di Ernesto Bonaiuti. Solo per un anno (neppure… morì il 20 aprile 1946) visse in un’Italia liberata dai boia fascisti e dai Savoia. Il 25 gennaio 1925 fu scomunicato per aver preso le difese del Movimento modernista. Nel ’29, grazie al Concordato fra Stato e Chiesa, perse la cattedra ma conservò piccole collaborazioni con l’università; nel 1931 venne estromesso definitivamente da ogni ateneo. Sotto-sotto una delle sue colpe – anche in ambito cattolico – era il “sanguemisto” visto che il padre era un mezzo giudeo, un quarto o forse 10 gocce di giudeo. Quei pochi mesi che Bonaiuti visse in una nuova Italia certo gli riaprirono il cuore eppure ebbe modo di constatare che quella libertà era zoppa perché – unico fra i docenti radiati e finalmente riammessi all’insegnamento – venne escluso dall’università statale sulla base di un’applicazione del Concordato che prevedeva il divieto, per un sacerdote scomunicato, di occupare una cattedra …. in una università dello Stato. E ben pochi si indignarono.

A quei 12 presto dimenticati bisogna forse contrapporre i «10» cioè gli intoccabili medici e scienziati (per così dire) che nel 1938 sottoscrissero il «Manifesto della razza». Perché non vennero rimossi dalle cattedre universitarie alla caduta del fascismo, ma reintegrati nei loro privilegi? Se lo è chiesto Franco Cuomo nel libro «I dieci» dove fornisce prove certe del ruolo non soltanto teorico ma operativo da loro ricoperto: incontri a Berlino con Himmler, Hess e gli altri carnefici del Reich ma anche visite ai campi di sterminio. Come scrive Cuomo: «Nessuno dimentichi i dieci scienziati del ’38. Nessuno li perdoni. Si chiamavano Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco ed Edoardo Zavattari. Legittimarono la deportazione in Germania di ottomila persone, fra cui 700 bambini. Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono».

2 novembre 2001

«Impuniti» ovvero «Perchè le tragedie italiane restano senza colpevoli»: così nel 2006 la rivista «L’Europeo», diretta da Daniele Protti, intitolò un numero dedicato a «stragi e disastri che nella storia italiana del dopoguerra sono rimasti soltanto con le vittime e nessun colpevole accertato». Una delle storie raccontate s’intitola «Porto Marghera 2001» ovvero quando il 2 novembre 2001 – sul calendario è il giorno dei morti – arrivò «il più alto risarcimento mai pagato da un’azienda» (il che presuppone una colpa, direbbe un profano) «ma gli imputati tutti assolti». In sintesi: 157 operai furono certamente uccisi dal cancro ma l’unico killer era il Cvm (cloruro di vinile monomero, non processabile dagli umani in quanto sostanza chimica) con complici e mandanti ignoti.

Che il Cvm fosse cancerogeno gli scienziati e dunque anche i vertici di Montedison, Enimont ed Enichem lo sapevano quantomeno dal 1969 e dai successivi esperimenti (tenuti segreti) affidati nel 1972 al celebre oncologo Cesare Maltoni.

Lo sapevano anche gli operai che iniziavano ad ammalarsi e poi a morire.

Alcuni libri hanno provato a indagare, prima e dopo il processo, cosa accadeva a Marghera. Il primo fu lo sconvolgente, sin dal titolo, «Mortedison» che uscì nel 1973 da una piccola casa editrice che subito scomparve. Gran parte del libro racconta – con una sequenza fotografica – di un fantoccio “nudo” legato a una croce e con una maschera antigas che venne legato ai cancelli del Petrolchimico durante lo sciopero generale dell’industria il 27 febbraio 1973 nel tentativo di rompere un silenzio che coinvolgeva anche i vertici sindacali.

