Quixote da savio

Mauro Antonio Miglieruolo sul torto di Cervantes

Davvero credete si sia trattato di una opzione in favore della saviezza, quella di Saavedra? Fornendo il ridicolo di un folle, mite e perseverante? Per completare il racconto con la tristezza di un rinsavimento che, mentre non nobilita il libro, avvilisce Chisciotte e ne ridimensione la grandezza.

Probabilmente qualcuno penserà si sia trattato di un esito obbligato, diciamo pure inevitabile. Penserà che abbia voluto dare tregua al lettore e al personaggio. Decisione chisciottesca a me sembra. Velleitaria e crudele. Ma come! Il prode Alonso, uomo di generosità e grande coraggio, che si era tuffato nel delirio, condizione ideale nella quale fingersi altro, mille altri, ridotto nei panni grigi di un borghese qualunque? Quando in effetti, per la verità, giuro, a lui interessa essere non un uomo ma un archetipo d’uomo, l’unico ammissibile e nel quale concepirsi. Essere nel più vero delle convinzioni del nobiluomo: cavaliere, riparatore di torti, campione umano della migliore umanità. Uomo che si circonda, con la fantasia se non basta la realtà, da leggiadre donzelle, servire le quali è lo scopo della vita. Classico avvocato delle cause perse, seguire le quali costituisce l’essenza tradita della professione forense (difendere per difendere, non c’è altro nell’avvocatura). Uno che ha sperimentato il vertiginoso disagio conseguente a ogni contatto con l’autenticità crudele e inconsapevolezza dell’essere umano, che solo attraverso la follia riesce bene a rappresentarsi in quel che è, nel bene e nel male, nel meglio e nel peggio. Per ritrovarsi infine, vera e propria beffa finale, la più infame di tutte, nella sciagura della “salute mentale” e il grigiore dei convenevoli, la falsità sempre in punta di lingua e appena appena una punta di rispetto nelle relazioni… mentre infuriano dispregio, pettegolezzo e calunnia. Mentre alle sue spalle (e alle tue) si mormora: « chi? Chisciotte? Quello? Il matto da legare? Non fatemi ridere, non fatemi! Il ragazzino, l’immaturo, lo scemo del villaggio, ah! ah! Ah!». Ridiamo, piangiamo, strappiamoci i capelli, esultiamo, tutto questo per te, per tutti i Chisciotti inesausti che si aggirano per il mondo a raccogliere bastonate, sbeffeggiamenti, parole fuori luogo, grazie, grazie Cavaliere dalla Trista Figura, attirando i fulmini emanati da tutta questa tristezza dell’essere e del dovere, salvi i più dalla presa d’atto, dall’obbligo di rimboccarsi le mani e dare anche loro fuori da matto, e digrignare i denti, e regolare i conti, vi ammazzerò tutti cani! Masticherò il vostro cuore ancora palpitante! Sì, l’odio che alberga nei cuori e si affaccia di tanto in tanto, Dio abbia pietà di noi! Bel favore ricondurre qualcuno alla povertà emozionale, alla verità, al vuoto di significato, alla monotonia dei giorni, dei suoi propri, come quelli di tutti. Alla irrealtà borghese.

Ah! però, sommo bene, gli viene restituito il ben dell’intelletto (quando mai l’ha avuto!). E però alla malinconica condizione che accetti d’essere come altri vuole sia, non più in quello che lo esalta, lo sazia di pienezza; accettare una realtà nella quale Chisciotte benché ritrovarsi, si smarrisce. Chisciotte in pantofole, il caffè del mattino, il giornale in mano, seduto sulla più comoda delle poltrone: la sua propria poltronaggine. Insopportabile! Crudele! Disumano.

No, non lo ammetto!

Il perché dell’errore di Cervantes

La vita, nessuna può dire di sapere cosa sia, come attraversarla, come difendersene, come spenderla, come guadagnarla e come restituirla a chi l’ha fornita. Ma soprattutto nessuno sa come arrivare allo scopo di essa, cioè al proprio essere reale (ulteriore mistificazione: può un essere umano, nel corso di una vita o di cento vite, arrivare a sé stesso? Ci arriverà un giorno, e ognuno spera sia prima della fine dei tempi ma, consideriamo, centomila anni possono dimostrarsi inadeguati a completare l’impresa!).

