Questo carcere non è un albergo

di Gianluca Cicinelli

Più che un dibattito dovrebbe essere aperto un processo per il pestaggio organizzato dagli agenti penitenziari contro i detenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Perchè il dibattito è viziato dalla mancanza di conoscenza, che sembra voluta, sulle condizioni in cui vivono i detenuti italiani. E allora è il caso di farle conoscere queste condizioni disumane e lesive della dignità umana anche senza pestaggi, proprio a chi non le vuole conoscere. Le righe che seguono sono frutto di un’elaborazione basata sui dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Redattore Sociale e Osservatorio Diritti. Dal sito di Antigone inoltre è possibile scaricare un dossier realizzato dall’associazione stessa sull’applicazione della legge a quattro anni dall’introduzione del reato di tortura.

Al 31 dicembre 2020 i detenuti erano 53.364, contro una capienza di 50.562 posti dichiarati dal Dap. Il dato ci riporta al livello di maggio 2020, quando a causa della pandemia da covid la presenza in carcere è diminuita di circa 8 mila detenuti rispetto al mese di febbraio 2020. La regione con più detenuti e con problemi di eccedenza rispetto alla capienza prevista è la Lombardia con 7.602 detenuti contro 6.143 posti, seguita dalla Puglia con 3.501 detenuti per 2.686 posti. Naturalmente il dato per restituire con efficacia non generalista il problema andrebbe visto per ogni singolo istituto di pena. Il numero dei detenuti stranieri è di 17.334. Il dato delle presenze in carcere è andato costantemente aumentando dal 2015 al febbraio 2020 quando si contavano 60 mila detenuti, per poi ritornare allo stesso livello del 2015 in piena emergenza covid.

La capienza regolamentare degli istituti dichiarata dal Dap è passata dai 43 mila posti del 2008 ai 50500 posti disponibili nel 2020. Come abbiamo visto quindi il sovraffollamento è diminuito come dato generale ma resta critico in alcune regioni e in alcuni istituti di pena. Cala la popolazione detenuta straniera, circa 17300 detenuti al 31 dicembre 2020 contro i 19900 di fine 2019 e i 20200 del 31 dicembre 2018. La percentuale di popolazione straniera in carcere rispetto al totale dei detenuti è invece passata dal 34% del 2017 al 32,5% di fine 2020. Anche la presenza di donne in carcere segue l’andamento generale della popolazione penitenziaria: al 31 dicembre 2020 erano 2.255 le donne in carcere contro le 2.663 del 2019 e le 2.576 del 2018.
Al 31 dicembre 2020 erano 18.757 i detenuti per violazioni della legge sulle droghe contro i 21 mila del 2019, dopo una crescita costante dal 2015 al 2019. Va specificato però che la violazione della legge riguarda articoli diversi tra loro. Per esempio nel 2017 su 19.793 detenuti per droga erano 13800 quelli in carcere per produzione o traffico o detenzione di sostanze, mentre 5 mila erano ristretti per associazione finalizzata al traffico illecito.
Per quanto riguarda invece i detenuti in regime di 416 bis, cioè associazione di tipo mafioso, erano 7.274 al 31 dicembre 2020, 2 mila in più rispetto ai 5.257 del 2008.

Tragici i dati sui suicidi in prigione. Secondo il Dap si sono tolte la vita 61 persone nel 2020 nonostante il calo della popolazione carceraria, il dato più alto dal 2001 quando di suicidi se ne contarono 69. I suicidi però sono in crescita se rapportati al numero di detenuti: nel 1993, con una sovrappopolazione carceraria maggiore, si verificarono secondo il Dap 61 suicidi, come nell’anno appena trascorso.
Il numero dei detenuti condannati all’ergastolo è lievemente diminuito, passando dai 1802 del 2019, anno record, se così possiamo definirlo, contro i 1784 del 2020. L’unica battuta d’arresto si verificò tra il 2012 e il 2014, 1580 gli ergastolani, per poi riprendere a salire costantemente. Secondo i dati del Dap all’interno delle carceri ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma l’osservatorio di Antigone rileva invece una presenza di volontari di 1 ogni 7 detenuti.

