Quali colori per Marte?

Un primo approccio di Giuliano Spagnul alla tetralogia di Kim Stanley Robinson
“Tutto muore, prima o poi. – disse infine. –
Meglio morire pensando che non riusciremo
a vedere un’età aurea, che andarcene pensando
di portare con noi nella tomba le speranze
di successo dei nostri figli. Di aver lasciato
ai nostri discendenti ogni sorta di debiti
tossici a lungo termine.
Questo sì che sarebbe deprimente.
In questo modo, invece, dobbiamo
sentirci tristi solo per noi stessi.”

«Dal momento che impazziranno comunque, perché non inviare direttamente gente alienata e risparmiarsi il disturbo?» è ciò che Michel Duval – psicologo incaricato di selezionare gli scienziati che dovranno costituire il gruppo dei cento colonizzatori di Marte – arriva ad affermare, solo in parte, a mo’ di provocazione. In fondo, anche se non programmato in quanto tale, era un esperimento già riuscito con Philip. K. Dick in Follia per 7 clan: un manicomio lasciato a se stesso in un pianeta in cui, a distanza di anni, si scopre essere affiorata comunque una forma di società funzionante. Kim Stanley Robinson autore di questa saga monumentale (tre opere: Il rosso di Marte, Il verde di Marte e Il blu di Marte insieme a I marziani, quarto volume con miscellanea di racconti e altro a completamento dell’opera, per un totale di oltre duemila pagine) [NOTA 1] si rifà esplicitamente a uno dei temi più consueti, e triti, della fantascienza classica: la colonizzazione di un altro pianeta ma l’appartenenza al genere fantascientifico di novecentesca memoria non va oltre questo richiamo tematico. Nessuna comparazione possibile con le opere di quel genere per il quale il geniale elettrotecnico Hugo Gernsback nel 1926 coniò il termine science fiction, definendo così uno dei dispositivi di soggettivazione più efficaci nel far fronte all’enorme stress mentale (e fisico) dei cambiamenti accelerati imposti dal progresso tecnico-scientifico al servizio di un capitalismo sempre più vorace e globalizzato [NOTA 2]. Se proprio alla fantascienza vogliamo riferirci, questa non può essere intesa in altro che non sia una lettura fantascientifica della realtà; un realismo visto come se tale non fosse.
Arriva un’astronave carica di fantascienza che nel rallentare la propria velocità descrive «una serie di figure simili al ripiglino» e il suo carico di storie non serve più a farci sognare destinazioni stellari o utopie salvifiche ma a tentare di ricucire e intessere di nuovo quella trama di idee che hanno costituito, nel bene e nel male, la nostra avventura umana che ora è a rischio di disgregarsi irrimediabilmente. Sulle ceneri di un vecchio dispositivo in dismissione, l’ingombrante immaginario dell’età delle “magnifiche sorti e progressive” deve lasciare il campo a nuove capacità di immaginare i possibili della realtà presente, del qui e ora. Non a caso i cento della missione sono tutti scienziati: rappresentano quel carico di responsabilità che noi tutti abbiamo nel momento più critico della storia umana, e ciò che tutti – confusamente – pensiamo, crediamo, sogniamo per riuscire a superarlo. Un caleidoscopio di fede e scienza, razionalità e irrazionalità, ragione e sragione che non possono essere equamente divise ma si trovano in diverse alchimie frammischiate in tutti i protagonisti.
Quali criteri migliori per operare una selezione tra esseri umani già super selezionati tra i migliori scienziati mondiali se non «un’incredibile raccolta di doppi vincoli”». Sufficientemente pazzi da voler lasciare la Terra per sempre ma non fino al punto di non saper nascondere questa follia «mascherandola da semplice razionalità, curiosità scientifica o qualcosa di simile…». Fondamentalmente sapersi dimostrare «straordinari e normali al tempo stesso». Sono i primi cento, vincitori: consapevoli di aver saputo ingannare quel tanto che basta per essere prescelti, ma forse altrettanto consapevoli di essere stati a loro volta ingannati nell’aver creduto di dover mentire su una loro presunta integrità mentale quando, di fatto, era scontato per gli esaminatori che nessuno di loro potesse realmente possederla. Tipico gioco dickiano sul filo dell’ambiguo distinguo fra ciò che si possa definire normale o meno. E Philip K. Dick è – ovviamente per un’autore che su di lui ha fatto la tesi di dottorato [NOTA 3] – lo spirito guida dell’intera opera, anche se nella sostanza piuttosto che nella forma, che rimane fortemente realistica.
Come già abbiamo accennato l’idea portante dell’intero ciclo è che la missione sia stata composta esclusivamente da scienziati. E se «la parte più difficile è lasciarsi la Terra alle spalle» un grande aiuto iniziale è costituito proprio dal fatto che alle spalle si lasciano anche i militari, i politici e i potentati economici. I cento potranno approdare e muovere i primi passi in una relativa autonomia che li metterà di fronte alla possibilità di arrischiare decisioni anche contrarie al mandato loro assegnato. Tutto sta, ovviamente, a quanto questa comunità di uomini e donne sia anche comunità scientifica, mossa da ideali che trovano nella scienza stessa le ragioni della loro comune impresa. Su Marte, su un pianeta in cui partire da zero, da ere geologiche ancora prive di vita, avendo a disposizione il sapere e la tecnica di una civiltà che è stata in grado (forse anche troppo) di bruciare le proprie tappe evolutive, l’utopia illuminista racchiusa dentro la figura dello «scienziato come eroe» dell’avventura emancipativa dell’uomo sulla natura, si ritrova a fare i conti con la propria verità. La comunità che fa scienza è più divisa proprio nei fondamenti di ciò che la costituisce piuttosto che sulle singole questioni sperimentali o teoriche che comunque dopo i più aspri dibattiti troveranno sempre un’affermazione condivisa, pur se non definitiva. Il fare della scienza è sempre un prodotto della discussione e della prova, ma lo è altrettanto ciò che fonda l’essenza della pretesa scientificità di ciò che è vero e che in quanto