Questa nuova guerra che non vogliamo vedere

A proposito di «Gulaschkanone» di Paolo Rumiz

di emmerre (*)

«La guerra puzza di cadavere, ma questo non implica che la pace odori di gelsomino. I periodi tra guerra e guerra esalano un lezzo più sottile e profondo, che a un naso sensibile e addestrato non sfugge» (Savinio)

La metafora è macabra: la cucina da campo, così somigliante ad un cannone, che produce gulasch.
Da “
Maschere per un massacro” a “Come cavalli che dormono in piedi” leggere Paolo Rumiz non è mai un’esperienza rassicurante, anche quando il suo scrivere scorre serenamente e in sintonia con la natura; ma proprio per questa sua capacità di gettare ombre inquietanti sull’oggi va apprezzato.

In questo suo ultimo racconto, una sorta di copione teatrale, dal 1914 l’ombra lunga della grande – nel doppio senso di sterminata – guerra, continua a stendersi sul presente e sul futuro, anche se nessuno sembra accorgersene.
D’altronde non c’è neppure consapevolezza che lo stato italiano è in guerra in Afghanistan dal 2001, senza neppure avere avuto la necessità di dichiararla, pur facendo migliaia di morti.

«La cosa pazzesca non è che siamo di nuovo in guerra, ma che lo siamo senza saperlo. Peggio: che non vogliamo sapere. Siamo blindati nel nostro piccolo e nel nostro privato. Non vogliamo capire che milioni di profughi ci avvertono che un mondo è finito. Che la realtà non è più il rito del nostro aperitivo serale e dello struscio […] che rischiamo di precipitare nell’abisso increduli, come nel Quattordici».

Allora l’incubo di chi sopravviveva minuto per minuto in trincea era il proiettile da 305 – pesante 442 kg – che arrivava con rumore ferroviario. Costava oltre 1000 lire dell’epoca e produceva crateri di 20 metri di profondità per 5 di diametro, disintegrando corpi e cose.
Oggi, la tecnologia di morte di un drone è più sofisticata e costosa; ma la logica – parola che non può non suonare come eufemismo – è la medesima e non fa certo distinzioni intelligenti od umanitarie tra militari e civili.

«E’ la prevalenza della macchina sull’uomo, è l’uomo che diventa carne da cannone, l’obice e il mortaio che producono anch’essi salsicce, ossibuchi e spezzatino in serie».

Ma senza dover aspettare che la macelleria militare apra una succursale dietro l’angolo, già parliamo in termini bellici e ci aggiriamo come sonnambuli nella quotidiana emergenza tra automi in uniforme e nemici fantasma.

«Come lo chiamereste voi, questo rugginoso agitarsi di lucchetti e chiavistelli, questo continuo rumor di badili, questo affannoso scavar trincee e alzare muri? […] e la macchina dei reticolati che si rimette in moto sui confini, persino qui vicino, e taglia sentieri che abbiamo sempre percorso in libertà? E’ o non è guerra?»

E su questo sfondo, si coglie il paradosso di chi, come Rumiz, ricerca e ascolta i morti per cogliere il senso estremo della vita, mentre i presunti vivi che ci camminano accanto trascinano esistenze sorde e ammutolite.
Così, mentre “ci mancano le parole giuste” e “la guerra è diventata indicibile”, l’autore raccoglie l’urlante silenzio dei cimiteri per allarmarci.
Mai abbastanza disturbante, purtroppo.

L’unica vibrazione che suona stonata è l’orizzonte europeo, assieme a qualche rimpianto per gli assetti imperiali della Belle Époque, a cui Rumiz guarda ancora con speranza. Eppure, negli anni Novanta i conflitti balcanici hanno già lacerato questa entità geo-politica e, proprio in difesa di una presunta Fortezza Europa, stretta dentro mari e reticolati, viene alimentata la paura verso gli “extracomunitari”: forse il neologismo più spietato e insensato del nostro tempo.

Paolo Rumiz, Gulaschkanone, Feltrinelli, collana ZOOM Wide, 2017

(*) RIPRESO DA https://aspettandoilcaffe.com andoilcaffe.com

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