La percentuale di detenuti fino a 39 anni sul totale sta calando nel corso degli anni. In generale, si tratta di una popolazione che ha sempre posseduto mediamente un basso livello di istruzione. Negli ultimi anni, rispetto al passato, vengono inflitte più pene dalla durata da 5 a 20 anni rispetto a quelle superiori ai 5. C’è una forte correlazione tra basso grado di istruzione e delinquenza. I detenuti affidati al circuito carcerario tornano a delinquere nel 68% dei casi, mentre il tasso di recidiva tra chi è affidato a misure alternative si ferma al 19%.

ciuoti

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  • «L’ennesimo fallimento delle carceri italiane»
    di Elisa Berlin (da su jacobinitalia.it)
    L’impianto carcero-centrico del sistema penale, con un tasso di sovraffollamento del 106%, ha prodotto l’emergenza contagi tra detenuti e personale.
    E alle rivolte di inizio pandemia si è risposto con l’inasprimento della repressione.
    L’epidemia da Coronavirus ha ancora una volta evidenziato le criticità del sistema penitenziario italiano. Già lo scorso ottobre, all’alba della seconda ondata, le misure adottate dall’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede per il contenimento dell’epidemia non erano riuscite a fermare il netto incremento delle positività all’interno degli istituti carcerari. Sette mesi dopo, ai ritardi nella somministrazione delle dosi di vaccino si sono aggiunte ulteriori problematiche che spaziano dall’inadeguatezza delle nuove politiche anti-sommosse alle condizioni delle persone cui è stata improvvisamente concessa la libertà senza alcun piano di reinserimento sociale.
    A fine febbraio le dosi di vaccino hanno fatto il loro ingresso anche in carcere, ma la campagna si è fin da subito rivelata incerta. Il 23 marzo il generale Francesco Paolo Figliuolo, Commissario straordinario per l’emergenza, aveva evidenziato la necessità che i detenuti rientrassero fra le categorie prioritarie. Poco più di due settimane dopo, con l’ordinanza del 9 aprile, sembrava però che le vaccinazioni nei penitenziari dovessero proseguire con gli stessi criteri indicati per la popolazione generale. 
    Territorializzazione del sistema sanitario e incertezza legata alle indicazioni contraddittorie del Governo hanno fatto sì che la percentuale di detenuti immunizzati variasse drasticamente fra regioni e istituti: il 29 marzo, per esempio, mentre a Bollate (Milano) la situazione sembrava essere sotto controllo, in Molise e in diverse province pugliesi le vaccinazioni dovevano ancora arrivare, nonostante le sollecitazioni regionali. Ulteriore elemento differenziante sono state le strategie adottate dalle diverse giunte: mentre in molte aree d’Italia le somministrazioni sono partite a marzo, approfittando delle prime dosi disponibili, alcune regioni, come il Lazio, hanno scelto di attendere Johnson & Johnson, facendo così slittare l’avvio delle vaccinazioni a data da destinarsi. 
    La speranza del Lazio era quella di sottoporre tutti i detenuti a una sola iniezione, ma nelle settimane seguenti la Regione si è trovata a fare i conti con i ritardi legati alla sospensione delle somministrazioni del vaccino degli Stati uniti e il conseguente stop temporaneo alla sua distribuzione in Europa. Così, è stata costretta a tornare sui suoi passi: come annunciato dal governatore Nicola Zingaretti, la campagna vaccinale per detenuti e agenti di polizia penitenziaria è iniziata solo il 22 aprile, con Moderna. Un ritardo facilmente evitabile, se solo il concetto di «priorità» fosse stato rispettato.