tale certifica ciò che è falso? All’interno dell’astronave per Marte da subito, in un banale chiacchiericcio nella parentesi mondana di un pasto nella sala mensa, dove i bisogni corporali dovrebbero essere più marcatamente distinti da quelli spirituali, il carismatico John Boone – primo astronauta ad aver posato il piede su Marte nella precedente missione esplorativa – si lascia coinvolgere sul tema spinoso della fede con Phyllis Boyle, forse la più ortodossa e ligia al dovere e al sistema di cui la propria professione è parte integrante e riconoscente. Personaggio tra i meno empatici, avversario della futura rivoluzione marziana, priva di sfumature, unica nella sua ottusità a privarsi di qualsiasi possibilità di cambiamento, e che arriverà ad essere uccisa, deliberatamente, da un altro membro del gruppo, Phyllis – scienziata e cristiana – apre quella che è forse la più profonda divergenza irrisolta dentro l’apparente solidità della cittadella degli uomini di Scienza:
«-Io considero un miracolo la presenza stessa dell’universo. L’universo e tutto ciò che è in esso. Puoi forse negarlo?
Certo – rispose John. – L’universo è quel che è. Io considero miracolosa un’azione che violi decisamente le leggi conosciute della fisica. (…)
–Non so che dire John. Sono piuttosto sorpresa. Non sappiamo tutto: fingere di sì è mera arroganza. Il creato è qualcosa di misterioso. Dare a qualcosa il nome di ‘Big Bang’ e ritenere così di aver dato una spiegazione… è ragionare in modo sbagliato. Al di là del tuo pensiero logico e scientifico esiste un’immensa area di coscienza assai più importante della scienza. La fede in Dio fa parte di essa. Immagino che non ci siano alternative: o si possiede o non si può comprenderla. – Detto ciò, lasciò la stanza».
L’eco della vecchia diatriba fra scienza e religione – le quali poi, nella realtà, hanno da tempo capito il reciproco interesse a rimanere entro i limiti di un confronto a bassa intensità di conflitto – nel banale battibecco in cui Boone e Phyllis si sono lasciati, loro malgrado, irretire apre a un susseguirsi di domande dove la fede c’entra poco o niente con Dio e molto su quanto la scienza sia essa stessa questione di fede più che di prova provata dalla propria stessa scientificità o su domande sulla giustificazione etica del rendere simile alla Terra (terraformare) un altro pianeta o, piuttosto, sulla liceità del fare qualcosa per il puro e semplice fatto che, grazie alla scienza, è diventato possibile farlo, e di seguito sulla presunta neutralità e così via. Ma la scienza, per molti di loro, in ultima analisi non potrà sottrarsi a quella fede che il fisico Saxfrage Russell definisce come ecceità: la «realtà del ‘qui e ora’, nella particolare individualità di ogni momento» che gli impone di chiedersi continuamente «Cos’è questo? Cos’è questo? Cos’è questo?». Una domanda che risale il filo rosso di quei fisici «per i quali il ‘valore’ della scienza dipendeva innanzi tutto dalla nitidezza della distinzione a cui essa obbliga in rapporto ai sogni di un sapere che si ricongiunga con la verità del mondo» [NOTA 4]. Una verità che per Sax fa sì che «il significato dell’universo e la sua bellezza, sono contenuti nelle coscienze della vita intelligente» e questo ci rende, di fatto, «la coscienza dell’universo» con il conseguente «compito di diffonderla» e «di vivere ovunque sia possibile». Per molti degli scienziati è così, come è per Sax, ma non per tutti, o comunque non nello stesso modo. La viriditas della specialista giapponese in sistemi di supporto vitale Hiroko Ai fa sì che il segreto del mondo sia riposto «in questo momento, in sé stesso» che coincide con «l’intera realtà in cui viviamo». Solo apparentemente simile all’ecceità di Sax, da uno stesso punto di vista i due guardano le cose in modo affatto opposto: «guardando le cose dal lato verde, Hiroko affrontava il mistero, lo amava ed esso la rendeva felice… era la viriditas, un potere sacro. Guardandole dal lato bianco, nel confrontarsi con qualcosa di misterioso Sax vedeva il Grande Inspiegabile, pericoloso e terribile. Lui era interessato alla verità, mentre Hiroko lo era al reale. O forse il contrario. Quelle erano parole ingannevoli». Ma ancora più la verità del fisico si scontra con quella della geologa Ann Clayborne che criticando la liceità di trasformare a immagine e somiglianza della Terra un pianeta alieno – cioè usare la scienza per imporre un determinato valore che si vuole universale o comunque migliore – porta avanti l’idea che gli stessi valori, di fatto valori umani, possano essere «incastonati nella fisica» cioè nella stessa materia che la scienza vorrebbe considerare inerte e a propria disposizione. Di fatto scienza vuol dire molte cose, contiene in sé una rivoluzione del pensiero e sarebbe poco scientifico relegarla a uno scopo superiore trascendente la nostra umana contingenza storica. Ed è così per l’ingegnere russo Arkadin Bogdanov in polemica con Sax e deciso a voler cambiare le regole d’ingaggio della missione che proclama: «Siamo venuti su Marte con i migliori propositi. Ne trarremo non solo la nostra casa e il nostro sostentamento, ma anche l’acqua, l’aria stessa che respiriamo… e tutto su un pianeta che non possiede nessuna di queste cose. E possiamo farlo perché abbiamo una tecnologia in grado di manipolare la materia fino a livello molecolare. È un’abilità straordinaria, pensateci! E ugualmente alcuni accetteranno di trasformare l’intera realtà fisica di questo pianeta senza muovere un dito per cambiare se stessi o il loro modo di vivere. Siamo scienziati del ventunesimo secolo sbarcati su Marte, ma al tempo stesso viviamo in sistemi sociali del diciannovesimo secolo, basati su ideologie risalenti al diciassettesimo. È assurdo, è pazzesco, è… è…- si portò le mani alla testa e gridò: -È poco scientifico! Perciò affermo che fra ciò che trasformeremo laggiù dovrebbe esserci anche il nostro io, la nostra realtà sociale. Dobbiamo terraformare non solo Marte, ma anche noi stessi».

