Quotidianità femminile in El Salvador

gravidanze infantili, sprazzi di giustizia, ollas populares e battaglie per i diritti di genere.

di Maria Teresa Messidoro (*)

Gravidanze bambine

Una indagine del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA) rivela che il matrimonio infantile è una delle pratiche nocive di maggiore impatto nel continente latinoamericano. Secondo il documento, una ogni 4 bambine si sposa o stabilisce una relazione informale di coppia prima di compiere 18 anni; in alcuni paesi questa percentuale scende a 1 su 3; inoltre, in almeno 57 paesi, solo il 55% delle donne tra i 15 e i 49 anni, sposate legalmente o informalmente, hanno la possibilità di decidere autonomamente rispetto alle relazioni sessuali e all’uso di anticoncezionali.

Il matrimonio infantile viene considerato dall’UNFPA tra le venti pratiche negative per milioni di donne e bambine, e come la mutilazione genitale femminile è ritenuta tra le più gravi.

El Salvador non fa eccezione: secondo il portale dell’Hospital Nacional de Mujeres “D.ra María Isabel Rodríguez”, 144 adolescenti tra i 10 e i 14 anni sono state iscritte nel primo trimestre del 2020 per un controllo prenatale; nello stesso periodo, sono state registrate quasi 3900 ragazze tra i 15 e i 19 anni. Purtroppo, nel secondo trimestre, le bambine registrate sono state 258, con un aumento del 79% rispetto al periodo precedente. Un aumento quasi analogo si è verificato per le gravidanze di giovani tra i 15 e i 19 anni, che alla fine di giugno sono 6581.

Se è vero che rispetto al 2019 c’è stata una diminuzione del 9,1% per le bambine tra i 10 e i 14 anni e del 17% per le adolescenti tra i 15 e i 19 anni, alcune organizzazioni femministe, come la Colectiva Feminista, ricordano che questi casi si verificano in un momento problematico per le bambine e adolescenti, costrette al confinamento obbligatorio e al rispetto di altre misure di restrizione della libertà, a causa del diffondersi del COVID.

“La quarantena non è certo sicura per le donne, soprattutto per le più giovani” afferma Morena Herrera, della Colectiva Feminista, che segnala come i servizi che dovrebbero essere offerti dagli uffici preposti della Polizia Nazionale sono stati praticamente eliminati in questo periodo.

Inoltre, potrebbe verificarsi un aumento delle gravidanze perché non sono più prioritari i servizi di salute sessuale e riproduttiva; infatti, nel primo semestre del 2019, si erano registrate 100 mila consulte di pianificazione familiare, mentre nel corrispondente semestre 2020 sono state 66 mila.

Ecco i dati forniti dalla Colectiva Feminista con i risultati di una inchiesta sulla “situazione delle donne nel contesto dell’emergenza sanitaria per COVID 19”, facendo riferimento al servizio di assistenza telefonica attivato dall’organizzazione insieme alla Agrupación Ciudadana para la depenalización del aborto y la Red de Defensoras de derechos humanos (1):

Campagna “ellas son niñas no madres”

Di fronte a questa situazione, ancora più importante è la campagna lanciata a livello internazionale da organizzazioni come Planned Parenthood Global, Amnesty International, Centro de Derechos Reproductivos, Surkuna, OSAR, MTM, Promsex, Asociación de Mujeres Axayacatl, CLACAI ed altre, con una petizione indirizzata ai governi latinoamericani affinché venga posto fine alla violenza sessuale e alla maternità forzata e si garantisca finalmente l’accesso all’informazione e ad una educazione sessuale corretta ed integrale.

E’ un invito ad alzare la voce, perché non si ripetano più casi come quello di Norma (Ecuador), che a tredici anni è rimasta in cinta dopo essere stata violentata; negatole il diritto ad abortire, fu costretta a diventare madre.

O quello analogo di Fatma (Guatemala), Susana e Lucia (Nicaragua), anche loro vittime di soprusi sessuali.