    Considerate le condizioni disumane che da decenni caratterizzano le carceri italiane, l’emergenza contagi che negli ultimi mesi ha colpito detenuti e personale penitenziario era prevedibile. L’ultimo rapporto Antigone ha denunciato un tasso di sovraffollamento del 106% – 53.697 detenuti totali a fronte dei 50.551 regolamentari –, in crescita da gennaio a questa parte. A questi andrebbero aggiunte, a detta della stessa amministrazione penitenziaria, circa 4 mila «situazioni transitorie» che porterebbero il tasso effettivo a raggiungere il 115%. Si tratta in ogni caso di una stima variabile, che in alcuni istituti – soprattutto in Puglia e Lombardia – sfiora il 200%. Tutto ciò rende impossibile non solo l’isolamento delle persone positive, ma anche il rispetto delle più basilari misure igieniche di prevenzione. 
    I dati attuali, benché allarmanti, riflettono un calo del 12% rispetto a febbraio 2020, quando i detenuti erano circa 7.500 in più. Se in prima battuta la scelta era stata quella di chiudere gli istituti per evitare l’ingresso del virus – il primo decreto legge sull’emergenza sanitaria non prendeva in considerazione le carceri, così si era optato per isolarle il più possibile –, con il decreto Cura Italia del 17 marzo 2020 il governo aveva infatti virato nella direzione opposta, favorendo lo svuotamento delle celle. Ove possibile, le incarcerazioni erano state sostituite da misure alternative (come la detenzione domiciliare per condanne inferiori a diciotto mesi), mentre era aumentata la concessione di licenze premio per le persone in semilibertà. Il Decreto Ristori del 28 ottobre aveva di fatto ricalcato le stesse indicazioni.  
    Intanto, le persone uscite dal carcere prima del previsto si sono trovate completamente abbandonate a loro stesse. Come testimoniano alcuni ex detenuti intervistati da Antigone, la scarcerazione è stata disorganizzata: «Mi hanno chiamato dall’ufficio matricola per dirmi “Oggi esci”. Non ho più capito niente. Ho chiesto se potevo andare a prendere le mie cose in cella, ma mi stavano per fare un rapporto disciplinare dato che non mi sbrigavo a uscire […] Panico, solo panico».
    La detenzione domiciliare prevede che la pena venga scontata «presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza». Anche in condizioni normali, spesso la scelta cade forzatamente sulle case di accoglienza, uniche disposte a ospitare persone rimaste completamente sole, senza un lavoro, spesso senza una famiglia e, in un terzo dei casi, con i documenti scaduti. A causa della pandemia, molte strutture di accoglienza hanno subìto chiusure o riduzione dei posti disponibili. Per chi è riuscito ad accedervi, regna lo spaesamento: «Fuori non ho casa, non ho lavoro, non ho neanche la macchina. Mia moglie ha chiesto la separazione. Ora sto aspettando di capire se c’è la possibilità di lavorare un pezzo di terra qui e ricevere uno stipendio». Tutti gli altri dovranno provvedere autonomamente alla propria reintegrazione, senza legami personali né copertura sanitaria, in una società tendenzialmente ostile e fortemente debilitata dalla pandemia. 
    Dato l’impianto carcero-centrico che caratterizza il nostro sistema penale, il fatto che le strutture preposte ad accogliere gli ex carcerati non siano in grado di far fronte agli imprevisti non dovrebbe sorprendere. Nonostante l’effetto recidivante del carcere sia ben noto – il 68% degli ex detenuti torna a delinquere – a oggi il ricorso a misure alternative, come la detenzione domiciliare o l’affidamento ai servizi sociali, rappresenta spesso l’ultima scelta. Lo stesso termine «alternative» è in realtà illusorio, tanto che, negli ultimi anni, al crescere di tali misure è aumentata anche la popolazione detenuta. In teoria, l’estensione delle soluzioni alternative dovrebbe favorire lo svuotamento delle carceri, con il conseguente miglioramento delle condizioni di vita dei carcerati: nella realtà, il numero di detenuti sembra ormai stabilmente oltre i limiti, mentre le nuove strutture destinate all’accoglienza dei condannati contribuiscono ad aumentare il controllo penale sul territorio – il cosiddetto fenomeno del net widening. 
