Raccontare i passi, gli sguardi, le voci

di  Clementina Sandra Ammendola

Raccontare i passi, gli sguardi, le voci. I passi da gigante che tutti mi dicono
che faccio ora, qui. Passi che io ancora sento piccoli passi pieni di sguardi e
disorientati da voci. E per raccontare ad alta voce ora faccio un Laboratorio sulle
tecniche della narrazione orale, il martedì sera, dalle 18.00 alle 21.00, per
quattro mesi circa. E cammino per arrivarci, dopo il lavoro cammino, devo fare
dodici isolati e ci sono. La sede del corso è conosciuta: è la ex-Scuola
dell’Armata Argentina, ora Museo e Archivio della Memoria, si entra da Avenida
Libertador 8245. Il mio spazio sacro, ora, dove le storie diventano corpo con le
voci, dice Marcela, la nostra maestra. E il mio spazio sacro lo condivido con
Viviana, la Colorada,
la mia amica di quartiere con la quale ho fatto le magistrali
e la quale, nel 1985, mi consegna un Compito che ancora svolgo: Testimone di
Nozze. E mi fa piacere fare, di nuovo, qualcosa insieme con Viviana o Vivi o
Colorada
o Colo, che ora i suoi capelli rossi stanno diventando rossi-bianchi. E
siccome si arriva prima, Vivi porta il termos e il mate e io porto dei biscottini e si
fa un po’ di merenda e ci si racconta la settimana. Il mio nuovo spazio sacro che
mi dona un qualcosa di normalità.

Raccontare i passi, gli sguardi, le voci del mio lavoro che mi arrivano dal
corridoio. Sono seduta all’estrema destra dell’ufficio, proprio da dove si entra e
ho una specie di muro finestra che mi fa vedere il corridoio dove transitano gli
altri impiegati che sono i miei vicini di piano, diciamo. E poi siccome il nostro è il
primo ufficio sono quasi attaccata o meglio addosso alla porta di entrata al piano
e siccome i nostri vicini sono il Dipartimento di Personale e quello di
Remunerazioni, ci sono giorni che c’è un viavai di persone che suonano il
campanello, salutano, cercano, ricercano, si perdono, si ritrovano e il mio
sguardo è sempre altrove dalla mia tastiera. Perché ora ho il mio Computer sis!
Finalmente posso scrivere dal mio PC che ha la tastiera Español(Argentina), così
appare scritto nei documenti di Word. E dal mio PC posso anche ascoltare musica
ma non ho ancora il Cavo di Rete quindi sono senza Internet e forse è meglio
così. Per ora mi basta il Mondo quasi Virtuale che si crea o ricrea nel corridoio da
dove mi arrivano i passi, gli sguardi, le voci e, qualche volta, i baci delle persone
conosciute ormai che formalmente secondo loro, mi baciano, mi chiedono come
sto, con un saluto di domande-risposte: “Ciao? Come stai? Tutto bene? Sono
contento/a.” E io faccio appena in tempo a dire sis sis, grazie perché le loro voci,
i loro baci non contengono il mio spazio e il mio tempo di risposta. Dovrò
allenarmi nei saluti, vedo.

Raccontare i passi, gli sguardi, le voci del mio nuovo quartieri dove abito,
“Palermo”. E il nome del quartiere non c’entra nulla con l’ex-giocatore del Boca,
Martín Palermo che ora che non gioca più le hanno fatto la statua alta tutti i gol
che ha fatto il Palermo. Diciamo che è alta 306 centimetri perché sono i gol fatti
dal Palermo e ora la statua è al “Museo de la pasión boquense” insieme a quella
del Pibe de oro e così è sei centimetri più alta quella del Titan, dicono e Lui, il
Titan era tutto emozionato ecc ecc. E dicevo del mio quartiere, Palermo, dove
ora ho trovato chi mi fa la piega senza farmi tante proposte, in silenzio diciamo.
Il Salone è proprio a duecento metri da dove abito, “Glamour”
si chiama il Salone
e siccome è aperto fino alle 20.00 circa, quando torno dal lavoro anche se sono
di corsa, mi fanno lo stesso la piega. E sono di corsa perché quando torno dal
lavoro, il giorno che voglio lavarmi i capelli e farmi la piega, prima passo dall’
appartamento dove abito perché devo struccarmi; ho imparato che per lavarmi i
capelli e poi farmi la piega, dicono le voci, è importante avere il viso pulito.
Quindi esco di nuovo e arrivo al Salone. Esteban, si chiama così il proprietario del
locale ed è Lui chi mi fa la piega, è molto silenzioso, e ancora non ho capito le
sue origini, forse peruviano, forse boliviano, forse colombiano. Ed è tutto forse
perché Lui parla poco, proprio tre, massimo sei parole dice: “Cosa vuoi fare?” ;
“Come gli pettini?” ; “A posto, Linda, sei pettinata ora!”. E l’altra sera, mentre

