Questa transizione energetica “non s’ha da fare”

di Giorgio Ferrari

Ricordate lo slogan siamo ancora in tempo che qualche anno fa riassumeva la necessità, a livello globale, di modificare il paradigma energetico per attutire l’impatto dei cambiamenti climatici?

Beh, forse è il caso che l’insieme del mondo ambientalista e di quella parte della politica più sensibile alle sorti del pianeta, lo rivolga al proprio interno per rivedere l’approccio fin qui tenuto nei riguardi della transizione energetica. Lo dico anche a seguito dei commenti susseguiti alla ratifica della Tassonomia UE da parte del parlamento europeo, giudicata senza mezzi termini un tradimento, come se quanto fin qui prodotto sul tema della transizione non fosse anche frutto di uno strabismo concettuale di quelle componenti sopracitate, senza dubbio più avvedute di quanto dimostrino di essere i governi e lo stesso parlamento europeo.

In estrema sintesi a me pare che la differenza sostanziale tra le due posizioni, non stia tanto nella manifestazione di intenti, quanto nei tempi e nelle modalità di attuazione, ma onde evitare di concedere al diavolo che, come si dice, si nasconde nei “particolari” un qualsivoglia pretesto, bisogna essere assolutamente certi della validità dei “fondamentali”. Ed è su questi che, fuori da ogni intento polemico, vorrei sollecitare una riflessione.

Alla base di tutto c’è un cambio epocale di paradigma che risiede, sostanzialmente, nel passaggio da un mix energetico centrato sui combustibili fossili, ad un modello “tutto elettrico” esclusivamente alimentato da energie rinnovabili (con appendice parziale di idrogeno verde). Le tappe per realizzarlo, secondo le ultimissime decisioni UE, sono: -55% di emissioni entro il 2030 con conseguente aumento della quota rinnovabili dal 40 al 45%; zero emissioni per il 2050; divieto di produzione veicoli a combustibili fossili entro il 2035; aumento della produzione di idrogeno verde da 1 a 10 milioni di t entro il 2030 a cui vanno aggiunte altre 10 milioni di t di importazione.

Come si presenta, complessivamente il bilancio di questa operazione? Tralasciando, per il momento, i costi economici, mi soffermo su alcuni aspetti “tecnici”: secondo l’IEA per produrre 1 Mwe occorrono 700 Kg di minerali strategici se si impiega il gas, mentre ne occorrono 7 t per il solare fotovoltaico, 10 t per l’eolico onshore e 15 t per quello offshore. Analogamente un automobile tradizionale impiega 40 Kg di questi materiali contro i 200 Kg di un’automobile elettrica di cui buona parte dovuti alla batteria, componente quanto mai problematico dato che al suo ciclo di vita (dall’estrazione dei minerali allo smaltimento) sono associate emissioni di CO2 eq stimate in 150-200 Kg per ogni Kwh erogabile dalla batteria.

Considerate le quantità in gioco, lo scenario che ci si presenta è sconvolgente: secondo l’IEA da qui al 2040 sarà necessario estrarre circa 190 miliardi di t di minerali con un picco di 20 miliardi di t nel solo 2040 (stimando per quell’anno una percentuale di rinnovabili pari al 70%), che da sole produrranno il 21% delle emissioni globali.