    A caratterizzare la questione delle misure alternative, oltre alla contraddizione semantica, vi è il paradosso economico. Ogni anno, degli oltre 8 miliardi di euro spesi per l’amministrazione della giustizia, il 35% finisce nel carcere. Per il 2021 sono aumentati i fondi destinati a canoni, utenze e riparazioni strutturali, mentre sono rimasti invariati quelli per la rieducazione dei detenuti – anche interna agli istituti. Lo Stato spende circa 12€ per ogni persona nell’area penale esterna, a fronte dei 143€ per detenuto. Una reale deflazione numerica si tradurrebbe quindi in un enorme risparmio di denaro che potrebbe essere investito in soluzioni più efficaci e più economiche, potenziando gli spazi e le risorse delle strutture destinate ad accompagnare gli ex detenuti verso una nuova vita.
    Chi pensa che più fondi destinati al carcere implichino migliori condizioni di vita per i detenuti cade nuovamente in errore, e tale contraddizione riguarda in particolar modo le donne. Le detenute risentono da sempre di una doppia pena che vede, accanto alla reclusione punitiva, l’assenza di spazi a loro dedicati e di personale idoneo alle necessità femminili. Solo il 4% della popolazione detenuta è donna e così, nella stragrande maggioranza dei casi, le risorse economiche vengono dirottate agli istituti maschili. Essere in minoranza numerica non dovrebbe incidere sulla qualità di vita, ma nella realtà accade esattamente il contrario: le cinque case di reclusione femminili presenti sul territorio italiano ospitano meno di un quarto delle detenute, mentre le altre sono distribuite in sezioni femminili all’interno delle carceri maschili.
    Vivere in strutture disegnate per gli uomini significa non poter contare su un servizio di ginecologia, di ostetricia o, spesso, nemmeno su un bidet all’interno delle celle. Non in tutte le strutture che ospitano anche i figli delle detenute è previsto un pediatra. Nell’ultimo anno, la precarietà della situazione sanitaria è stata ulteriormente debilitata dai focolai registrati nelle carceri femminili di Rebibbia e Torino – in quest’ultimo caso sono stati contagiati anche dei bambini, per i quali il carcere dovrebbe rappresentare tutto fuorché il luogo di residenza. 
    Proprio in riferimento a Rebibbia, dove l’esclusiva femminile dovrebbe perlomeno garantire strutture igieniche adeguate, nel 2017 una ex detenuta dichiarava a Radio Radicale: «Siamo arrivate a essere otto nella stessa cella, con un solo bagno, in uno spazio dove cucinavamo anche». La situazione non migliora a Benevento: «Non abbiamo il bidet e spesso non possiamo neanche farci la doccia perchè manca l’acqua calda». A ciò si aggiungono quasi inesistenti opportunità lavorative mentre, in alcuni casi, viene negata persino la maternità, nonostante la tutela dei minori dovrebbe rappresentare la priorità: «Mi si sono rotte le acque in carcere. Solo dopo un’ora […] mi hanno portato in ospedale. Ci sono rimasta il tempo per partorire. Dopo tre giorni io sono tornata in carcere mentre mio figlio è rimasto in clinica: l’ho allattato a distanza tirandomi il latte con il tiralatte». In alternativa, spesso i figli vivono in carcere con la madre i primi sei anni della loro vita.