Un altro libro importante, di Paolo Rabitti, uscì nel 1998 dalla napoletana Cuen: «Cronache dalla chimica: Marghera e le altre», aveva la prefazione di Felice Casson, pubblico ministero al processo contro Montedison. Non solo a Marghera dunque: il Cvm e il suo “cugino” Pvc (polivinil cloruro) uccidevano anche a Ravenna, Terni, Brindisi, Bollate, Villadossola, Ferrara, Rosignano, Ferrandina, Assemini, Porto Torres, Borgaro e Samarate? Una domanda che, a livello ufficiale, non ha avuto una chiara risposta.

Anche dopo il processo alla Montedison sono usciti libri importanti e vale segnalarne almeno due. Il primo (da Feltrinelli) è di «Petrolkiller» di Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese; in appendice «i documenti segreti delle aziende chimiche». Il secondo s’intitola «Processo a Marghera» con interventi di Dario Fo e Moni Ovadia, scritto a 6 mani da Nicoletta Benatelli, Gianni Favarato, Elisio Trevisan venne pubblicato da Nuova Dimensione con l’associazione Gabriele Bertolazzo. Dentro la tragica vicenda della «Mortedison» vi sarebbe infatti anche una piccola-grande storia da raccontare, quella dell’operaio Gabriele Bertolazzo… E verrà fatto in una prossima «scor-data».

3 novembre 1793

Fu battezzata (nel 1748) Marie de Gouges ma volle farsi chiamare come sua madre, Olympe.

Ghigliottinata, il 3 novembre 1793, per aver attaccato prima Marat e poi Roberspierre, denunciando la censura e le tentazioni dittatoriali che serpeggiavano. Si tentò di farla passare per una prostituta, una pazza, forse filo-monarchica. Fu invece scrittrice e rivoluzionaria, in prima fila contro lo schiavismo, ma soprattutto femminista… con secoli d’anticipo.

Nel 1791, sulla traccia del celebre testo del 1789, scrisse la «Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina», dove chiede l’eguaglianza con una forza sino ad allora sconosciuta. Lì si può leggere questa frase che sembra un tragico presentimento: «La donna ha il diritto di salire sul patibolo; ella dovrà anche avere il diritto di salire sulla tribuna». Purtroppo le venne riconosciuto il primo diritto, “perdere la testa”, mentre veniva negato a lei (e alle altre) il secondo; infatti il procuratore Pierre Chaumette, compiacendosi per la condanna a morte, chiarì che la sua principale colpa era «aver dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso», in testa il silenzio e la sottomissione.

In carcere, Olympe de Gouges chiese (invano) di avere un processo regolare e riuscì a fare uscire clandestinamente dalla cella due suoi testi. Ma ormai era tardi.

Orgogliosa della sua indipendenza (anche economica e sessuale, rifiutando il matrimonio) sino a scrivere: «Non devo nulla al sapere degli uomini. Io sono la mia opera».

Con i suoi scritti e con il suo impegno ottenne che le donne venissero ammesse alle manifestazioni più importanti (il 3 giugno e poi il 14 luglio alla commemorazione della presa della Bastiglia). Chiese che il divorzio fosse consentito… e non solo, con sotterfugi, alle donne ricche. Con forza chiese protezione e diritti per i disoccupati ma anche per l’infanzia compresi i figli nati fuori dal matrimonio e non riconosciuti (come invece era accaduto a lei, certamente frutto di un amore extra-coniugale).

Due anni fa la casa editrice Medusa ha pubblicato «La musa barbara», a cura di Franca Zanelli Quarantini, con gli «scritti politici 1788-1793» di Olympe de Gouges.

Nella impressionante «Risposta al cittadino Robespierre», scritta poche ore prima di essere ghigliottinata, Olympe fra l’altro attacca «quel miserabile Marat, vero pulcinella» della contro-rivoluzione e poi attacca: «Ti compiango Robespierre e ti aborro […] Come sei lontano dall’innocenza […] Dimmi Robespierre, perché ti hanno visto tuonare contro i filosofi […] cui dobbiamo la distruzione dei tiranni? Volevi forse istruire i cittadini mediante una convenzione ignorante, per trasformarla in un’assemblea di bifolchi? O non cercavi piuttosto di dominare su tutti?». Per concludere: «Tu non sei che la caricatura di un grand’uomo».