Ciò comporta che la neutralità climatica prevista nel 2050 potrà, semmai, verificarsi solo per i processi di generazione dell’energia, ma non per quelli relativi all’estrazione di materie prime con l’aggravante che questi appesantiscono significativamente l’inquinamento del suolo causato dall’estrazione e raffinazione di questi materiali. A corollario di questi macro-parametri aggiungo qualche problematica applicativa la cui soluzione non è affatto scontata: le reti elettriche cresceranno a dismisura (vedere per credere gli sviluppi previsti in Germania) con conseguente occupazione di suolo utile e per quanto le si immagini “smart” queste reti presentano ancora complessi problemi di stabilità. La mobilità elettrica ha un vero e proprio collo di bottiglia nelle stazioni di ricarica che nelle situazioni urbane comporterà un nuovo cablaggio delle rete, mentre per il traffico extraurbano (specie il trasporto merci) gli studi più avanzati fanno rizzare i capelli dato che per una stazione media si prevedono fino a 10 Mwe di potenza erogabile, prodotta in via autonoma, per cui la soluzione che al momento appare più adatta è quella di impiegare dei microreattori nucleari. Tutto ciò con lo scopo evidente di consentire ricariche rapide (paragonabili a quelle assicurate dalle odierne stazioni di servizio) che però accorciano la vita utile delle batterie anticipandone la sostituzione con conseguenze negative sul bilancio delle emissioni. Quanto alla possibilità che le tecniche di riciclo possano attutire gli effetti dell’estrattivismo, uno studio recente (Metals for clean energy, della KU Leuven) stima che per i minerali strategici non ci saranno ricadute significative nel breve termine e che solo nel 2040 queste tecniche potranno risultare tecnicamente mature ed economicamente competitive. Infine il capitolo idrogeno: la UE vuole decuplicarne sia la produzione interna che le importazioni entro il 2030. Tenuto conto che per ogni Gw di elettrolisi occorrono da 1 a 4 Gwe di energie rinnovabili aggiuntive e considerate le perdite di trasformazione dell’intero ciclo, per centrare l’obiettivo di 10 milioni di t nel 2030, si stima che occorrano 163 Gwe di potenza rinnovabile aggiuntiva, l’equivalente di 20.000 turbine eoliche da 8 Mwe. Quanto all’importazione delle altre 10 milioni di t, non si fa mistero che queste provengano da paesi limitrofi, come l’Ucraina, ma soprattutto dall’Africa.

L’insieme di questi aspetti ha un costo inimmaginabile che forse, e sottolineo forse, potrà essere alla portata dei paesi più ricchi, ma certamente non è nelle disponibilità di tutti gli altri che, oltre ad essere esclusi dai relativi benefici, saranno considerati alla stregua di una servitù dove produrre energia a basso costo: basta guardare all’Africa dove si concentrano gli interessi di tutti i paesi UE per sviluppare enormi campi eolici e fotovoltaici per produrre elettricità o idrogeno verde da esportare in Europa, mentre 600 milioni di africani non dispongono ancora di elettricità!

In buona sostanza: si alleggerisce l’impatto sull’atmosfera (la neutralità climatica è una chimera) ma si aggrava quello sul suolo, nel mentre si aumenta la disuguaglianza sociale tra nord e sud del mondo verso cui si delinea un perverso neo-colonialismo green.

Rispetto a questo scenario, qual è l’atteggiamento dell’insieme del mondo ambientalista? Fatte salve le critiche (sacrosante) per l’imbroglio della Tassonomia UE, a me sembra che si risolva in un costante richiamo a fare di più (più rinnovabili) e presto, vale a dire un atteggiamento di tipo accelerazionista del tutto alieno dal prendere in esame le contraddizioni su esposte perché, in definitiva, incurante del fatto che senza un cambiamento sostanziale nel modo di produzione capitalistico (cosa assai diversa dal rivendicare l’economia circolare, il riciclo e/o altre pratiche virtuose) il cambio del solo paradigma energetico è foriero di incalcolabili costi sociali tra cui va incluso quello di incentivare nuovi conflitti.

Le energie rinnovabili infatti, in tutte le loro forme, si basano sull’utilizzo di un certo numero di minerali, non a caso definiti strategici, senza i quali la transizione energetica non è realizzabile. Molti di questi minerali non sono nelle disponibilità dell’Occidente, ma in quelle di paesi come Russia e Cina che ne detiene (è il caso delle terre rare, ma non solo) il monopolio. E’ dalla fine della guerra fredda che gli apparati militari della Nato, degli Usa, della Germania e della Gran Bretagna studiano il modo di affrontare minacce non convenzionali come quelle rappresentate dai cambiamenti climatici e, con diverse sfumature, le conclusioni convergono sulla inevitabilità di nuove guerre rivolte all’accaparramento delle materie prime, delle fonti di energia o per il controllo dell’acqua.