A parte qualche fortunato nella più lontana finis terrae, chi può vantarsi di conoscere la strada che porta a questa che è quasi una chimera? Quanti la inseguono? Chisciotte medesimo, il più intelligente di noi, nutre ampi dubbi sul suo essere effettivo reale. È uomo e non è uomo. È superuomo e demone. Soffre, è vero, le disagiate condizioni della follia ma poi, una volta reimmesso (di nuovo!) nella prigione nella quale tutti quanti noi, sia pure innocenti, scontiamo molteplici ergastoli – tanti quanti sono le vite che ci sono state affibbiate – allora cancella ogni dubbio sulla propria modestia (alle cui condizioni accetta di ridursi); e d’ogni dubbio carica la precedente che non gli appare più ideale (non con assoluta certezza). Una abiura questa, sappiatelo, che depone più contro Cervantes che contro Quixote.

Intanto non migliora la propria condizione. O supponete sia meno tormentato di quanto lo fosse prima durante gli eccessi di follia? La carità pelosa di noi uomini comuni, per definizione savi, emette sentenze implicabili, tanto implacabili quanto inique. Crudele Saavedra, come hai potuto? Come hai osato? e soprattutto come sei riuscito a restituire il prode Chisciotte, cocciuto demiurgo della rovina, all’anonimità casalinga, al disastro dello stato qualunque dell’uomo qualunque? Al sicuro, triste, cresciuto e pasciuto, noioso, disutile, vecchio… come risuona terribile oggi, questa parola!

Eppure consideriamo: anche un autore, il più infame che si voglia considerare (ma Saavedra non è certo il peggiore) ha ragione sue da spendere. La vecchiezza avanza, i dolori moltiplicano, il Deus è inevitabile che arrivi a considerare, che lasci sorgere in sé una sorta di insidiosa pena per la propria vittima, per la persona ininvidiabile ed eroica del Cavaliere dalla Triste Figura… detto tale non perché triste – sebbene triste lo sia in abbondanza – ma in quanto portatore di un destino terribile, ben più terribile di quello che appartiene a ogni vecchio. La riconduzione a norma. La diminuzione permanente. L’impossibilità di scegliere di sbagliare… altro che combattere i mulini al vento! È l’affogare nel grigiore quotidiano il destino peggiore.

Possibili motivazioni interiori

E il complesso di colpa, dove lo mettiamo il complesso di colpa? Omicidi, stragi, sofferenze, amori perduti, amori impossibili, cuori infranti, di quante nefandezze è possibile riempire un libro di altrettante gli scrittori riempiono. Io stesso, chiedo perdono, in quest’impresa mi sono cimentato. Perdono anche per Saavedra, che di cotte e di crude ne ha fatto passare tante al proprio eroe. Il più possibile, fino ad estenuarlo. O meglio, fino ad estenuarsi. Doveva essere stanco, poverino, di imporre ad Alonso Quixote, la cui tempra era in grado di sopportare tutto quello e anche altro; stanco di trascinarlo di qua e di là senza scopo, senza remissione. Facciamolo rinsavire, deve aver pensato, in vena di compassione e autoconsolazione. Collochiamolo in quiescenza. Un bel paio di pantofole e non se ne parli più. Ma si può diminuire un uomo, per salvarlo? Gli si può togliere il pane dell’aspirazione al sublime e all’elevato, bene dell’intelletto, nutrimento della vita, per dare tregua al corpo? Si può a un impiegato, un lavoratore piegato dal lavoro, a un sognatore, togliergli i sogni, distoglierlo dai suoi più significativi propositi, solo perché si crede che abbisogni di tregua; o che effettivamente la chieda?

Si può a chi, malato, sogna di ottenere tregua dalla propria malattia? Porre al cospetto della verità chi vive per combattere e, combattendo, illudersi di gloriosamente morire?

Non è dare vita questo. È dare morte. Una morte peggiore d’ogni altra morte.

Ormai però è fatto. Non si può rimediare. È tempo di bilanci, questo, non di rese dei conti. Perdoniamo tutti, Saavedra incluso. Se la vedrà con il Narratore che costruisce destini. Il Grande Tessitore. Che opera affinché noi, a nostra volta, si possa tessere disegni.