aspettavo il mio turno, Esteban faceva una piega meravigliosa, impeccabile,
festosa. La Donna aveva i capelli lunghi, ordinati, da un colore castano non
proprio diciamo non originale per capirsi ed Esteban pettinava con cura, con
rispetto, sembrava quasi solenne nei suoi gesti, bravo pensavo io, proprio bravo!
Quando finisce la Donna li chiede a Esteban a che ora aprirà all’indomani, al
mattino seguente; dopo che riceve la risposta, la Donna poco imbarazzata le dice
che le porterà i soldi il giorno dopo perché era senza il bancomat e siccome
prima era andata dalla Psicologa aveva dovuto pagare la sua seduta
psicoanalitica. Bè o Mu o Miau direi, Esteban non ha fatto una piega, intendo dire
non ha detto più di tanto, il suo sguardo è stato accogliente e poi ho sentito il
suo “ci si vede domani allora” e il “buona sera” della Donna mentre si
allontanava a grandi passi.

Raccontare i passi, gli sguardi, le voci che faccio ogni giorno ora è faticoso.
Agosto ha portato i compleanni dei miei Nipoti e la terza domenica del mese, il
giorno del Bambino. E ora ho fatto famiglia, ho partecipato, per la prima volta,
alle loro Feste di Compleanno e alla Festa del Bambino ed eravamo Tutti un po’
emozionati e mio fratello faceva delle foto e le foto riportano la famiglia piccola
che siamo diventate. Perché ancora oggi la mancanza di mio Padre mi sembra
enorme, anche se non stavamo mai tutti insieme, ora Lui proprio non c’è, non ci
può raggiungere al telefono o su Skype o cose del genere. E non potremmo
spedire a Lui le nostre foto, i nostri gesti buffi da foto. E ora che sono a Buenos
Aires, incontro più persone che mi chiedono di Lui, e poi mi chiedono di me. E
cammino come cercando i passi lontani di mio Padre, i suoi allegri sguardi e la
sua voce con l’accento calabrese di una volta. E cammino senza i suoi passi
vicini, attraversando sguardi spenti, misurando la mia voce insicura e sento che
non so, che non ho i passi, gli sguardi, le voci che vorrei raccontare un’altra
volta, non ora.

Clementina Sandra Ammendola, sociologa. Abita a Buenos Aires, prima a Torino, prima a Vicenza e ancora prima a Buenos Aires. Ha scritto alcuni saggi (tra i quali: /L’allievo di origine argentina/, Progetto Alias 2003; /Immigrazione di ritorno e percorsi di cittadinanza/in /Borderlines/, Iannone 2003) e il libro /Lei, che sono io/Ella, que soy yo, /Sinnos 2005. Nel 2010, con Giulio Mozzi cura, Abitare. Un viaggio nelle case degli altri <http://libri.terre.it/libri/collana/0/libro/260/Abitare>, libro d’inchiesta, Terre di Mezzo. Prefazione di Marianella Sclavi.

Clementina S.Ammendola –  leichesonoio@gmail.com


Redazione
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Un commento

  • Un racconto bellissimo, pieno di quei sentimenti e di quello struggimento che vive chi è nato in un paese nuovo, risentendo quasi della stessa nostalgia per il paese abbandonato che provava il proprio genitore, pur senza averlo mai visto. Un disorientamento emotivo che si scarica nell’impegno sociale, nel lavoro, e che si scioglie nel ricordo. Un racconto questo, che mostra qua e là dei venialissimi errori grammaticali, propri di chi scrive perfettamente nella lingua dei propri padri ma che irrimediabilmente è parte di una altro mondo, un mondo di transizione. In quei piccoli errori c’è la storia delle persone costrette a partire in cerca di fortuna, storia di nostalgie, di perdite irreversibili, storie di vita vissuta. In quegli errori c’è la vita, sono la vita.
    Bravissima.

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