Lei fu di certo più rivoluzionaria della rivoluzione fino a credere che anche le donne e gli schiavi fossero «uomini», cioè avessero diritti.

7 novembre 1919 (di Marco D ‘Eramo)

Si sa che il 7 novembre 1917 (ma era ottobre secondo il vecchio calendario) una rivoluzione trionfò in Russia e cambiò la storia del secolo. Il 7 novembre di due anni dopo morì Margaret Fisher, vittima di una aberrazione scientifica che pure voleva cambiare la storia. Ecco come Marco D’Eramo ricostruì la vicenda in lungo articolo uscito sul quotidiano «Il manifesto» del 24 novembre 2009. (dibbì)

Questa non è solo la storia di un grande economista che uccise sua figlia per fede nel positivismo. E’ anche la vicenda di una strage di massa causata da un’aberrazione scientifica. Ed è il racconto di come una follia può essere giudicata dai contemporanei «il più decisivo progresso» nella ricerca medica. L’economista era Irving Fisher che l’attuale recessione ha riportato in auge […] Un mos tro sacro come Aloys Schumpeter lo definiva «il più grande economista che l’America abbia mai prodotto». […]

Con la stessa certezza con cui esprimeva i suoi pareri economici, Fisher si battè per molte altre cause. […] Divenne igienista intransigente, vegetariano e fautore dell’eugenetica (cioè del «miglioramento della razza»). […]

Fisher divenne molto amico di John Harvey Kellogg, il miliardario quacchero fondatore dell’impero dei corn-flakes che ideò come sostituti igienisti e religiosamente accettabili al tradizionale breakfast di uova e pancetta. […] All’inizio del secolo, Fisher prese l’abitudine di portare tutta la famiglia nel famoso centro salute di Kellogg, il Battle Creek Sanatorium in Michigan, dove i Fisher praticavano idroterapia, dieta vegetariana, esercizio fisico e attenta sorveglianza della propria attività intestinale: le infezioni intestinali erano considerate particolarmente nocive dal devoto magnate. […]

Ma intorno al 1916 l’obbediente figlia del grande economista, Margaret Fisher, cominciò a dar segni di squilibrio mentale. Aveva passato i 20 anni ma ancora viveva coi genitori e lavorava come segretaria personale del padre che nel 1918 le trovò un appropriato giovane con cui accasarsi. Ma proprio allora la ragazza cominciò ad avere allucinazioni auditive, a parlare di miracoli, a comportarsi in modo strano. Margaret fu ricoverata nell’aurea istituzione in cui allora i richhi d’America solevano rinchiudere la follia familiare, il Bloomingdale Asylum a White Plan. Ma lì fu diagnosticata schizofrenica e non maniaca depressiva: una diagnosi grave perchè a quel tempo la schizofrenia era considerata incurabile.

Fu allora che i Fisher sentirono parlare dello psichiatria (allora si diceva «alienista»)Henry Aloysius Cotton e della sua «portentosa scoperta». Dal punto di vista universitario Cotton aveva tutte le carte in regola […]. Non è possibile comprendere il favore con cui fu accolta la sua «scoperta» senza immergersi nel clima dell’epoca, in cui faceva furore il «paradigma infettivo». Risaliva a pochi decenni prima la scoperta di Louis Pasteur e Robert Koch, tra gli altri, del ruolo giocato dagli agenti patogeni nel causare e diffondere alcune malattie. Era quel che Paolo Vineis ha chiamato il paradigma mono-causale: la malattia come unico effetto di un’unica causa bacillo, germe o virus […] Altre patologie risultavano elusive e irriducibili a questo schema: reumatismi, artriti, nefriti. E naturalmente le «malattie mentali» che allora erano attribuite alla «degenerazione» per tare ereditarie o invece, sulla scia di Freud, ai traumi infantili: ambedue tesi che Cotton qualificava di «pseudoscienza».