    Negli ultimi mesi, nuovi provvedimenti hanno infine riguardato il coordinamento del personale carcerario. Nel corso delle rivolte di marzo 2020 evasero decine di detenuti, interi reparti furono distrutti e si contarono 13 morti, principalmente a causa delle overdose di metadone e psicofarmaci razziati nelle farmacie. Lo scorso 29 gennaio l’allora capo della polizia Franco Gabrielli ha quindi varato alcuni piani di intervento da attuare nel caso si verificassero nuove ribellioni. Il protocollo riduce drasticamente il potere dei direttori degli istituti – legalmente responsabili della polizia penitenziaria – e accresce quello dei questori provinciali, responsabili del coordinamento delle forze armate pubbliche. In caso di rivolte, quindi, misure di «contenimento», come il dialogo o la mediazione, saranno affiancate dal dispiegamento della forza pubblica «a scopo dissuasivo»: reparto mobile, carabinieri e finanzieri potranno munirsi di idranti o elicotteri. 
    Non è chiaro se, nel redigere il nuovo piano, Gabrielli abbia agito autonomamente o in concerto con i ministri preposti – nel primo caso si tratterebbe di una netta e illegittima invasione di competenza. È evidente, però, che nel documento il capo della polizia si sia dimenticato di accennare al divieto per il personale armato di ricorrere a violenza o tortura sui detenuti – dettaglio non da poco, alla luce di quanto sembrerebbe accaduto all’epoca delle ultime rivolte. Resta egualmente imprecisato se l’ingresso dei corpi armati in carcere dovrà essere autorizzato anche dal direttore o il suo potere verrà bellamente scavalcato. Nonostante il piano preveda che gli interventi seguano «un criterio crescente di minaccia» si tratta, nel complesso, di misure tendenzialmente repressive che ancora una volta aggirano la vera radice del problema: sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie inaccettabili.
    È evidente che il carcere italiano ha fallito in quella che, anche a detta della stessa Costituzione, dovrebbe rappresentare la sua funzione primaria: la rieducazione di chi commette reati. L’esperienza carceraria, invece di colmare la frattura che si è creata fra condannati e società, l’amplifica: dietro alle sbarre la persona diventa un numero, perde diritti e dignità e vive ogni giorno all’insegna della sopravvivenza. Dopo anni di deprivazione materiale, relazionale, sessuale ed emotiva, in cui il detenuto non ha potuto sperimentare rapporti umani positivi, ha disimparato a comunicare ed è rimasto escluso dal mondo del lavoro, la recidiva diventa una conseguenza quasi necessaria. Per questo potenziare la reclusione, in un’ottica repressiva e castigante, significa rendere la pena non solo inutile, ma anche controproducente. 
    Dal Recovery Fund arriveranno all’Italia oltre 200 miliardi di euro, e una parte sarà destinata alla Giustizia e al sistema penitenziario. Lo scorso dicembre, inoltre, è stato approvato un emendamento che prevede l’allocazione di un milione e mezzo di euro per finanziare le case famiglia protette, dove le detenute madri potranno alloggiare con i figli senza che questi subiscano le mura del carcere fin dai primissimi giorni di vita. È essenziale che i prossimi investimenti riflettano un netto cambio di prospettiva: mantenere inalterate le attuali misure detentive, invece di potenziare soluzioni più economiche ed efficaci in ottica risocializzativa, potrebbe aprire la strada al collasso definitivo del sistema penale.
    Elisa Berlin è studentessa magistrale di psicologia criminologica e forense all’Università di Torino. Ha studiato psicologia a Padova e a Bristol (UK). Scrive per The Vision, per cui si occupa di tematiche sociali, di salute mentale e di genere.
    Su jacobin.italia vedi anche «Serve un’amnistia per sfollare le carceri» e «Un Green New Deal per la Decarcerazione»