Ed è qui – in questa zona di confine in cui la realtà è come momentaneamente sospesa in un inconsueto prestare attenzione a ciò che le azioni dei protagonisti, inevitabilmente, produrranno – che si opera il più scientifico che la rivoluzione illuminista conteneva in nuce. Nell’unico momento di possibile libertà, in un ipotetico luogo altro, distaccato e lontano, la scienza, con i suoi umanissimi eroi, può vedere il cordone che l’alimenta, la governa e la sfrutta e decidere se reciderlo o meno. I cento protagonisti possono vedere il potere che hanno lasciato alle loro spalle, sulla Terra, per quello che è: una «pericolosa astrazione modernista del suolo attraverso la figura di investitori a lunga distanza che non sono mai stati in un posto e hanno ancora l’incredibile potere di cambiare completamente l’ecologia di quei luoghi, di reimmaginarlo come un luogo per soltanto un tipo di risorsa, che sia qualcosa che c’è o qualcosa che non c’è ma che stanno per mettere lì» [NOTA 5]. Quale possibilità ci può essere per quel più scientifico «fintanto che consentiremo solo a coloro che rivendicano il diritto di trasferire denaro in giro di essere gli unici ad avere voce in capitolo?». [NOTA 6]. La rivoluzione marziana attraverserà così tutta l’opera con sconfitte e vittorie sino a un finale aperto, come si sarebbe auspicato per tutte le rivoluzioni della nostra storia passata. Ma al di fuori dei numerosi capitoli emozionanti che si leggono col fiato sospeso, come nei migliori romanzi d’avventura, il cuore dell’opera è affidato a quella cospicua serie di pagine di descrizione paesaggistica, quel non prettamente necessario alla storia che qualcuno avrebbe forse preferito fosse espunto per renderla più scorrevole e avvincente. In realtà stiamo parlando dell’oggetto della scienza stessa: la natura, con i propri segreti, che lo scienziato vuole gli siano rivelati come «premio offerto alla virtù virile – virtù della mente, s’intende» [NOTA 7]. Il terreno, la terra su cui noi bipedi terrestri abbiamo poggiato i piedi per la prima volta nella nostra così vantata posizione eretta. Ann Clayborne sarà la più strenua paladina del rosso di Marte, della sua materialità primigenia. Rappresenta il rifiuto della natura a concedersi come entità passiva, oggetto per ogni stupro possibile. E che si voglia, da parte dei suoi colleghi, considerare il suo atteggiamento come un fanatismo conseguente alle molestie sessuali da lei subite in gioventù non dimostra altro che la difficoltà nel riconoscere la relazionalità reciproca che si deve avere con tutto ciò che si mostra avanti a noi nella sua oggettivazione di cosa, di materia, di natura. Per quanto distorto e fanatico l’amore di Ann per ciò che consideriamo inerte, quindi morto, esprime quella grande necessità di cambiamento del nostro rapporto con il mondo. Lo strenuo conflitto che continuerà ad affiorare come un fiume carsico con Sax, il paladino della vita e della sua propagazione ad oltranza, porterà entrambi a una radicale, per quanto sofferta, trasformazione. C’è poco di utopico in questa terraformazione di Marte, per quanto sia cosparsa, in embrione, di tutte le utopie immaginate e da immaginare: da quella del progresso scientifico tout court che aspira al raggiungimento dell’immortalità dell’uomo, all’aerofonia rossa di Ann, alla viriditas di Hiroko, all’ecopoiesi delle nuove generazioni nate su Marte, al socialismo anarcoide di Arkadin… ma alla fine la consapevolezza che tutto, prima o poi, muore rompe la presunzione di ogni utopia salvifica. Anche la rivoluzione, questa vecchia parola che aveva mosso la storia di milioni di individui nel tempo, doveva lasciare il posto a qualcosa di necessariamente nuovo, anche se ancora confuso. Come spiega John Boone a chi non sa distaccarsi dal passato «dovremmo inventare un nuovo programma, come dice Arkady, che include i modi più adatti per riprenderci il nostro destino. Vivendo una fantasia del passato ci state portando direttamente verso la repressione di cui vi lamentate! Dobbiamo trovare nuove modalità di vita marziana, una nuova filosofia, un’economia, una religione marziana!». John Boone verrà ucciso dal proprio fratello, l’amico fin dai tempi della gioventù Frank Chalmers (capo della spedizione americana). Per invidia o per gelosia per l’amore per la stessa donna o per altro poco importa, come in un vero e proprio mito di fondazione la storia marziana può, così, avere inizio.