La petizione si può firmare qui http://www.ninasnomadres.org/alza-la-voz/

Pubblicità progresso?

Ai primi di luglio, in El Salvador, ha fatto scalpore la decisione del presidente Bukele di diffondere un video in cui appare una bambina con in mano un pupazzo riproducente lo stesso Bukele ed accanto una delle borse di alimenti consegnate alla popolazione nell’ambito della campagna Plan de emergencia sanitaria (PES), coordinata dalla Primera Dama, la moglie di Bukele; nel video la bambina ringrazia pubblicamente il Presidente per averle regalato il cibo.

La stessa Procuradoria para la Defensa de los Derechos Humanos di El Salvador, (PDDH), ha emesso il 2 luglio una censura pubblica nei confronti di Bukele, chiedendogli di “non utilizzare o esporre bambine e bambini nei social o in qualsiasi altro mezzo di comunicazione, con azioni che possono attentare al diritto all’infanzia”. Sempre la Procuradoria ha ricordato che tali comportamenti sono una chiara violazione dell’articolo 46 della Ley de Protección Integral de la Niñez y Adolescencia (LEPINA), entrata in vigore in El Salvador una decina di anni fa, e dell’articolo 16 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

A nulla è servita la dichiarazione della madre della bambina coinvolta, che sostiene di aver concesso l’autorizzazione alle riprese e che non ritiene poco opportuna questa pubblicità favorevole alle azioni dell’attuale Presidente e Governo.

E’ risaputo, in El Salvador come nel resto del mondo, che le immagini di bambine o bambini in messaggi pubblicitari, aiutino a vendere meglio, senza nessun rispetto dei diritti dei minori. E’ ancora più grave che tali pratiche siano utilizzate a scopi politici, quando si dovrebbero  garantire l’infanzia, non utilizzarla a proprio vantaggio, come invece dimostra compiere Bukele, abile utilizzatore dei mezzi di comunicazione. (2)

La storia infinita di Evelyn

Esattamente per quattro anni e due mesi, Evelyn Hernández  ha dovuto confrontarsi e lottare contro la legislazione salvadoregna che criminalizza le emergenze ostetriche, essendo una delle più restrittive al mondo, contemplando la penalizzazione assoluta dell’aborto, senza nessuna eccezione.

Fortunatamente, il 30 giugno di quest’anno è stata riconosciuta ufficialmente l’innocenza di Evelyn, essendosi concluso il tempo concesso dalla legge alla Fiscalía General della Repubblica Salvadoregna (FGR) per impugnare la risoluzione dell’agosto scorso, confermata anche in seconda istanza.

Il travaglio giudiziario di Evelyn era iniziato nell’aprile del 2016, quando, appena diciottenne, soffrì una emergenza ostetrica e per questo la sua famiglia la portò in ospedale per ricevere soccorso medico.  Evelyn fu invece denunciata, arrestata, ammanettata alla barella e trasportata in prigione con una sentenza di 30 anni per omicidio aggravato; nel 2018 la sentenza venne annullata per la prima volta, il processo venne ripreso nel 2019, e anche questa volta Evelyn fu assolta, ma la FGR ha intentato nuovamente il ricorso, chiedendo questa volta 40 anni di carcere. A partire dunque dal 30 giugno Evelyn può riprendere in mano il proprio progetto di vita, senza il timore di un nuovo processo, senza poter però mai dimenticare l’ingiustizia subita. (3)

Ma Evelyn non è la sola donna ad aver subito questa enorme ingiustizia: sapere della sua libertà è stato un modo per riprendere, da parte delle organizzazioni femministe salvadoregne, il tema della depenalizzazione dell’aborto; “E’ giusto liberarle!” è lo slogan della nuova campagna lanciata dall’Agrupación Ciudadana para la depenalización del aborto, con un nuovo pressante appello di richiesta di giustizia allo stato salvadoregno, quando sono ancora 16 le donne in carcere, con pene pesanti, con l’accusa di omicidio aggravato per procurato aborto.