  • Francesco Masala

    Comitato per la Verità e la Giustizia sulle morti nelle carceri ha scritto:

    Santa Maria Capua Vetere, la coltre del silenzio e la coperta dell’impunità

    di Sergio Segio

    Al solito, quando si parla di carcere, tutto risulta molto prevedibile. A fronte di una «orribile mattanza», con 283 agenti penitenziari che effettuano una spedizione punitiva contro i detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere accanendosi a freddo, con violenza e sadismo contro di loro, sono subito scattati i riflessi condizionati per difendere l’indifendibile e capovolgere la prospettiva con la quale si guardano i fatti. Davanti alla inoppugnabile documentazione video, anche i media, rimasti distratti e omertosi per oltre un anno, hanno dovuto pubblicare immagini e testimonianze. Di fronte alle quali, per la verità, alcuni si sono scandalizzati e hanno protestato non per ciò che le immagini mostrano, le inaudite violenze e torture persino contro reclusi disabili, ma per la violazione della privacy degli inquisiti e per la diffusione di immagini coperte da segreto. Segreto che, in questi casi, è funzionale alla tradizionale e ferrea impunità. Senza quei video oggi non si parlerebbe dell’avvenuta «mattanza» e tutto, come spesso in carcere, rimarrebbe occultato dal silenzio.
    Anche il ministero di Giustizia e il vertice dell’Amministrazione penitenziaria, a 15 mesi dai gravi avvenimenti che ovviamente ben conoscevano, come ora qualcuno comincia ad ammettere, hanno dovuto mandare a Caserta gli ispettori e sospendere gli inquisiti. Che, sino a ieri, erano tranquillamente rimasti nello stesso penitenziario, a contatto di gomito, e di manganello, con le vittime delle torture delle quali sono ora finalmente accusati. Nessuno – ci sembra – ha politicamente e pubblicamente chiesto conto dei 15 mesi di colpevole ritardo nel prendere tali provvedimenti cautelativi. Anzi.
    Assieme, per evitare fraintendimenti e ulteriori malumori dei numerosi e litigiosi sindacati della polizia penitenziaria (attivissimi nel lavoro di ufficio stampa, che da molti anni li ha portati a essere la principale, e spesso esclusiva, fonte di notizie sulle carceri per il sistema dei media, non solo mainstream), l’amministrazione del carcere ha però pensato bene di trasferire i detenuti che, con deciso coraggio, avevano denunciato i loro aguzzini, appunto 15 mesi fa. Dovendo poi convivere con loro e le loro immaginabili ritorsioni.
    Ora, tardivamente (e in ogni modo su sollecitazione della procura, poiché da sola ancora non ci era arrivata), l’amministrazione penitenziaria ha pensato di trasferire 42 reclusi. Per il loro bene e per sottrarli – dopo 15 mesi, ribadiamo – alle possibili pressioni. Va bene. Peccato che siano stati spostati non in carceri vicini, e possibilmente scelti in base all’assenza di prepotenze e violenze da parte dei custodi (il che forse non sarebbe stato facile), bensì in remote destinazioni, sino a 600 chilometri di distanza dalle famiglie. Giusto per premiarli del coraggio avuto, a proprio rischio, nel rompere il clima di paura e omertà e nel chiedere verità e giustizia.
    I 42 detenuti sono stati, peraltro, prelevati in piena notte, a ribadire se ce ne fosse bisogno, la logica e lo spirito col quale questa “protezione” sia stata disposta ed eseguita. Lo hanno denunciato il Garante dei detenuti campano Samuele Ciambriello, assieme a quello di Napoli Pietro Ioia e a quella della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore. Proprio Ciambriello aveva per primo, e da solo, 15 mesi fa denunciato i pestaggi, impedendo che calasse per sempre la coltre del silenzio e la coperta dell’impunità. Naturalmente, contro quei Garanti è già partita la virulenta campagna di attacco e delegittimazione da parte di alcuni sindacati dei poliziotti. Questa non è una novità, anzi è una consuetudine cui le cronache ci hanno abituato e che non arretra davanti a nulla e a nessuno, dato che, a suo tempo, si esercitò persino contro Alessandro Margara, capo dell’Amministrazione penitenziaria positivamente anomalo e proprio per questo presto defenestrato dall’allora Guardasigilli Olivero Diliberto.
    Lo ribadiamo sperando, contro ogni speranza, che prima o poi qualcuno, pur assai tardivamente, chieda scusa al compianto Margara, nel frattempo scomparso, il cui pensiero, scritti e l’intera sua carriera di magistrato dovrebbero essere la base e il modello per la formazione degli operatori penitenziari, a partire dai poliziotti. Di modo che la pianta cominci finalmente a produrre soprattutto frutti buoni.
    Dai filmati della «mattanza» sappiamo ora che, dei 283, uno solo ha cercato di frapporsi e limitare le violenze sui reclusi. Un percentuale che dice quel che c’è da sapere. E che dovrebbe preoccupare seriamente tutti i cittadini e forse prima ancora l’istituzione.

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