Questa è anche la mia città

di Noorjahan Akbar (traduzione e adattamento di Maria G. Di Rienzo)

«Questa è anche la mia città» è un documentario diretto e prodotto da una giovane afgana, Anita Haidary, del gruppo “Giovani donne per il cambiamento”. Il filmato tratta delle molestie subite in pubblico dalle donne afgane. Noorjahan Akbar è un’aderente all’associazione.

http://youngwomenforchange.org/

Sono cresciuta a Kabul e a Kabul sono stata molestata per la prima volta. In un giorno molto assolato, stavo tornando da scuola quando due uomini in motocicletta mi sbarrarono la strada e fecero commenti spiacevoli sulla mia verginità.

Come chiunque mi aveva sempre consigliato di fare, rimasi zitta e continuai a camminare, nonostante fossi piena di rabbia e disprezzo. I due uomini se ne andarono, ma tornarono dieci minuti dopo, quando ero più vicina a casa. Questa volta, mi tirarono per la sciarpa e mi sbatterono per terra. Mi ferii e con le lacrime agli occhi cominciai a urlare contro di loro. Non riuscii a fermarmi. Gridai fino a quando i due uomini non erano più che un puntolino in fondo alla strada. Ero disgustata. Ho fatto il resto della strada verso casa di corsa, piangendo.

Allora non sapevo, e ancor oggi non capisco, perché alle donne si chieda di restare zitte e di esercitare la pazienza quando subiscono violenze. La pazienza è una virtù sovrastimata. Quando avevo 11 anni ho imparato a non essere ne’ silente ne’ paziente di fronte all’ingiustizia. Tuttavia, dopo quell’episodio mi sentivo parte di una minoranza impotente. Spesso ho lasciato perdere e ho tollerato le molestie per non essere biasimata da tutti gli altri in strada, perché questa è la norma in Afghanistan.

E’ andata così sino all’aprile del 2011, quando ho trovato un gruppo di persone che la pensa come me, e ho di nuovo alzato la mia voce contro l’ingiustizia assieme alle loro. Nell’aprile 2011, quando “Giovani donne per il cambiamento” è nata fra le studentesse dei college afgani, il problema delle molestie in strada era raramente considerato dai media, dal governo e persino delle organizzazioni pro diritti umani delle donne. Nonostante il fatto che la maggioranza delle donne che escono dalle loro case nelle città afgane sono insultate, toccate contro la loro volontà e assalite in pubblico, l’istanza delle molestie in strada è sempre stata vista come violenza triviale e minore. Quel che raramente si comprende è che c’è un collegamento diretto fra le molestie in strada e altre forme di violenza e misoginia.

Le violenze in strada riflettono le credenze della nostra società sulla partecipazione delle donne a essa: cioè che le donne non appartengono allo spazio pubblico. Questo convincimento conduce alle molestie in strada, ed è la ragione per cui esse sono più frequenti nelle città, dove la presenza femminile è più forte. Le molestie hanno effetto sulla fiducia che una donna ha in se stessa e sulla sua percezione della sicurezza, e conducono a una diminuzione della partecipazione pubblica delle donne e del loro attivismo, soprattutto se sono biasimate per le aggressioni che hanno subìto. Ciò lascia il Paese con un minor numero di donne economicamente indipendenti, istruite e attive. Le donne che non hanno un’istruzione, che sono economicamente dipendenti dagli uomini delle loro famiglie, spesso non sono in grado di lottare per se stesse contro le molestie: è più frequente il fatto che subiscono violenze ancora più gravi all’interno delle loro case.

Per dimostrarlo basta studiare i casi di violenza estrema finiti sono i riflettori dei media. Sahar Gul, torturata dal marito e dalla famiglia di lui; Gulnaz, stuprata e messa in prigione; Qamar Gul violentata; Aziza rapita e stuprata a Juzjan, sono tutte donne a cui non era stata data sicurezza ne’ la scelta di avere un’istruzione, di lavorare e di essere indipendenti. Questo non significa che una donna istruita non subisce ingiustizie, significa che ha più possibilità di vivere in modo indipendente, e quindi di difendersi dalla discriminazione e dalla violenza. Se lo spazio pubblico non è reso accessibile alle donne affinché esse acquisiscano abilità e indipendenza, è futile credere che poi nelle loro case saranno al sicuro. Inoltre, se le strade non sono sicure per le donne la maggioranza delle famiglie, anche se crede nella partecipazione sociale e nell’istruzione per le donne, terrà le figlie in casa, per proteggerle. Quindi, un numero ancor minore di donne sarà attiva pubblicamente, il che farà da ostacolo a che le voci delle donne siano udite. In breve, le molestie in strada creano un circolo vizioso di violenza.

Uno dei modi più efficaci di combattere le molestie in strada, oltre alle misure legali, è suscitare consapevolezza sulla questione. “Giovani donne per il cambiamento” fa questo. Nel giugno scorso abbiamo tenuto una marcia nelle strade di Kabul contro la violenza diretta alle donne nelle strade. I media sono stati amichevoli e la polizia ha mostrato sostegno. Ciò ha dato alta visibilità all’associazione e al problema. E’ stato l’inizio del dialogo. Televisioni e radio hanno creato servizi, organizzato dibattiti, e le aderenti al nostro gruppo sono andate in tv e radio a rispondere alle domande. Oltre alla marcia, abbiamo tenuto incontri con gruppi di studenti in varie scuole ed università. Ma il nostro sogno ha cominciato a realizzarsi il mese scorso (gennaio 2012, ndt.), quando abbiamo presentato il nostro documentario sulle molestie in strada. Il documentario si chiama «Questa è anche la mia città» ed è stato prodotto da Anita Hadiary, co-fondatrice di “Giovani donne per il cambiamento”: include interviste a persone di classe sociale, occupazione, sesso ed etnia differenti che condannano le molestie in strada ed esprimono le loro opinioni sul perché esse esistono. Io credo profondamente che il cambiamento avvenga principalmente in ogni individuo e che creare discussioni pubbliche sia il primo passo per tale cambiamento. «Questa è anche la mia città» è l’inizio di un dibattito su un argomento troppo a lungo dimenticato.


Redazione
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2 commenti

  • molto spesso l’informazione prezzolata e l’opione pubblica dimentica volutamente che le donne con il burqua erano il paravento per la guerra sporca in Afganistan; oggi più che mai sono costrette a questa e ad altre forme d’oppressione. La guerra non cambia nulla!

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