 

Situazione aggravata dalla pandemia, che colpisce un sistema carcerario, quello salvadoregno, tra i più affollati al mondo, in un momento in cui le organizzazioni internazionali richiedono ai propri governi di rimettere in libertà o in custodia cautelare a casa le persone più vulnerabili, come appunto possono essere le donne accusate di aborto. El Salvador, secondo una recente indagine con 400 reclusi ogni 100.000 abitanti, è al secondo posto nella classifica del tasso di popolazione carceraria, dietro soltanto agli Stati Uniti, con 655.

In un articolo, apparso sulla rivista digitale Labrujula proprio questo mese, Teodora Vásquez racconta, in una intervista la sua storia, storia di un accusa infondata di aborto, per cui era stata condannata a 30 anni; dopo dieci anni e alcuni mesi, nel 2017, è stato possibile liberarla. (4)

Camila, la prima vittima trans che trovò giustizia dopo 25 anni

E’ di pochissimi giorni fa la notizia, apparsa su El Faro, che per la prima volta si è squarciata l’impunità che persiste in El Salvador, almeno dalla metà degli anni 90, sui 600 casi di assassini contro la popolazione LGBTI, delitti rimasti senza colpevoli.

Camila fu assassinata da tre agenti della Polizia Nacional Civil, il 31 gennaio 2019, ha decretato il giudice; anche se non si è riusciti a dimostrare che si sia trattato di un crimine di odio, la sentenza diventa un precedente importante in un paese in cui la popolazione LGBTI è stigmatizzata, perseguitata e violentata. I tre agenti che, secondo il giudice, sono gli unici ad aver potuto compiere l’omicidio, sono stati condannati a 20 anni di prigione: una sentenza storica, considerando il fatto che se lo slogan della PNC è “servire e proteggere prima di tutto”, in realtà sono proprio gli agenti della polizia ad essere maggiormente denunciati come aggressori delle persone trans.

A causa della pandemia, ad ascoltare la sentenza, non c’erano familiari della vittima, né amici né rappresentanti delle organizzazioni LGBTI; ma era presente il giudice Gisela Meléndez, assegnata alla Unidad de Delitos Relativos a la Niñez, Adolescencia y Mujer en su relación familiar, di Soyapango; di tutte le denunce che riceve quotidianamente, Meléndez ha deciso che questo era un caso su cui valeva la pena lavorare e lo ha fatto instancabilmente per 16 mesi, ottenendo un risultato fondamentale per i diritti della comunità trans.

La madre di Camila mostra la foto della figlia uccisa

Leggere tutta la storia qui https://elfaro.net/es/202008/el_salvador/24672/Camila-la-primera-v%C3%ADctima-trans-que-encontr%C3%B3-justicia-en-25-a%C3%B1os.htm

Una olla popular anche in El Salvador

Dalla metà degli anni 80, inizialmente in Argentina, si esperimenta la olla popular (letteralmente pentola popular), cioè la distribuzione di cibo in strada, spesso gratuita, per affrontare situazioni di crisi contingenti o di lungo respiro; questa esperienza collettiva, quasi sempre coordinata e gestita da donne, diventa una pratica sociale molto diffusa in tutto il continente latinoamericano.

Le difficoltà economiche generate dalla pandemia spingono le organizzazioni sociali ad affrontare la fame e la precarietà anche attraverso le esperienze delle ollas populares o delle mense comunitarie.