Se la vedrà per quello che c’è da vedere oltre le misere vicende umane. Per quello che possiamo vedere noi, se pure Cervantes è stato mosso dalle segrete paure che muovono Chisciotte, la responsabilità della rovina del personaggio non può essergli ascritta. Almeno non integralmente. Chisciotte precipita dentro pulsioni e impotenza riconducibili solo lontanamente, di riflesso, a Cervantes. Chisciotte precipita in sé stesso, nel proprio luogo mentale. Si è fatto grande, ha consumato tutto sé stesso, inevitabile la quiescenza. Implicita per altro nel proprio carattere. Ha voluto salvare tutti, o molti, senza riuscire a essere utile non altro che ai lettori. Inevitabile non salvi neanche sé stesso.

A Saavedra, ad essere equi, non può che essere rimproverato quanto segue: di aver saputo dell’uomo più di quanto ci abbia confidato; e saputo di Chisciotte più di quanto Chisciotte medesimo potesse sospettare.

Perché, attenzione. Non sono gli atti che testimoniano pro o contro di lui. Quel che lo denuncia è stato voler essere Salvatore, riparatore di torti, cavaliere antico, impossibile uomo senza paura (o quantomeno in grado di affrontare le proprie paure). Essere sovrano in casa sua dopo aver scelto l’impotenza quale modello di vita. Possiamo forse negare a Cervantes di aver saputo della sua creatura almeno questo: i dubbi sulla sincerità dei propositi e le effettive possibilità di realizzarli? Conoscenza da Deus questa, ben differente da quella che si attribuisce a Dio. Cioè da dio della creazione letteraria, della gratuità spinta che, con belle parole, gli autori neutralizzano. Conoscenza da Deus: conoscenza di sé proiettata su Chisciotte per iniziare a plasmarlo come personaggio.

Non mi addentro in questo argomento. Non ritengo utile far scaturire la comprensione di un testo lavorando sull’autore. Qualunque sia stata la spinta iniziale, una volta che anche l’idea abbia preso forma, l’autore perde l’iniziativa, le righe all’inizio libere sono condizionate, il personaggio si scrive da solo.

Un possibile Chisciotte

Saavedra avrebbe avuto una qualche possibilità nei confronti del proprio personaggio se non avesse permesso diventasse quel che poi è diventato (o lo stiamo facendo diventare). Ostinato, pervicace, cieco, sprezzante del pericolo, fantasioso, eroe per vocazione, non eroe davvero. I veri eroi vivono nell’anonimità e anonimamente lottano e soccombono contro i decreti del destino. I veri eroi non suscitano pietà, non la chiedono; nemmeno Chisciotte in verità, ma la suscita. Nei confronti dei veri eroi, la pietà l’è morta. Neppure il tormento della soma è loro concesso, perché subito dopo la sofferenza del lavoro, c’è quella del non lavoro. Della fame, della depressione, dell’inutilità sociale.

Per i veri eroi non così tante e differenziate le disavventure, solo le bastonate si possono paragonare. Con la differenza che Chisciotte se le vede infliggere da adulto, i veri eroi sempre: ne vengono saziati sin da piccoli. Per il resto veri e falsi eroi sono accomunati nella derisione, nell’emarginazione, nei sorrisetti di compatimento.

E tuttavia, poiché il romanzo non ha destino se non sceglie di dare la peggio ai propri infelici burattini, nonostante tutto, il vero eroe Quixote, può facilmente essere confuso con uno qualsiasi della moltitudine di eroi dei quali occorre assumere il compito di celebrarli. Povero Quixote! Quixote è solo, solo su Ronzinante, solo sul letto di vita, solo sempre, nonostante lo specchio deformato di Sancho, unica compagnia, unica verità assente presente, che l’accompagnerà, fortuna sua, nei momenti di bisogno. Solo al mondo; solo al cospetto dei Mulini al Vento (Sancho, non possiede l’immensità di coraggi necessari per assisterlo; anzi, neppure possiede il coraggio di vederli per quel che sono, che rappresentano!); solo nelle pratiche amorose, mai Dulcinee di fronte, Dulcinee vere o false, solo nel tentativo di decifrare l’essere e il non essere; solo nella desolazione che lo coglie alla fine, al termine delle avventure, costretto com’è a prendere atto che non può, non solo lui, nessuno può, la condanna dell’uomo definitiva, soltanto allora un barlume di consapevolezza arriverà per opprimerlo. Non può cambiare il mondo, non spiegarlo, poiché non se lo spiega (lo sappiamo); e dunque come, perché accettarlo? L’inspiegabile meglio gettarselo dietro le spalle, pena l’altra follia dell’aggirarsi in un buio di verità, senza speranza.

