Quel mostro che è la coscienza

Alcune considerazioni sul film «Nirvana» di Gabriele Salvatores

di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia  

«Di Jimi [il protagonista] mi è piaciuto il fatto che è un uomo ricco, ha una bella casa, una vita apparentemente serena e appagante e un lavoro che lo assorbe completamente ma che nonostante questo, avendo perso la sua ragazza e l’amore, vive come se fosse mutilato, preda di una dolorosa solitudine e di una profonda infelicità. Quando capisce che ha bisogno di qualcos’altro, decide di riprendersi la vita che non ha vissuto, di diventare umano, di correre rischi. “Nirvana” insomma non è solo un film d’avventura e d’azione ma al di là degli effetti speciali e ottici è soprattutto un film romantico sugli esseri umani»: così Christopher Lambert, in un’intervista.

Siamo poco più in là, nel futuro, ma in questo caso già trascorso, siamo nel Natale 2005. Siete nella vostra bella casa, vi chiamate Jimi, un inventore di videogames di successo. Siete soli, amareggiati per la fine della storia d’amore con la vostra Lisa, vi sentite pure un poco in colpa, visto che l’avevate trascurata per il vostro bellissimo e onnicomprensivo lavoro di creativi.

Soli e malinconici, proprio durante la festività natalizia, vi buttate a provare la vostra ultima creazione, dal titolo emblematico Nirvana. Chissà, magari sperate che richiudendovi in quel mondo possiate davvero raggiungere quello stato di atarassia che potrebbe essere di lenimento alla fugacità e alla sofferenza del reale. Giocate un po’, siete pure bravetti, la vostra interfaccia è a realtà virtuale, con tanto di occhiali digitali e altri apparecchi che fanno molto cyberpunk.

A un tratto un’istruzione sbagliata vi manda in totale panico, controllate tutto il listato per ben due volte, ormai ne siete sicuri, l’irreparabile è avvenuto: un virus informatico potente ha infettato irrimediabilmente il vostro gioco.

Le conseguenze sono imprevedibili, tanto da mandarvi in totale paranoia, che si aggiunge alla strana malinconia che davvero non se ne vuole andare: il protagonista del videogame, dal significativo nome di Solo, è stato dotato di una coscienza.

Vi saluta, si presenta, vi parla come se foste amici di vecchia data, un vecchio compare di bevute con cui discutere amabilmente degli ultimi anni in cui non vi siete visti, per tirare un po’ le somme dell’esistenza e porsi le grandi domande filosofiche con l’aiuto del vino.

In questo caso, Solo chiede a voi, al buon Jimi, di liberarlo dalla sua prigione virtuale: è stufo marcio della ripetitività della propria non esistenza, stanco di uccidere al comando di qualcuno che sfoga solo i propri bassi istinti.

Vuole essere liberato nell’immensa Rete, poter decidere lui dove andare, cosa fare e cosa pensare.

Siete colpiti nel profondo, la sua protesta è straordinariamente simile a come vi sentite voi, ma ci pensate su: in fondo è quello che si prospetta essere un successo strepitoso, il culmine della vostra carriera di creativi, oltre a rappresentare un discreto quanto consistente lavoro che andrebbe in fumo in pochi secondi.

Ma si sa come vanno queste cose, si è stabilito un contatto, un sentimento di empatia particolare, oltre al fatto che a Natale siamo tutti più buoni, soprattutto quando appunto siamo soli.

Così, il buon Jimi – cioè voi – decide di cancellare il programma dal database della ditta che gli fornisce lavoro, la Okosama Starr, una ponderosa e tentacolare multinazionale, aspetto che non può di certo mancare in ogni favola cyberpunk che si rispetti.

Purtroppo anche per un hacker come il buon Jimi risulta estremamente difficile entrare nel database della multinazionale senza lasciarci le penne.

Cosi rimane solo una cosa da fare, rivolgersi a esperti, ovviamente personaggi del variegato mondo della criminalità quali l’hacker dagli occhi digitali Joystick e la sua affascinante socia Naima.

Fra un pericolo e l’altro, con alle costole i killer della Okosama Starr, Jimi con l’aiuto dei suoi scalcinati soci riuscirà a cancellare il gioco, donando la libertà a Solo.

Una rapida carrellata della telecamera, alla fine della vicenda, mostra una impercettibile dissolvenza sul volto di Naima, ponendo così a Jimi la domanda fondamentale dell’esistenza e del cyberpunk: tutta questa vicenda era solo una realtà virtuale? Eravamo un gioco dentro un gioco giocato da qualcun altro?

Rimasi allibito quando vidi questo film: finalmente il panorama cinematografico italiano portava fuori dalla ristretta nicchia il cinema di fantascienza, ormai morto dopo le rapide e gloriose sorti avute nel ventennio ’50-’60.