El Salvador non è da meno: dal 19 marzo le duecento operaie impiegate nella maquila Florenzi, (una delle tante imprese impiantate nel paese, che godono di privilegi fiscali dando in cambio soltanto lavoro sottopagato e sfruttamento) non ricevono lo stipendio, ritrovandosi in situazioni molto precarie: non riescono ad affrontare le emergenze sanitarie, alcune non possono più pagare il servizio elettrico, altre ancora non sanno come sfamare i propri figli. E’ dal 2010 che le operaie della Florenzi denunciano le pesanti condizioni di lavoro e lo stipendio da fame, che in alcuni periodi si è ridotto a 30 dollari mensili, una miseria anche in paese come El Salvador. E così, di fronte alla domanda di fallimento della Florenzi, oltre a manifestazioni in strada, comunicati e presidi davanti alla fabbrica, manifestazioni sotto la sede del Ministero del lavoro, le organizzazioni sindacali di base ed i collettivi femministi hanno organizzato per venerdì 21 agosto una olla popular.

Nonostante la pioggia battente, quasi un tornado dicono le partecipanti, molte donne sono state coinvolte nell’esperienza collettiva, ricevendo finalmente una zuppa con carne, cibo ambito in questi mesi di lotta e digiuno forzato. Contemporaneamente, è stato possibile denunciare pubblicamente il fatto che attraverso chiamate telefoniche nazionali e internazionali, ovviamente da numeri sconosciuti, la Florenzi sta offrendo dei soldi alle operaie perché lascino portare via i macchinari dalla fabbrica, probabilmente per impiantarli altrove. Le donne si sono rifiutate di cedere al ricatto e stanno continuando a turno a presidiare la sede della fabbrica, difendendo il proprio posto di lavoro.

La lotta continua, le donne coraggiose della Florenzi non possono essere lasciate sole. (5)

Legge contro le molestie sessuali in Costa Rica

“Sei stata seguita per strada ricevendo degli insulti sessisti? Io sì e ho paura per la mia vita tutte le volte che succede”

Le molestie sessuali contro le donne è una violenza di genere, afferma l’ex Relatrice Speciale sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite che la molestia sessuale di strada “viola il diritto della donna per ciò concerne la sua integrità morale, la sua educazione e la libertà di movimento”. Una indagine nazionale costaricense sulla Salute sessuale e riproduttiva, svolta nel 2015, ha stabilito che 3 donne su 4 subiscono azioni a carattere sessuale indesiderate, con un grave impatto sulla loro salute integrale in spazi pubblici.

Per questo, è stata accolta con soddisfazione in Costa Rica e altrove, l’approvazione della Legge 20.239, che afferma che si definisce la molestia sessuale di strada “qualsiasi tipo di comportamento con carattere sessuale e unidirezionale, senza il consenso né l’accettazione della persona o delle persone a cui sono dirette, con la possibilità di compiere in spazi pubblici molestie, intimidazione, umiliazione, insicurezza, paura e offese. (6)

Pillole di saggezza finali

Sofia Guzmán, femminista salvadoregna, giornalista e creativa regista, ci regala una riflessione ad alta voce sulla reticenza a volte delle donne di indossare alcuni abiti per paura delle molestie per strada. Lei dice “Dobbiamo capire che la molestia machista non a niente a che vedere con ciò che indossiamo o non indossiamo; perciò è ora che scacciamo per sempre il sentimento di colpa per non poter indossare ciò che vorremmo, che lo trasformiamo invece in rabbia, per aggregarlo al nostro rifiuto di tutto il sistema patriarcale. Siamo potenti, e finché viviamo e resistiamo in questo mondo possiamo vincere la battaglia noi”. (7)

 

https://www.laprensagrafica.com/elsalvador/Solicitan-a-Bukele-no-usar-fotos-de-nino-20200610-0083.html

( 5) https://revistalabrujula.com/2020/07/09/maquila-industrias-florenzi-se-declara-en-quiebra-para-no-pagar-salarios-a-trabajadoras-denuncia-sindicato/

https://www.nodal.am/2020/07/ollas-populares-y-comedores-en-america-latina-solidaridad-para-combatir-el-hambre-en-tiempos-de-pandemia/

(*) vicepresidente Associazione Lisangà culture in movimento, www.lisanga.org

Teresa Messidoro

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