Nota 1: Pubblicati originariamente negli anni rispettivamente 1992,1993, 1996 editi in Italia da Fanucci tra il 2016 e 2017. Solamente il primo era già stato pubblicato da Mondadori nel 1995.
Nota 2: Del tutto improprio il rimando di alcuni recensori ad opere come la trilogia della Fondazione di Asimov o Dune di Herbert, o altre. Un richiamo che risulta comunque superficiale e non approfondito.
Nota 3: Oltre la tesi di dottorato è sua anche l’introduzione a Valis (nell’edizione Oscar Mondadori)
Nota 4: Isabelle Stengers, Cosmopolitiche, Luca Sossella editore, Roma, 2005, p.243
Nota 5: Anna L. Tsing in dialogo con Bruno Latour e Isabelle Stengers https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/00141844.2018.1457703
Nota 6: Anna L. Tsing in dialogo con Bruno Latour e Isabelle Stengers
Nota 7: Donna Haraway, Testimone modesta, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 67.
Infine vale segnalare una buona intervista con riferimenti a Musk:  https://jacobinitalia.it/la-fantascienza-e-il-nostro-realismo/

ALCUNE COSE MARZIANE IN “BOTTEGA”
Vale leggere almeno Crew Dragon, Marte e noi (a proposito di Marte oltre Marte. L’era del capitalismo multiplanetario di Cobol Pongide ) ma anche La tesina (altro che “maturità”) di Matteo Colombo (ovvero GUIDA  RAPIDA  ALLA  TERRAFORMAZIONE  DI  MARTE)

 

Redazione
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