L’avvento della transizione energetica ha fatto precipitare la situazione mettendo in moto interessi giganteschi che vanno ben oltre quello di salvare il pianeta; interessi che non possono arrestarsi di fronte al fatto che le supply chain (linee di fornitura) di certi materiali non siano nelle piene disponibilità dei settori industriali interessati e a prezzi competitivi: ma è proprio questo che sta succedendo da qualche anno a questa parte provocando ritardi nella produzione (auto elettriche) ed aumento dei costi delle rinnovabili.

Occorre prendere atto che siamo entrati nell’era delle guerre per le materie prime dove primeggia il tema della transizione energetica che a sua volta è propedeutica alla IV rivoluzione industriale e, non a caso, l’Occidente (allargato a Giappone, Corea del Sud e Australia) ha già circondato militarmente Russia e Cina, deliberando, nel contempo, un aumento senza precedenti delle spese per gli armamenti. In tale contesto perseverare in un atteggiamento accelerazionista sulla transizione energetica senza richiedere un contestuale abbattimento nella produzione e consumo di merci, ci rende inconsapevoli complici di queste guerre con buona pace per le sorti del pianeta e, soprattutto, dell’umanità. Ripensiamoci, siamo ancora in tempo.

LA VIGNETTA – scelta dalla “bottega” – è di Mauro Biani.

Redazione
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Un commento

  • Franco Astengo

    ALGERIA di Franco Astengo

    La crisi politica italiana, frutto della cultura del “particulare”, si trasferirà domani per un giorno in Algeria dove il presidente del consiglio dimissionario cercherà di trovare qualche aggancio utile per affrontare la crisi del gas innescata dagli esiti dell’aggressione russa verso l’Ucraina e relative conseguenze determinate dal balletto delle “reciproche sanzioni”.
    Però: quale Algeria ?
    Un’Algeria dove non passa settimana senza che la stampa riferisca di partenze in massa e di naufragi.
    I giovani se ne vanno perché non hanno alcuna prospettiva, nè lavoro nè un tetto e pochissimi svaghi. I più grandi perché la loro situazione materiale è diventata insostenibile.
    Ad aggravare tutto il regime blinda il campo politico e le libertà individuali.
    Non sono solo le condizioni economiche a indurre a partire. E’ un malessere diffuso che pesa sulla vita quotidiana. Ne scrive diffusamente l’edizione italiana di “Le monde diplomatique” di luglio in un articolo di Lkhadar Benchiba.
    Nel catenaccio l’articolo recita” Il 5 luglio 1962 la Francia lasciava l’Algeria dopo più di un secolo di dominazione coloniale. La celebrazione di questo sessantesimo anniversario sopraggiunge in un cupo clima sociale. Mentre si accentua il movimento di immigrazione clandestina, principalmente verso le coste spagnole, il regime rinvigorito da una prosperità finanziaria dovuta all’aumento degli idrocarburi si prodiga per impedire il ritorno delle manifestazioni popolari del 2019 (quelle promosse dal movimento Hirak tra il febbraio 2019 e il marzo 2020).”
    In conclusione sembra proprio che il gioco perverso delle sanzioni favorisca dittature e psuedo “democrature” (Turchia, Algeria) alimentando anche il caos libico dove, incautamente, apprendisti stregoni occidentali (in testa il nostro sedicente ministro degli esteri) hanno ripetutamente sparato a salve annunciando pacificazione nazionale e (impossibili) libere elezioni.
    Rimane il ricordo dei sessant’anni dalla Liberazione dell’Algeria: con quanto slancio i giovani democratici europei avevano seguito quella vicenda e quante ipotesi di uscire dallo schema dell’equilibrio del terrore erano state alimentate, all’epoca, dal processo di decolonizzazione dell’Africa (Ben Bella, N’Krumah, Senghor per non dimenticare Lumumba erano diventati popolari quanto Fidel Castro) e dal movimento dei non allineati.
    A quel ricordo l’appena descritta constatazione dell’oggi in Algeria diventa ancora più amara.

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