Con un consistente sforzo produttivo, un investimento di 17 miliardi del vecchio conio, il film (del 1997) risulterà campione d’incassi, proiettando il talentuoso Gabriele Salvatores nell’olimpo dei registi italiani, onore riservato, come si sa, a pochi eletti.

Presentato al 50° Festival di Cannes fuori concorso, la pellicola si avvale degli ottimi effetti speciali creati dalla nostrana Digitalia di Milano nelle persone di Fabrizio Donvito, Stefano Marinoni e Paola Trisoglio, con i costumi creati da un sempre vivace Giorgio Armani e l’ottima scenografia di Giancarlo Basili che s’ispira ai quadri dell’artista italiano Sironi, realizzando le riprese in esterno presso l’ex stabilimento Alfa Romeo del Portello a Milano: il film annovera tra gli interpreti Christopher Lambert, qui nemmeno troppo catatonico, nel ruolo di Jimi, un simpaticissimo Diego Abatantuono nel ruolo di Solo, un grandioso Sergio Rubini, che recita per tutto il film nel suo straniante dialetto pugliese, la brava e bella Stefania Rocca nel ruolo di Naima.

Diretto con mano sicura da Salvatores, il film non fa di certo rimpiangere le pellicole statunitensi, nemmeno quando affronta di petto paragoni con l’ottimo seppur travisato «Blade Runner» (1982) di Ridley Scott e «Strange Days» (1995) di Katryn Bigelow, quest’ultimo uno dei più deludenti della regista, con un finale che lascia ampiamente delusi.

«Nirvana» pur non vantando un investimento paragonabile ai kolossal americani, si piazza ai primi posti delle classifiche, diventando il film italiano di fantascienza più venduto, con un incasso raddoppiato rispetto ai costi di produzione.

La colonna sonora di Federico De Robertis e di Mauro Pagani gioca un ruolo fondamentale nella vicenda, come anche il buon cast in cui fanno la loro comparsa molte personalità del mondo dello spettacolo nostrrano: Silvio Orlando, Paolo Rossi, Claudio Bisio e un’irriconoscibile Luisa Corna nel ruolo della Dea Kali, icona pubblicitaria del videogame.

Fu stroncato e qualche volta coccolato dalla critica nostrana. Riporto qui alcune delle considerazioni più interessanti, estrapolate dalla stampa nazionale.

«Nirvana di Gabriele Salvatores è un film che deluderà diversi critici e spettatori e altri ne manderà contenti. Ci sono, da segnare al suo attivo, la ricerca di un cinema fantastico che curiosamente è sempre stato ostile e lo sforzo produttivo di affrontarlo, un intelligente uso degli spazi scenografici e, in particolare, dei colori (davanti a certi quadri dell’ultimo capitolo, quando Jimi – il protagonista – si avvicina alla meta, si pensa a Mondrian e a Casorati) e movimenti di macchina calcolatissimi, tali da far sbiadire la scaltrezza dei cineasti hollywoodiani. Ma ci sono, da porre al passivo, uno scarto fra volontarismo e ispirazione artistica, un’evidente resistenza del “genere” all’autore che si manifesta nell’organizzazione stessa dei materiali narrativi» recita  «Avvenire», firmato da Francesco Bolzoni.

Su «La gazzetta del mezzogiorno», Oscar Iarussi scrisse: «Nirvana è un film spettacolare e di presa immediata, coinvolgente, un esempio di fantascienza sociologica, molto cyber, che rielabora con originalità suggestioni mutuate da autori della letteratura e della saggistica cibernetiche, come Philip K. Dick, Norman Spinrad, Norbert Wiener. Ma ci sono dentro anche la psichedelia di William Burroughs e Timothy Leary, i profeti “acidi” passati direttamente dall’Lsd a Internet, rapiti dalle “finestre” che la realtà virtuale potrebbe aprire sulle coscienze».

«Il genere fantascientifico non è mai stato congeniale al cinema italiano, che ha sempre dato altrove il meglio di sé, e questo Nirvana di Salvatores ne è la riconferma. Malgrado l’impegno senza precedenti e l’innegabile valore di alcune soluzioni stilistiche, il film non riesce a trovare una sua dimensione, limitandosi a ricalcare con poca originalità temi e ambientazioni già visti in passato. Le carenze della vicenda non impediscono comunque agli attori – tranne Lambert, inespressivo e spaesato come mai – di fornire delle ottime prove» recita la scheda del sito «Fantafilm» a cura di B. Lattanzi e F. De Angelis.