Al loro posto propose una teoria rivoluzionaria «che riduceva tutta l’eterogenea miriade di manifestazioni della follia a un’unica causa soggiacente» (Andrew Scull): la chiave stava nei germi e nel pus. […]. Intorno al 1915 Cotton cominciò perciò a investigare sistematicamente i suoi pazienti con raggi X, microscopi e altri macchinari per individuare le sepsi focali della follia che si nascondevano nel corpo per minare la mente. E questi germi Cotton li individuò, o credette di averli stanati, nelle gengive dei denti e poi nello stomaco, negli intestini, nel collo dell’utero. Una volta individuati essi potevano essere eliminati e così guarire «l’85 dei casi di follia»: allora non esistevano gli antibiotici e l’unica via praticabile per eliminare i germi sembrava l’asportazione. Dal 1916 Cotton cominciò perciò a rimuovere denti. E se la follia permaneva passò alle tonsille, ai seni nasali. Poi al colon, alle milze per una progressiva pulizia del corpo dei pazienti.

Può sembrare un delirio ma questa teoria fu accolta addirittura con entusiasmo dalla buona borghesia statunitense. […] La scienza moderna mostrava che c’è un germe della follia, un batterio dell’insania e che basta rimuoverlo per condonare alle famiglie l’inferno casalingo: basta rimuovere un dente, o al massimo un tratto dell’intestino, e tutto tornerà normale. Alienati e alienate benestanti si precipitarono al manicomio di Trenton dai quattro angoli degli Usa, pronti a pagare prezzi esorbitanti per farsi asportare la follia.

Nel 1919 anche Irving Fisher affidò sua figlia a Cotton. […] Dopo gli esami, Cotton diagnosticò un allargamento del colon con impossibilità di usare i raggi X e quindi la necessità di una laparotomia. Poi Cotton scoprì che anche «il collo dell’utero era eroso». La diagnosi di Cotton lasciava aperto ai Fisher uno spiraglio di speranza […] Ad agosto accettarono la rimozione del collo dell’utero della figlia […] Il 15 agosto Margaret fu operata […] Questa volta l’infezione scoppiò davvero nel corpo martoriato e il 7 novembre 1919 Margaret Fisher morì.

Ma era il prezzo del progresso: Cotton citò il caso in conferenze pubbliche e Fisher continuò a credere alla teoria della sepsi focale. […] Le malattie mentali stavano crescendo a un tasso quattro volte più rapido della popolazione ma, scriveva il «New York Times», grazie a Cotton «c’è speranza».[…]

Margaret Fisher non fu la sola a rimanere sotto i ferri del dottor Cotton: lui stesso riconobbe che il tasso di mortalità era del 30% ma un assistente di Adolf Mayer condusse uno studio accurato sulle cartelle cliniche e concluse che il tasso di mortalità era del 45%: quando gli furono presentati questi dati, il boss di Cotton, Adolf Meyer, soppresse i risultati e lasciò che la strage continuasse.

Come scrive in «Madhouse» il massimo esperto della vicenda, Andrew Scull, «quando Cotton morì nel 1933, centinaia di pazienti erano morti e altre migliaia erano stati mutilati». Anche se chirurgia addominale cessò con la sua morte, le altre tecniche di Cotton continuarono a essere usate per quasi tre decenni […] Le sue vittime inclusero amaramente i suoi propri figli, Henry Junior e Adolph, cui furono strappati i denti come misura profilattica per la loro immatricolazione a Princeton. In seguito, ambedue si suicidarono.

8 novembre 63 avanti Cristo

«Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?» (ovvero Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?) è l’esordio durissimo – e inatteso – della prima catilinaria (cioè orazione contro Lucio Sergio Catilina) di Cicerone pronunciata l’8 novembre del 63 avanti Cristo.