Stento a perdonarti compare mio scrittore (non mi basta il cuore negartelo: un residuo senso di equità mi induce ad assolverti). Hai offeso un amico, un fratello, un sodale. Hai offeso la parte migliore di me, fede speranza carità.

Pienezza d’insensatezze traboccante, follia mansueta, ordine dissacrato, dolore permanente e ghigno satanico, ognuno contro l’altro armato. Povero Alonso, come non sentirne la disperazione? Come non fuggire con lui nella realtà opportuna della follia? Il sollievo di sentire per un attimo, mentre il corpo patisce, la dignità è dilaniata, che la sragione sua regna, il delirio e le chimere possono essere. Lui medesimo può essere quel che forse non è, ma aspira a diventare. E lo diventa, in forza di questa forte aspirazione. Uomo di grandi coraggi, temerario persino, altruista, nobile, guerriero quanto basta, avvocato nostro. Benedizione a quelli non contenti della vita che è stata data e operano per costruirsene una seconda che meglio possa rappresentarli.

Ma quanto a lungo si può esistere nel contingente della finzione, la realtà che incalza, senza accettarla? Senza esserne travolti. Alonso può molto. Resiste a lungo. Le barricate dell’ideale, fragilissime al cospetto del reale. Eppure dura. Partendo da esse cerca l’approdo (è pazzo per davvero!) cerca l’approdo al miracolo della verità. Può esserci maggiore follia? Sì, quella della resistenza a oltranza. Dopo la quale non rimane che la sconfitta totale, accorgersi di essere nel torto, impossibilitati a continuare. Se il mondo è tanto forte, così tanto recalcitra, significa che è lui nell’ingiusto. Folle non per le azioni, per l’andarsene in giro a raddrizzare torti, a lenire, consolare… folle già nel sentire, nell’agire, nel sognare, nello stare. Il suo esistere medesimo è ingiusto. Non gli rimane che commettere l’ultima definitiva ingiustizia di negare sé stesso. Non gli rimane che l’abiura, sconfessarsi, ammettere il presente. Tutto è bene e nel bene. Per un attimo, il vertiginoso momento della disperazione chiamato verità, arriva al sodo della consapevolezza. Alla condanna. Dopo le tante menzogne, pensate, credute, l’ultima nella quale non ripone fiducia. La menzogna chiamata rassegnazione.

Diciamo allora che Quixote ammette Quixote (lo ammette quale premessa). Lo ammette nel senso di negarlo per, subito dopo, cimentarsi nell’altra impossibile impresa di cambiarlo. Di ridurlo al minimo di ogni uomo, al piccolo più piccolo. Al nulla dell’uomo qualunque. Cioè al Non-Chisciotte.

NOTA DELLA “BOTTEGA”

Segnaliamo anche il precedente La Pazzia di Chisciotte di Mauro Antonio Miglieruolo.

E siccome siamo in grande sintonia con il Quixote di Miglieruolo aggiungiamo un’ultima suggestione-provocazione. Anni fa db, parlando di giornalismo e sguardi sul mondo, ha scritto: “Un grande scrittore (amo la fantascienza e non mi vergogno di usarla anche qui) come Robert Sheckley ci aveva messo in guardia: il guaio del nostro tempo non è il donchisciottismo – che scambia i mulini a vento per giganti – ma il «sanchopanzismo» cioè continuare a vedere mulini mentre novità meravigliose e terribili accadono sotto i nostri occhi. Ma da queste parti – è noto – facciamo il tifo per Don Chisciotte”. Voi che dite?

LE IMMAGINI: la prima è un’antica edizione del libro; la seconda un fotogramma del film “maledetto” che Orson Welles iniziò, abbandonò, sognò, riprese e … mai riuscì a completare (fu “montato” nel 1992 da Jesús Franco, con il titolo «Don Quijote de Orson Welles»).

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

Un commento

  • Chisciotte manifesta follia, vera autentica, quando permette al suo creatore di costringerlo nella normalità della pazzia corrente. Da quel momento, travolto dal ridicolo che può essere letto nelle sue azioni, perde la patente d’eroe e acquisisce quella del poveruomo. Una nuova luce ne ha ridotto le dimensioni. Non è più un visionario degno d’attenzione; è un povero cieco che neppure sospetta di esserlo.

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