La tematica della vita e non vita nel mondo immaginario sognato da qualcun altro, rimanda a tematiche squisitamente di Philip K. Dick e per l’atmosfera al film della Disney «Tron» (1984), il quale recentemente ha avuto un remake con effetti speciali digitali stratosferici, «Tron: Legacy».

Ha anticipato notevolmente «Matrix» (1999) anche se, in realtà, quella tematica rimane sullo sfondo, lasciando invece intendere come il filo rosso che percorre tutta la vicenda non sia altro che la dialettica tra film e spettatore, quest’ultimo chiamato in prima persona a prendere coscienza straziante della propria non vita.

Siamo tutti Jimi Dini (questo il nome completo del protagonista), con una vita apparentemente tranquilla, ma in realtà profondamente vuota.

Il processo di liberazione del personaggio virtuale non è altro che il processo con il quale Jimi e, insieme a lui, lo spettatore, compiono nella propria effettiva presa di coscienza e dell’attuazione della propria libera scelta di uscire dalla gabbia di una realtà che tutto nullifica e ingabbia, in una vera bambagia fatta di benessere fine a se stesso, perla e culla del tardo capitalismo estremo.

«La verità m’appare d’un tratto: quest’uomo morirà presto. Di sicuro lo sa anche lui; basta che si sia guardato a uno specchio: di giorno in giorno rassomiglia sempre più al cadavere che sarà. Ecco che cos’è la loro esperienza; ecco perché mi son detto tante volte che odora di morte: è la loro ultima difesa. Il dottore vorrebbe pur credervi, vorrebbe mascherarsi l’insopportabile realtà: ch’egli è solo, che non ha capito nulla, che non ha passato; con un’intelligenza che gli s’intorbida, e un corpo che si sfascia. E allora egli ha apprestato ben bene, ha ben sistemato e imbottito il suo piccolo delirio di compensazione: dice a se stesso che progredisce»: è Jean Paul Sartre in «La nausea» (traduzione di Bruno Fonzi, la Biblioteca di Repubblica, 2003, p. 90).

Ecco dunque il vero mostro che attanaglia l’uomo: è la coscienza di sè, il precipitare fuori dall’inautenticità, l’esser propriamente se stessi, l’essere aperti alla morte.

La nostra società tecnologica ha riempito il vuoto dell’uomo con droghe e beni materiali, ha ignorato la morte, donando il benefico influsso della religione nella Rete e del corpo meccanico come perpetuazione sempiterna della coscienza effimera dell’uomo.

Ecco dunque il peso dell’esistenza vuota, la totale apertura verso la morte che porta Jimi a considerare Solo come un momento dialettico e concreto per assurgere alla verità, per compiere un percorso che lo porterà ad azzerare l’esistenza e a farsi uomo in un mondo di specchi, dove nessuna verità è data a priori e ognuno di noi deve cercarla nell’altro.

«Per ottenere una verità qualunque sul mio conto, bisogna che la ricavi tramite l’altro. L’altro è indispensabile alla mia esistenza, così come alla conoscenza che io ho di me»: ancora Jean Paul Sartre, in «L’esistenzialismo è un umanesimo» nella traduzione di G. Mursia Re (Mursia, 1990).

Ecco dunque come l’avventura di Jimi sia il viaggio che tutti dobbiamo fare insieme agli altri, in questo caso con Joystick e Naima, per giungere a quella condizione di gioia che tutti inseguiamo per tutta la vita, ma solo alcuni sembrano trovare.

«Non credo che la felicità esista; credo che esista soltanto la gioia. La gioia è quando ci si sente nel pieno delle proprie forze, della propria intelligenza, del proprio potere; quando si compie un’azione, un’azione difficile, e si riesce ad ampliare con essa il potere dell’uomo. Non il proprio potere soltanto, ma quello dell’uomo. Penso per esempio che un Gagarin o un Cooper abbiano conosciuto la gioia. [Vale a dire, sarebbe il lavoro soddisfatto?] Sì, il lavoro nel momento in cui si fa. Anche perché è il lavoro che definisce l’uomo»: così Sartre nell’intervista a Carlo Bo del 1966 («Jean Paul Sartre: i poteri dell’intellettuale» fu trasmessa su Rai Storia il 21 giugno 2011 ed è reperibile sul sito).

Tutti noi dobbiamo raggiungere dunque questo stato di nirvana, non astraendoci dalla realtà, quanto impegnandoci attivamente a cambiarla, ognuno insieme all’altro.

E questa effettivamente è rivoluzione, temi forti per un film di fantascienza italiano che, pur ricalcando tematiche e stili del più blasonato cinema statunitense, arriva a confezionare un prodotto davvero ben fatto, meritevole di ogni cineteca che si rispetti.  

Redazione
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