La prima catilinaria rimase celebre come modello di oratoria (e di traduzione per studenti liceali) ma venne anche decantata per il coraggio di Cicerone che così salvò Roma. Questa seconda verità è assai più dubbia perché sui fatti ci resta solo la versione di Cicerone.

Se la frase «fino a quando Catilina, abuserai della nostra pazienza?» è rimasta proverbiale, via traduzione, nel linguaggio comune, una esclamazione successiva – «O tempora, o mores» – viene ancora oggi citata direttamente in latino (o nel «latinorum» deformato dei finti dotti) più o meno a proposito.

Dopo 2074 anni, il Senato che ha sede a Roma non è propriamente quello di Cicerone e Catilina (o forse sì per le congiure, assai meno per la qualità oratoria) ma retorica vuole che l’antica Roma sia sotto gli occhi della nuova: così a palazzo Madama un affresco di Cesare Macconi raffigura Cicerone contro Catilina in un’orgia di tuniche (o toghe? ah saperlo) bianche.

L’unica versione dei fatti che ci è stata tramandata vuole che l’8 novembre Marco Tullio Cicerone si presenti al Senato romano (nel tempio di Giove Statore) dopo aver sventato un attentato degli uomini di Catilina e che subito attacchi il lì presente mandante.

Secondo quanto ci è stato raccontato (sempre dal suo nemico Cicerone) Catilina è un buon soldato «ma crudele» poi questore, legato, edile, pretore – 4 termini che oggi hanno radicalmente mutato significato – infine governatore dell’Africa nel 67. L’anno successivo si candida a console, viene accusato (ma poi assolto) di concussione e abuso di potere. Non è chiaro se il Senato, spaventato dalle ambizioni di Catilina, incarichi Cicerone di attaccarlo o se fu il brillante “avvocato” a sceglierlo come bersaglio per la sua “arrampicata” politica. Già nel suo discorso di candidatura al Senato – «In toga candida» (da qui deriva il termine candidato, dunque legato alla bianchezza) – Cicerone inizia a costruire l’immagine fosca di Catilina, insinuando che fosse incestuoso e assassino. Sempre secondo questa visione Lucio Sergio Catilina fu un demagogo che frequentava attori e gladiatori ma anche prometteva meno tasse per conquistarsi l’appoggio della plebe; comportamenti che nel 2011 risultano incomprensibili anzi impensabili nella politica italiana.

Alla fine Catilina fugge in Etruria, attuale Toscana (da rigoroso appassionato di storia ho controllato: Renzi non era ancora nato) e poi, in circostanze non chiarissime, nel 62 dà battaglia vicino all’attuale Pistoia, dove viene sconfitto e ucciso.

Anni dopo Cicerone verrà punito con l’esilio per l’uccisione illegittima di cittadini romani. E’ escluso che apprendendo la notizia abbia detto: «Sic transit gloria mundi». Di certo aveva chiesto – e ottenuto – poteri speciali per combattere Catilina. Dunque gridando al golpe altrui fece un golpe silenzioso? Questo è quel che si può dedurre, con tutte le tutele del caso, dai documenti storici che conosciamo.

Resta il grande oratore. Se il copyright fosse retroattivo ed eterno e se fossero rintracciabili i legittimi eredi di Cicerone dovremmo pagare una percentuale ogni volta che elenchiamo «in primo luogo… in secondo luogo». Infatti per memorizzare i suoi discorsi Cicerone utilizzava una tecnica che fu chiamata dei loci o delle stanze in quanto associava parole e concetti chiave alle stanze di una casa e durante il discorso immaginava di attraversare quelle stanze.

In primo luogo (appunto) fu un grande oratore.

UNA PICCOLA NOTA

Care e cari, da quando è nato Il Dirigibile (www.ildirigibile.eu ) mi impegno – non da solo però – in una rubrica quotidiana (salvo sabato e domenica) di scor-date. Eccone alcune… se le avete perse; altre (mie e non) ne trovate lì, sul colonnino di sinistra alla voce «Circostanze». (db)

Redazione
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